sabato 13 agosto 2022

34-35. L'ultima altura. Dalla Valle Sacra all'inespugnabile Abra Malaga (4350m) e i suoi ghiacci












Giovedì, 11/8
Pisac-Ollantaytambo
64km tra bici e visita alle rovine

Che spettacolo pedalare oggi nella valle sacra, all'ombra dei monti imponenti e vicini, a picco sulla strada, seguendo il corso del fiume Urubamba, verde e azzurro di linfa e radici, tra rovine antiche che cantano una storia che si è sgretolata come sabbia.

Questa mattina ci siamo svegliati finalmente riposati, e in salute entrambi, per la prima volta dopo tanto tempo. Il nostro Colores hotel Apu Linli sonnecchiava ancora quando siamo scesi per la colazione. Le bici invece erano già belle sveglie e chiacchieravano con il condor di pietra con il mocio sulla spalla.


La chef ci ha stupiti con un desayuno gourmet: tè, macedonia, succo di papaya e panini con avocado, uovo, formaggio e verdure (ci ha chiesto come volessimo la farcitura. Le ho risposto di fare come credeva meglio e lei, nel dubbio, ha messo tutto ciò he aveva a disposizione, anche una fettina di culo. Amorevolisima!)


Belli carichi abbiamo, per l'ennesima volta, tentato di contattare un biologo che vive a Tastayoc, villaggio al passo da 4350 che affronteremo domani. Dovrebbe avere, lui, le chiavi del municipio, che funge anche da rifugio. Peccato che il brav'uomo sia irraggiungibile e anche l'associazione per cui lavora non riesce a contattarlo (e nicchia, nel procrastinare al telefono con la sottoscritta, che ha già mandato mille mail, messaggi, e fatto innumeri chiamate). Ma il biologo sarà vivo? Ormai sono anche io in apprensione per lui (e per noi... Abbiamo la tenda ma il rifugio sarebbe gran cosa).

Iniziamo a pedalare in un bagno di luce chiara che scalda in fretta. Proprio mentre a Gigi si abbassa di netto la sella (la vite si è allentata), causandogli un discreto pestone al birignao, veniamo raggiunti da un ciclista in scatto fisso che ci supera, poi rallenta e infine si decide a tornare indietro per chiederci una foto. E' un ragazzo in gamba, entusiasta dell'incontro, che vive a Urubamba e si sta facendo un giretto nella valle bellissima. Chiacchieriamo un po' e ci tagghiamo a vicenda su Instagram. Lui ha una parte della famiglia a Roma e ci chiede se sia vero che fa così caldo. Ebbene, a quanto pare sì. Poi ci racconta di come gli hanno rubato la sua Bianchi d'epoca. E' esperto di marchi e ci snocciola la sua conoscenza, poi si congratula e se ne va tutto contento dicendo che è una figata incrociare viaggiatori da tutto il mondo, in Perù. Ma il Perù è meraviglioso e merita altro che questo!


Ripartiamo seguendo il serpente di asfalto, un po' ammalorato invero, che si snoda ai piedi delle alture, seguendo il fiume. Passiamo alcuni pueblos: Coya, Lamay e la cittadina di Calca. Oggi è giorno di perros malos y largos, che ci inseguono e ci funestano di continuo, spuntando fuori dagli usci e dai cortili. E' tutto un gran correre e un gran sbraitare per spaventarli, ma ogni volta è un micro-infarto.



Questi pueblos hanno tutti monumenti e statue dedicati alla tradizione. Si passa dalle maschere carnascialesche



agli inca, ai pastori con camelidi


alle più umili pannocchie, che pure hanno nutrito imperi immensi e poi tutto il mondo.


I fianchi dei monti spesso si stringono, rimangiandosi i campi, in cui i contadini lavorano già da ore, e quasi anche la strada.




A Calca svetta un puma proprio all'incrocio con la via che, superato un passo, sfocia direttamente nel pieno della foresta amazzonica. Tra poco anche per noi verrà quel momento!


