venerdì 26 agosto 2022

46-48. Crisi. Da krisis, scelta. Di proseguire. Risalendo il Perenè lasciamo la Selva amazzonica. Si torna sulla Cordillera. Tarma: la città che celebra il dittatore













Martedì, 23/8
Pichanaki-San Ramon
83km

Oggi siamo stati performanti, animali agili e svelti, abituati alla selva. L'asfalto fa il resto. Ci svegliamo tutti storti, siamo ormai provati dal viaggio, dai batteri e dai malesseri, dalle medicine. Il farmaco antimalarico (Malarone) risulta come inghiottire tavolette di raid antiscarafaggi, ti dà tutti  gli effetti collaterali possibili, dalla diarrea alla nausea alle vertigini. Il contrario di Raid, fa notare un acuto amico, è Diar. Come la metti la metti, non va. Mosquitos o muerte! Anzi. Mosquitos Y muerte! E' probabilmente il motto dei senderisti di oggidì.
La stortura è acuita dal fatto che in Perù in generale e in Amazonas in particolare la gente ha un problema con la musica e il volume. Viene ascoltata in strada, nelle camere d'albergo, nelle case, a cassa dritta fino alle 2, alle 3 di notte. Alle 5 si ricomincia. Per lo più è pop peruano tamarrissimo, canzoni d'amore e lamenti di fanciulle tradite, che cantano sempre un po' stonate e molto in falsetto, e sembrano alpaca feriti.
Inoltre, come ciliegina sulla torta, da ieri sera manca di nuovo l'acqua. Niente sciacquone e difficoltà a lavarsi (tutto con borracce e bottigliette, ma che uffa).
Nonostante tutto, però, come dicevo, siamo estremamente performanti.
Prima di partire ho dovuto anche sistemare il portapacchi anteriore, azzoppato dalla perdita misteriosa di una vite. Per fortuna ne ho alcune di scorta, sempre, con buona pace di chi si ostina a dire che anche viaggi così si possono fare in bikepacking light. Auguri!

Pedaliamo rapidi dopo aver salutato le signore dell'hospedaje, che ci chiedono dove stiamo andando e stanno lì a guardarci incuriosite, mentre montiamo le borse e partiamo. L'asfalto scivola dolce sotto alle ruote, e la bici corre senza attriti nè scossoni. Le giunture, metalliche e non, ringraziano. Mani e piedi pure: sono malconci di calli e vesciche a causa delle giornatine appena passate. Seguiamo la valle del Perenè, che è un affluente di sua maestà il Rio delle Amazzoni.
La vallata è un susseguirsi di colline verdissime, tra paesaggi che sono ancora selva, ma meno profonda, meno aggrovigliata. Il fiume segna il confine e sfuma terra e cielo, mentre i pappagalli si raccontano barzellette ridendo forte sui rami alti. Farfalle azzurre e rosse, grandi come la mia faccia, volano oblique tra le foglie.

Siamo ancora in territorio Ashaninka. Anzi, siamo ora nel territorio originariamente abitato, da secoli da questa etnia. Ma qui i nativi sono "civilizzati", o "corrotti", a seconda della prospettiva che si assume nell'interpretare il processo storico di assorbimento della cultura  tradizionale in quella massiva dei coloni. Qui gli ashaninka vendono la loro identità ai turisti, offrono giornate di approfondimento degli usi e dei costumi, fanno fare foto con gli abiti tipici, il pitone al collo e il pappagallo in spalla. E' tutto piuttosto caricaturale e posticcio. E' ciò che i turisti chiedono. Da Lima a qui sono otto ore di bus, e tanti, peruviani urbani e gringos vengono alla ricerca dell'esotico, della foresta. Quella vera sta più in basso, da dove veniamo. Quella edulcorata sta qui. Dunque la valle è un susseguirsi di comunità native, ma chi ci vive è ben contento di vedere estranei, e cavarci qualche soldo. Le capanne sono volutamente addobbate in modo eccessivo, e tutto si basa sulla riproposizione continua e insista degli stereotipi. All'ingresso dei villaggi c'è una scultura con il copricapo piumato, ad esempio, e mai mancano statue di nativi seminudi che affrontano anaconde e giaguari.




