Altro che prova del fuoco, altro
che agoghè spartana.
Uscire indenni dal centro di
Mosca, in bici, con le borse, per la seconda volta, mi fa davvero sentire
vagamente onnipotente. E molto, molto fortunata. Stamattina ho fatto i 4 piani
di scale senza ascensore con il peso dei bagagli, della Signora e di un lieve
presentimento di morte imminente. Il traffico nella capitale è qualcosa di
spaventoso, un gorgo infernale che davvero fa pensare che l’umanità abbia un
po’ esagerato con questa idea dei motori e delle macchine.
Per ben 20 o 30 metri ho
approfittato di una pista ciclabile che, naturalmente, sfociava nei malefici
sottopassaggi pedonali, irti di scale che portano direttamente alla Giudecca.
L’alternativa è attraversare 8 corsie di scorrimento veloce, così, per fare il
gioco della roulette russa. Che mi pare anche azzeccata, qui. Fatto sta che,
tra una banfata e l’altra, sono riuscita a portarmi all’ideale punto di
partenza di questo nuovo viaggio: San Basilio. Nella Piazza rossa in bici non
si può entrare, quindi mi sono accontentata di un saluto rapido, un commiato
appena sussurrato come si fa quando si vuol nascondere la commozione. E sotto
la protezione di quei colori e del folle di dio che predicava nudo nella neve,
sono partita.
Buttarsi nelle grandi arterie
moscovite è davvero come fare un salto nel vuoto, un vuoto che però è fin
troppo materico e solido per non solleticare l’istinto di sopravvivenza. Ho
girato intorno al centro fino alla Moscova, e da lì via verso est, per
imboccare la M7 che mi farà compagnia per migliaia di kilometri. I vialoni non
sono costipati, il traffico è un continuo fiume che scorre fin troppo in fretta
e richiede rapidissime decisioni sulle svolte e gli incroci; per fortuna non ci
sono stati né errori né intoppi, e in breve, con qualche saliscendi, sono
arrivata fuori dal centro.
Lì, incredibilmente, l’autostrada era a dir poco
bloccata. Auto, camion, pullman e mezzi di ogni sorta fermi in coda. Il che non
è affatto male: è come pedalare accanto ad un innocuo muro.
Ovunque si vedono, tra i più
poveri, occhi a mandorla e volti orientali: lo spazzino, l’operaio sporco di
fatica e la donna che vende le uova sull’asfalto. In America sono ispanici e
neri, qui loro. Proprio vero che l’ingiustizia non ha colore né patria.
Poco a
poco il cemento ha finalmente ceduto il passo ai prati enormi, con fiori altissimi
simili alla nostra cicuta ma terribilmente più grandi, ombrellini per
dinosauri, e agli amati boschi di pini e betulle. Il vento portava un profumo
di corteccia e resina sacro, incenso della preghiera del tutto, della natura
che vive e pulsa di linfa, che freme alla carezza del vento. Che meraviglia
andare e fondersi con l’azzurro e le radici.
In questa immersione nel fiume di
Eraclito, senza accorgermene, sono arrivata alla meta di oggi: la pregiatissima
Elektrogorsk.
Un simbolo del brutto. Un brutto così sfacciato da diventare
meraviglioso, imperdibile perla del degrado post sovietico. La città, in quanto
tale, nasce nel 1946 (il 25 aprile), su quel che, fin dal 1912, era stato un
insediamento di operai impiegati nella più grande centrale elettrica a torba
dell’impero (e dell’unione). Il nome stesso del paese (oggi conta 20.000 anime)
e lo stemma, una saetta, lo ricordano… Ma soprattutto ne è prova l’orripilante
ecomostro con ciminiera che è simbolo della città. Se ciò non bastasse a far
venire la pelle d’oca, aggiungiamo che nel 1956, in piena guerra fredda, è
stato qui fondato un centro di ricerca per la “sicurezza nucleare”. E non è
tutto. Nel 1967 viene aperta una raffineria e nel 1984 una casa farmaceutica
(si legge “bio-industriale”), Antigen, si fa conoscere nel mondo per i suoi
brevetti. Infatti una delle prime cose che si possono apprezzare in paese, dopo
i palazzoni, è una lapide che ricorda operai e scienziati morti per le
radiazioni. Gli altri, almeno alcuni, sono diventati campioni mondiali in varie
discipline sportive, dal basket all’hockey. I meno fortunati stanno in piazza
tenendo stretta una bottiglia di vodka tra le loro sei dita. Sarà stato il
temporale imminente, il buio, i lampi e il vento, ma tutto ha fin da subito
avuto un’aria da apocalisse che mancava partisse il dies irae.
Tra l’altro per
trovare l’albergo (carino, senza ironia) ho impiegato più di un’ora e mezza.
L’indirizzo su maps e su booking era sbagliato… E quando ben ho trovato un
cartello sbiadito, in un androne, ho dovuto chiamare un numero di telefono per
farmi aprire. Nessuno parlava inglese. Dopo vari casini sono venuti a
recuperarmi in macchina, dimostrandosi molto cordiali. Quando hanno visto la
bici, il commento è stato: tu sei matta! Ormai me lo han detto in tutte le
lingue, sarà il mio epiteto formulare.
Le minacce del cielo livido e pesto si sono poi
trasformate in un acquazzone da record, che mi ha costretta a sostare in un
supermercato per qualche momento, salvo poi decidere che tanto cambia poco:
temo che i prossimi giorni saranno tutti così. Mi spunteranno le branche da
volpe d’acqua. Crescerò come una piantina di basilico troppo innaffiata, che ce
devo fa’.
La tappa di oggi era di puro
transito, ma anche questa faccia mesta della Russia esercita su di me un
fascino incredibile. Il bello assoluto e l’assoluto brutto si sfiorano, come
tutti gli estremi. Della pioggia di domani, del vento e del traffico non mi
interessa, ora; sono tornata alla condizione primigenia del vivere l’attimo,
godere ogni istante e sentirlo bellissimo ed effimero; è questo che abbiamo
imparato dagli antichi, no? Danzare sulla tragedia e spendere con cura i
granelli di sabbia della clessidra, che inesorabilmente cadono al basso,
perché, nel momento stesso in cui precipitano, mandino un bagliore d’oro prima
del buio da cui non si torna. Per questo ci sono solo il profumo del tè al
timo, le volute di fumo e il tamburellio della pioggia sui vetri, e tutto è
meraviglia.
Stasera nessuna poesia seriona a conclusione, ma le opere d'arte disseminate per la ridente Elektrogorsk
il Caronte dei conigli, ovvero il Carote o il Coglionte:
la cattura dell'anguilla a dondolo:
la finzione della felicità:
“E se tutti noi fossimo sogni che qualcuno sogna, pensieri che qualcuno pensa?”.... Pessoa la sapeva lunga ....Anche io piccola volpe sogno il viaggio che hai appena intrapreso e penso alle mille emozioni che stai provando ... Buona strada .... Matteo 🌻
RispondiEliminaRita, alla presentazione del tuo libro, la sera del 26 giugno ti ho detto "GRAZIE" e te lo dico ancora oggi per le cose che ci fai conoscere e per il modo in cui lo fai. Un abbraccio e buon viaggio. Sila
RispondiEliminache invidia. dovrò farla a piedi....magari il giro del mondo, non potendo usare bicicletta. alla prossima tappa
RispondiEliminaGiusto per la cronaca. Il "le opere d'arte" sono personaggi di favole pre e post rivoluzione.
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