Segno della prossimità con il bacino amazzonico sono gli stormi gracchianti di pappagalli che rendono ancora più verdi le chiome degli eucalipti. Se i fenicotteri a 4500m di quota mi han stupita, anche i pappagalli a 3000m non sono da meno.
Si pedala tra terrazzamenti che, con ogni probabilità, vengono usati senza soluzione di continuità da più di mezzo millennio.



Superiamo il museo Inkariy, senza però visitarlo. E' una carrellata di sale che ripercorrono la storia del Perù attraverso le varie civiltà precolombiane che lo hanno popolato. Tuttavia, più che reperti archeologici, mostra ricostruzioni di ambienti e usi, con manichini e diorami.E'adatto ai più piccoli e perfetto per chi, con poco tempo a disposizione, vuole farsi un'idea della complessa e stratificata storia del paese prima di visitarne i principali siti.



Qui nella Valle Sacra, oltretutto, è un susseguirsi ininterrotto di rovine. Ogni paese ha le proprie, più o meno conservate, tutte di epoca inca e molte su base pre-incaica. Non mancano poi cascatelle che ornano i dirupi e sorgenti termali sfruttate per cure e benessere.



Ci sono anche mucche e tori decisamente più pasciuti rispetto ai loro cugini dell'altiplano, qualche capra e porcelli che pascolano liberi, o, al più, legati con una corda.



Quando si alza lo sguardo è sempre meraviglia. Le alture hanno le forme più svariate e frastagliate, irregolari, modellate dal tempo e dalle intemperie. In più inizia a fare caldo di un caldo piacevole e dolce, non feroce come il sole che abbiamo finora incrociato. E anche all'ombra si sta bene; fa fresco, sì, ma non freddo.




Passiamo da Huycho e Huayllabamba, dove intravediamo qualche ciclista in setting da downhill. Qui è abbastanza praticato e vengono anche venduti tour che prevedono transfer per salire e trasporto bagagli, e un gran scendere in picchiata per i numerosi sentieri. Anche la strada che faremo noi, cioè scalare l'Abra Malaga e poi scendere in Amazonas, con deviazione al Machu Picchu, è presente nei cataloghi e viene chiamata Inca jungle trail. La differenza è che noi saliamo anche in bici, senza auto, oltrechè scendere. ma bbiamo dalla nostra il tempo, che non è fattore secondario.







Non mancano, qui, pure delle grandi haciandas che, almeno dall'aspetto, paiono ben floride. Si nota subito la differenza tra le abitazioni normali, del popolo, e queste ville con cascina e fattoria e campi annessi.
là dove si interrompono i paesi, la roccia riprende tutto lo spazio a disposizione e pianta i piedi a terra, arcigna, bellissima e terribile.





Attraversiamo anche la città di Urubamba, che è, più che altro, uno snodo tra i vari percorsi turistici. Si trova infatti tra Machu Picchu, Ollantaytambo, Pisac, Cuzco, Chinchero, e la giungla. In effetti mi aspettavo anche molto più traffico di bus e mezzi vari. Invece le strade sono particolarmente tranquille. In una pausa gelato scambio quattro chiacchiere con una famiglia di grossi, rubizzi e biondissimi belgi, che stanno affrontando numerosi trekking ben duri con al seguito i figli, il più grande dei quali avrà dieci anni. Grandi!



Gli ultimi kilometri prima della meta sono funestati da un vento contrario che ci rende impegnative anche le brevi rampette dei saliscendi in valle. Ma ormai manca poco e tiriamo dritti. Piano, ma inarrestabili.






Qui, nella roccia verde e rossa, si snoda anche la via ferrata della Valle Sacra. Si tratta di un incredibile, tortuosissimo corridoio di scale, corde, camminamenti e passaggi che percorrono le pareti montuose. Non fossimo in bici, mi piacerebbe veramente provarne almeno un tratto! Da là sopra il panrama deve essere indescrivibile.



Ollantaytambo ci accoglie, finalmente, con le prime sentinelle di pietra scolpita che si amalgama e fonde alla roccia dei monti.


Purtroppo scopriamo che l'intera cittadina è lastricata di ciottoli inca. Ma sul serio, non è una battuta. Ciò significa che il fondo è assolutamente non pedalabile, perchè i sassi sono grossi, lisci, irregolari e distanziati quanto basta per far incastrare le ruote. Quindi si cammina, con passo malfermo, che spesso cede: le scarpe da bici proprio non sono adatte a queste strade.
Superiamo la porta Punku Punkue ci addentriamo nel paese, le cui strette vie fiancheggiate da canali sono abitate ininterrottamente dal XIII secolo. Ollanta (come lo chiamano i locals) è infatti un grandioso esempio di pianificazione urbana inca.



Mentre arranchiamo scivolando e ruinando, mi compare davanti questa chiesa che annuncia: CRISTO! Companeros de los viajeros. Infatti, confermo!




Ripagati dall'amenità del paesino, raggiungiamo plaza de armas, che è affollata di negozi per turisti, botteghine, ristoranti e amenità varie.




Ci facciamo strada attraverso una folla multiforme di turisti e raggiungiamo il nostro albergo, situato a 30m esatti dall'ingresso all'imponente sito archeologico.
Dopo aver sistemato le bici in un cortile interno, per raggiungere il quale si devo fare diverse rampe di scale quasi a pioli tanto son strette e ripide, c cambiamo e siamo pronti a uscire per la visita ale ruinas.

La piazza antistante è un mercato turistico con prodotti di qualità piuttosto bassa, accattoni e disperati che cercano di vendere qualsiasi cosa. La pletora di turisti ovviamente compra, compra tutto.
Sullo sfondo, nel roccione che chiude il paese dalla parte da cui siamo entrati (sud-est), spicca il tempietto di Pinkulluna con, sotto, i granai e i depositi in cui si accumulavano provviste.




Con il nostro boleton turistico accediamo all'ultimo sito compreso. Hurra! Io ho completato la collezione! sono orgogliosa della mia perseveranza che è una forma di autismo malcelata. Evviva!



Al parco si viene accolti da ripide e normi terrazze incuneate tra le montagne, che proteggono il sito che era un tempio- fortezza. Qui ebbe luogo una delle poche battaglie che videro gli inca vittoriosi sugli spagnoli.




Il ribelle Manco Inca, dopo esser stato sconfitto a Saqsaywaman (dietro Cuzco), si era ritirato qui, nella fortezza, per riorganizzare le forze. Nel 1536 Hernando Pizarro, il fratellastro minore di Francisco, giunse qui con un manipolo di 70 cavalleggeri e numerosi fanti spagnoli e natii assoldati. Lo scopo era catturare e sbarazzarsi dell'inca ribelle.





Tuttavia i conquistadores non riuscirono a raggiungere la fortezza: dalla cima e dai terrazzamenti piovevano frecce, lance e sassi, che bersagliavano le cucuzze degli europei e dei loro cani. Inoltre, con una brillante manovra strategica, Manco Inca fece allagare la piazza sottostante grazie a canali appositamente preparati per deviare qui il corso del fiume. Cavalli e fanti in armatura, con l'acqua alla gola, letteralmente, iniziarono ad annaspare nel fango e furono costretti a una frettolosa ritirata, inseguiti dai ribelli vittoriosi, i migliaia di soldati di Manco Inca.




Certo, questa vittoria fu una breve parentesi felice per gli inca. Quando gli spagnoli tornarono con una cavalleria quattro volte più numerosa rispetto a quella schierata nel primo attacco, Manco Inca fu costretto a fuggire nella giungla, nella sua roccaforte a Vilcabamba.




Ollantaytambo era una fortezza di grande efficacia difensiva, ma fungeva anche da tempio. Le terrazze erano sovrastate da un centro cerimoniale grandioso. All'epoca della conquista erano in costruzione mura che non furono mai completate.





La pietra usata per costruire queste imponenti mura era estratta da una cava a 6km di distanza, ancora oggi visitabile. La cava si trova sulla sponda opposta del fiume e per trasportare i blocchi di roccia gli inca usarono una tecnica incredibile. Collocavano i massi sulla sponda, poi deviavano il corso dell'Urubamba in modo da far passare l'acqua dietro ai massi stessi. Quando si dice che non è Maometto ad andare alla montagna...





rimane comunque stupefacente la tecnica impiegata per costruire edifici e strutture così imponenti in luoghi così impervi. Avete idea di cosa possa significare issare questi giganti di sasso su per il fianco scosceso del monte? E senza macchine nè motori! Davvero comprendo chi ha fantasticato su alieni e teorie che prevedono l'intervento di esseri altri, non umani. Sembra quasi più plausibile che non immaginarsi uomini-formichine a trasportare tonnellate di roccia.







Purtroppo questo sito è molto gettonato (e si capisce: è spettacolare!) e quindi si nuota tra comitive di turisti e gruppi di gente che sbanfa e si trascina sugli scalini, e a cui cedono caviglie e ginocchia in discesa. Non sono temprati, almeno non ancora, dalla pura durezza andina. Noi invece ci muoviamo ormai come stambecchi, anzi, come vigogne dai piedini minuscoli e zoccoluti ma sempre saldi anche dove le pendenze sono improponibili.









Facciamo il giro completo delle rovine, anche perchè il sole si sta abbassando alle spalle del monte su cui sorgono e i giochi di luce dei raggi obliqui sugli angoli di pietra sono un caleidoscopio di bellezza nuda.






Ci muoviamo a zig zag seguendo il percorso obbligato, tra terrazzamenti e cornicioni a strapiombo, corridoi di pietra esatta e meridiane che scoccano l'ora del sole e dei sacrifici di sangue.







Di nuovo a valle si incrociano alcune fontane e un tempio dedicato al culto dell'acqua. Vuole la leggenda che proprio da qui siano emersi dalla terra i primi incas.






Con gli occhi pieni di questo spettacolo, usciamo, lasciandoci il sito alle spalle. E' l'ultimo della valle, così come Ollanta è l'ultimo paese prima del passo. Prima dell'ultima scalata.




Torniamo nel mercado turistico, che ha dalla sua l'aggiungere una nota di colore e di vivacità alle austere rovine che lo circondano e sovrastano.





Ci spostiamo di nuovo in plaza de armas per fare alcuni acquisti necessari per domani. Siamo in autonomia e ci servono la cena, la colazione di dopodomani e gli snackini per la scalata. Acqua, invece, ce ne sarà. Speriamo non dal cielo, però. Qui non siamo più nella zona arida e desertica, bensì a ridosso della foresta Amazzonica, che è un bacile di umidità che evapora al sole.





Infatti rientriamo in hotel per la doccia e un po' di meritato riposo con il sole, e poco dopo si scatena un temporale con tuoni che rimbombano tra le pareti dei monti e goccioloni grossi ma radi. Le nubi, addensate, rubano la luce che non torna più: è già sera.
Usciamo per cena, e in luoghi turistici come questo non è facile trovare ristoranti di qualità e che non ti spennino come un pollo gringo. Ma ormai abbiamo occhio e sappiamo come chiedere. Mi intendo con un ragazzino che fa il "butta dentro" e ci accordiamo per un menù cena a 25 soles a testa (6 euro) che comprende un'entrada (scegliamo la sopa de quinoa, ormai un must)


 e un fondo. Per Gigi truce trucha alla piedra (grigliata e servita su pietra rovente)


per me spiedino vegetariano di funghi, zucchine, peperoni e altre verdure saporitissime, il tutto servito con patate e insalata di avocado e pomodori. E limonata fresca da bere, come must peruano.


Insomma, il commiato dal Valle sagrado è generoso e ci sazia in tutti i sensi. Domani ci aspetta una gran salita. Da 2800m tornaimo a 4350, in poco più di 40km. E poi il biologo del rifugio che fine avrà fatto? Lo sapremo tra meno di 24 ore!

Venerdì, 12/8
Ollantaytambo – Passo Abra Malaga – luogo imboscato 20km a nord del passo, sulla 28B direzione Quillabamba
66km

Oggi abbiamo affrontato l’ultima grande scalata di questo viaggio. Oggi abbiamo affrontato le Ande ancora, per una tappa con 42km di salita per 2000m di dislivello, nella pancia delle montagne, lungo le loro budella fatte di strade ritorte e tornanti, nelle fauci di roccia aguzza, al freddo, al vento. Ma gli Apu sono stati benevoli e ci hanno lasciati passare. Non solo. Siamo anche già scesi di quasi 1000m dall’altro lato, prima nella nebbia più densa poi sotto un diluvio torrenziale. E ora scrivo dalla tenda, dove fa tiepido e il silenzio è interrotto solo dal verso lontano di qualche uccello notturno. Siamo sull’Inca jungle trail, a mezza costa tra l’ultima grande vetta e la foresta amazzonica.  E’ un luogo magico che pulsa di forze antiche e vibra per la potenza della natura che ospita. Qui vivono orsi, condor, decine di specie rare di volatili e di piante che godono del clima particolarissimo che si crea all’incrocio tra questi due ambienti apparentemente così distanti tra loro.

La giornata è iniziata con una frugale colazione in hotel e un salto in centro per le ultime commissioni. E l’immancabile telefonata con l’associazione che gestisce, o dovrebbe gestire, il rifugio in Tastayoc, paesino poco sotto al passo. Oggi capiamo definitivamente che il biologo che vive in altura ha fatto perdere le sue tracce, mentre la signora con cui parlo al telefono non ha la minima idea nemmeno di dove siano i luoghi di cui stiamo parlando. E pace, busseremo a qualche porta o useremo la tenda, sperando non faccia troppo freddo.



Usciamo da Ollanta su una strada sterrata polverosa, che ci porta a scendere ancora (cosa poco simpatica, considerando che ogni metro al basso andrà poi recuperato risalendo). Dopo aver superato un paio di pueblos raggiungiamo il punto in cui la valle si chiude e le strade diventano due soltanto. Una, percorribile solo a piedi previa onerosa registrazione, è il famoso Inca trail, tracciato sterrato che, in 4 giorni, conduce al Machu Picchu. Condivide una parte della strada con la ferrovia. L’altra è la strada principale, che collega la Valle sacra con la foresta, dopo la lunga e tortuosa salita che porta al passo dell’Abra Malaga, a 4350m di quota. Questo è l’Inca jungle trail, ed è ciò che stiamo per fare noi. E’ una sorta di accesso secondario e decisamente più impegnativo a Machu Picchu, perché prevede una scalata, una discesissima e una risalita. Sono 150km al posto di 40.


arena da corrida




Proseguiamo quindi sulla strada che inizia subito ad arrampicare, con una serie di tornanti stretti che fanno da balconata sulle coste dei monti. La valle rimane sempre più in basso, e presto quasi non la si vede più. Va detto: le pendenze sono sempre molto docili. La quantità allucinante di tornanti, che dopo un po’ induce una sorta di capogiro da giostra, consente di evitare rampe ripide. E’ una strada che può essere percorsa anche da pullman turistici e camion, per quanto il traffico sia quasi inesistente. E per fortuna! Spesso si pedala a strapiombo sul vuoto o al bordo di profondi canali di scolo che raccolgono le acque abbondanti della stagione delle piogge.






Le pareti di roccia che si alzano ai lati della carreggiata e tutto intorno, da ogni lato, sono impressionanti. La loro mole scura pare ergersi a braccia conserte come a giudicare, a guardare dall’alto in basso consapevoli della loro superiorità. Noi siamo ridicoli insettucci che si affannano in un moto lento e faticoso. Il panorama, pur austero, è di una bellezza essenziale, ridotta all’osso, scarnificata e resa pura dalla luce esatta come una meridiana. La roccia è ora nuda, ora coperta di erbe ed eucalipti, ma anche fiori enormi, campanule grandi come cappelli e arbusti profumati.






Non mancano persino diverse rovine di epoca inca, per lo più terrazzamenti ormai rovinati su loro stessi e piccole casette adibite a magazzini o ripari. E di casette ce ne sono ancora pure abitate, da contadini e pastori che lasciano le bestie libere. Tacchini e galline scorrazzano per la strada, mucche e capre stanno, legate, nei piccoli ritagli di pascolo. E i cani… Oggi sono stati una croce. Bande di randagi aggressivi, e cani da guardia delle cascine, che ci venivano incontro in branco, abbaiando e ringhiando, e sbarrandoci la strada. Abbiamo usato tutte le tecniche. Le parole dolci. Camminare protetti dalle bici. Alzare il braccio o brandire la borraccia fingendo di sferrare un colpo. Urlare, forte e fortissimo. A un certo punto ho dovuto munirmi di pietre proiettile perché la situazione stava sfuggendo di mano veramente. Non vorrei mai fare del male a un animale ma alle strette… Per fortuna non sono servite. Gigi ha usato lo spray al peperoncino, che funziona da dio. Pur a distanza, infastidisce abbastanza da tener lontani i perri. Peccato che il vento poi abbia fatto inalare a me una buona dose di urticante, e la tosse conseguente è stata così tremenda da far scappare la banda di perros malos. In ogni caso oggi ad ogni casa e baracca è andata così, perché già è facile arrancare in salita oltre i 4000m, figuratevi funestati dalle fauci bavose dei cerberi. In un piao di occasioni ho minacciato i proprietari, che escono svogliati a vedere che succede: lo mato! Lo mato! Mostrando le pietre pronte al lancio.







In ogni caso i primi 20km filano via lisci e senza intoppi. Anzi, ci stupiamo del passo che riusciamo a mantenere, e senza neanche troppo sforzo. Ormai siamo bestie da soma, abituati alla fatica, alla quota, a tutto. O quasi. Raggiungiamo la prima strozzatura tra i monti, dove scorre un fiume tutto cascatelle e rapide. Intorno nere pareti di roccia muta e, più in alto, ghiacciai che si contendono la luce con il cielo.
















Proseguono i tornanti, vediamo casette in verticale sopra di noi e seguiamo la linea della strada con lo sguardo. E’ un muro tortuoso. Una scalinata. In più si alza il vento e, nei tratti esposti, diventa difficile non farsi prendere dallo sconforto. La fatica cresce in modo esponenziale, quando Eolo si mette di traverso. Per fortuna la carretera è così arzigogolata da concederci pure dei tratti con il vento in poppa, e da qui si gode di scorci sulla valle sacra, ormai azzurra nella distanza, e il serpentone d’asfalto che si arrotola sui fianchi dei rilievi sotto di noi. E’ impressionante, da vertigini.







Intorno all’una decidiamo di fare una pausa. Approfittiamo di una piscigranja, un allevamento di trote. Ce ne sono due sulla strada, questo e uno simile poco più in alto. Sono localini spogli e sudici. All’esterno ci sono vasche d’acqua dolce in cui vengono allevate le truci truchas. Quando ordini (e i piatti sono tutti e solo a base di trota) la signora, in abiti tradizionali, esce, con il retino acchiappa un pesce, lo infila in un secchio e lo porta in cucina, mentre si dibatte con forza. Lo decapita e lo frigge. Easy.

Noi preferiamo lasciare i pesciolini dove sono e ci limitiamo a dei chicharron di soya, qualche biscotto e un bel mate alla manzanilla che idrata e corrobora. Facciamo anche scorta d’acqua, perché non sappiamo ancora dove avremo l’onore di fermarci, stasera.







Dopo un po’ di riposo, riprendiamo l’ascesa e raggiungiamo, sempre inseguiti dai cani, Tastayok, che non si può definire paese. Sono una decina di edifici, di cui metà diroccati, sparsi su tutto il fianco della montagna. Qui inizia la riserva naturale privata con cui sono in contatto da giorni per cercare di capire come funzioni il loro rifugio nella casa comunal. 














Vedo una casina abitata, abbarbicata in cima cima ad un rilievo accanto alla strada, e salgo a chiedere. Trovo un’anziana che armeggia con delle ossa, fuori da una capanna che sembra più un mucchio di spazzatura. Le spiego la situa lei, con le sue ciabattine di cuoio pressofuse con i piedi infangati, risale agile il fianco del monte facendomi segno di seguirla. Mi porta dal marito, pastore, vestito in abiti tradizionali a sua volta, con tanto di berretto colorato con perline e lustrini. Mastica coì tanta coca da faticare a parlare. In ogni caso mi spiega che la casa comunal è quella laggiù in basso, ben sotto rispetto alla strada, dove ci sono degli operai. Allora ringrazio, scendo di nuovo da Gigi e poi giù nel vallone, a chiedere agli operai. Anche loro masticano coca come caramelle. Mi dicono che la casa comunal è in ristrutturazione e che per trovare alloggio si deve andare a Santa Maria (grazie, è la meta di domani… Dista da qui 11km di salita e 76 di discesa, cioè 2 +3 ore circa). Insomma, un buco nell’acqua. Questi malandrini della riserva naturale meritano una bella recensione acida, appena torneremo ad avere connssione (persa poco dopo Ollanta). Sono le 14.30. Risalgo il vallone, su un sentiero quasi verticale e, dopo l’ennesima esperienza di premorte (siamo di nuovo a 4000m) mi consulto con Gigi. A conti fatti, dovremmo riuscire non solo a raggiungere il passo, ma anche a scendere un po’ dall’altra parte, per poter piantare la tenda a quote più umane e meno gelide, la notte. Tanto più che la discesa è ripidissima e in 70km va da 4350 a 1300m. 








Così ripartiamo ad affrontare gli ultimi tornanti, che si rivelano veramente disumani per la fatica e le condizioni in cui ci troviamo a pedalare. Il vento si fa più rabbioso. Dal nevado Veronica, che sarebbe bellissimo ma noi non vediamo neanche per un istante, crolla al basso una massa di umidità ghiacciata che fa l’effetto macchina del fumo con ghiaccio secco, solo che questo è fradicio. Ci troviamo ben presto a pedalare nella nebbia, una caligine lattiginosa gelata. Intorno si intravedono le vette dei monti che coronano il passo. A volte, invece, si ha l’impressione di perdere l’orientamento. Tengo il conto dei tornanti, per focalizzare l’attenzione su qualcosa e tenere salda la mente.














A volte qualche cane tenta di farci l’agguato a sorpresa, ma con sempre meno convinzione. Altri perri, invece, fanno proprio una tenerezza infinita: quando ci avviciniamo scodinzolano mesti con la goda tra le zampe gli occhioni imploranti; altri sono felici della presenza di un essere umano e agitano le zampine in passetti allegri. Così abbandonati, così soli, così vittime dell’ignoranza.



Inizia a fare veramente molto freddo e par di pedalare nel Valhallah. Intorno tutto è cascate di nebbia, tutto grigiastro, gelido. Un’anestesia lucida. Solo a tratti si intravede il filamento di strada sotto di noi, e fa impressione rendersi conto di quanto in fretta stiamo salendo. Manca l’aria e siamo stanchi. Gira la testa. Non sento più le mani. Però… Quello è il cartello! Ci siamo!

Rapida foto di rito di Rita e… Sorpresa. C’è il cartello ma si sale ancora. Questo non è il passo, bensì il centro informazioni della riserva naturale. Però è tutto chiuso, lucchettato e apparentemente disabitato da gran tempo. Il biologo deve proprio essere defunto e giace marcescente in una di questa casette.

Immagini macabre a parte, l'ACP (riserva naturale privata) qui nasce per proteggere quello che a prima vista è un banalissimo e noioso passero, real cinclodes aricomae. Non i puma, non i condor, non gli orsi. Il passero.




Proseguiamo fino al passo vero e proprio, dove ci attende la gang degli alpaca dalle guanciotte. Qui ci sono alcuni baracchini, per lo più chiusi visto il meteo, e un baretto, dove facciamo l’ultima scorta di acqua anche per la cena, la notte e la colazione di domani. Siamo immersi nella nebbia, zuppi. Ci copriamo con tutti i vestiti che abbiamo, nella fatica di far cose con le man congelate che non rispondono più ai comandi.











Tre, due, uno, inizia la discesa.

Di questa parte non ho fatto foto, e me ne dispiaccio, ma l’istinto di sopravvivenza ha prevalso. Avevamo solo un’ora di tempo prima del tramonto e dovevamo scendere di quota per forza, assolutamente, senza se e senza ma. Con quell’umidità e la quota, dormire in tenda significa riprendrsi il malo gripe di cui ci siamo liberati da poco.

Peccato che il fondo sia sconnesso al massimo e per ampi tratti proprio sterrato, cosa che rallenta la discesa. Facciamo comunque il possibile per perder quota e i ripidi tornantia strapiombo aiutano. All’inizio non si vede nulla, intorno, per la nuvola gelida in cui siamo immersi. Poi si aprono scorsi di cime brulle di roccia aguzza, nere e verdi di minerali esplosi millenni fa. Poi la nebbia si rimangia tutto e crea colonne che danno l’idea di quanto vada a picco la valle sotto di noi. Alcune sono nuvole che riflettono i bagliori del tramonto e paiono un incendio rossastro. Poi la caligine si interrompe e… Lascia spazio alla pioggia. Giusto. Qui, sul versante amazzonico del passo, fa più caldo. E in più siamo scesi di quota. Quindi piove, fitto, forte e a goccioloni grossi. Intorno il paesaggio è già molto più simile alla giunga che non all’altura. Le rocce sono colonne intagliate coperte da vegetazione rigogliosa e colorata. Tutto sta immerso in una coltre di umidità bassa e pesante, greve, ma non più fredda. Scendiamo ancora un po’ e, proprio nell’ultimo scorcio di luce opaca, montiamo la tenda sotto al diluvio. Dopo l’Islanda, siamo professionisti del settore. Ci togliamo i vestiti fradici, che restano fuori e asciugheranno in un’altra vita, e ci rifugiamo al calduccio i tenda, cambiati, asciutti e felici. La pioggia batte sul tetto ma adesso è un canto dolce e rilassante. Abbiamo cibo per un esercito e non avanziamo nulla, perché dopo una giornata così il desiderio di qualcosa di caldo e buono da mangiare si fa sentire. Ora scrivo, senza connessione, mentre intorno tutto tace. Solo qualche gocciolina di pioggia bussa alla tenda e alcuni uccelli notturni chiamano il buio per nome. Speriamo che gli orsi, invece, continuino a tacere. La nebbia avvolge tutto e riflette un chiarore che pare innaturale, misterioso, incantato. Siamo in una sfera di cristallo di latte e luce pallida. Non fa freddo, siamo scesi a 3300m. Domani ci attende Santa Maria, snodo in valle tra Machu Picchi e la foresta. Noi andremo prima lì, poi là. E così si conclude l’avventura andina dell’altura. Questo era l’ultimo 4000, E’ stato bellissimo. Grazie Apu, spiriti delle vette. Ora dovremo far voto ai numi dell’Amazzonia, della linfa e delle radici.


2 commenti:

  1. La famosa squadra g, 2 eroi uniti qui, Gigi il lama, Rita la volpe, un duo perfetto... 2 ragazzi vanno forte più dei razzi han le ruote proprio belle, sono liberi e ribelli... Gatchaman

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  2. CESARE CREMONINI
    Dicono di me
    Che sono un bastardo, bugiardo e lo fanno senza un perché
    Dicono di me
    Che sono una strega drogata e truccata e piena di sè
    E dicono di me
    Che sono una stupida frase da dire davanti a un caffè
    E invece no, nessuno sa
    E invece no, nessuno sa
    Che avrei soltanto l'amore per lei
    Per lei che ha il nome di un fiore, per lei
    Per lei
    Dicono di me
    Che sono una stupida frase da dire davanti a un caffè
    Dicono di me
    Che sono un serpente con ali da diavolo e un cuore da re
    Ecco perché, nessuno sa
    Ecco perché, nessuno sa
    Ecco perché, nessuno sa
    Nessuno sa
    Che avrei soltanto l'amore per lei
    Per lei che ha il nome di un fiore per lei
    Per lei che è l'unica al mondo, per lei
    Per lei che è l'unica al mondo, per lei
    Ed ogni raggio di luna è per lei
    Ed ogni raggio di luna è per lei
    Lei

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