In ogni caso anche qui gli Ashaninka hanno vita difficile e la povertà dei pueblos è evidente. Galline spennacchiate, cani tutti costole, anziani crostosi e bimbi coperti di polvere stanno tutti insieme tra fango e frutta che fermenta. Nonostante l'abitudine ad approcciare stranieri e coloni, anche qui siamo guardati male e spesso ci vengono scagliati contro cani mordaci. Oggi è stata una croce, siamo stati inseguiti decine di volte, spesso fin quasi a essere feriti. C'è stata la prima colluttazione. Un meticcio delle dimensioni di pastore tedesco non mi mollava, continuando a tentare di mordermi una gamba. Si è preso due pedate sul muso, mentre continuavo a pedalare, con la scarpa da bici con tacca in metallo. Mi dispiace sempre usar violenza e non lo faccio mai, ma in questo caso si è trattato di necessaria autodifesa. Quando i proprietari si degnano di guardare cosa stia succedendo, si fanno delle gran risate, o semplicemente assistono facendo il tifo per i loro cuccioletti educati a bastonate.





Per fortuna l'umore resta alto. Sto ancora ridendo perchè vediamo un opossum stecchito (io ne ho già visti un paio da quando siamo nella selva, Gigi se li è persi; sono giorni che cerco di ricordare il nome di questi animalini e solo oggi è riemerso a coscienza). Gigi mi fa, seriamente sconvolto: oh, va' che topo morto!
E dall'espressione e dal tono capisco che crede veramente si tratti di un ratto. La cosa mi fa ridere per le successive dieci ore. Il topo!

Passiamo Kivinaki, Yurinaki con le sue cascate e i monumenti agli agrumi, qui prodotti in quantità. Vedo per la prima volta di persona -e non in un documentario- un raccoglitore di cocchi, issato sulla cima di una palma con un sistema di corde.





Il fiume disegna curve morbide e le colline che affacciano alla valle paiono assopite nella pace che regna tra foresta e spiagge. E' un susseguirsi di villaggi e ristorantini turistici che offrono la comida tipica della selva. Il juane, cioè una coscia di pollo arrosto con intorno riso pressato, il tutto chiuso in una foglia di mais o banano tipo arancino non fritto; il tacacho, che è un mix di platano, salsiccia e carne di maiale secca; la patarashca, carni miste e pesce cotti su pietre roventi; zucca, manioca, acqua di cocco e frutta.











Purtroppo ad ogni capanna e baracca l'adrenalina va alle stelle perchè sappiamo che nel giro di attimi avremo cani alle calcagna. Uno? Cinque? Vecchi e zoppi o giovani e veloci? Lo si scopre di volta in volta, e a proprie spese. I giorni scorsi i tettucci di paglia tra le foglie di banano davano ansia nel timore di essere matati per vendicare le ingiustizie subite nei secoli dal popolo nativo. Ora per i perri. Porterò a casa una sindrome post traumatica da capanne, roba che quando ne vedrò una, che so, un gazebo in spiaggia in Liguria, partirò di testa, urlando e fuggendo come se ne andasse della vita stessa. "Come se".



La natura sempre consola, quando non ammazza, e così è per le belle cascate che adornano la roccia, e son fiumi in veritcale che si gettano a valle, per confondersi al Perenè. Questa è la Boca de tigre, che si dirama in dieci cataratte. Un pianto antico.











Passiamo Puerto Victoria e Marankiari,, con i venditori di cocchi appena colti, di cui si beve solo l'acqua, e i perri mali e viola (sarà un  antiparassitario o una moda nativa? O il Malarone che dà allucinazioni?)




Arriviamo poi alla caotica Perenè, che è la città principale della valle nonchè una sorta di capitale storica degli Ashaninka. Qui da secoli questo popolo vive o cerca di farlo. Con le popolazioni andine preincaiche e con gli incas intrattenevano rapporti commerciali pacifici di scambio di prodotti. Dal 1641 i missionari francescani cercarono di evangelizzare i nativi, muovendosi lungo il fiume. I più furono ammazzati, pochi fortunati lasciati scappare vivi. Nel 1742 scoppiò la rivolta di Juan Santos Atahualpa, che si concluse con ulteriori francescani morti e grandi violenze da parte degli Ashaninka e soprattutto, in risposta, da parte dei coloni. Poi questa strenua resistenza fu piegata e i nativi si convertirono alla croce e furono costretti a cedere terre agli europei e ai peruviani venuti dalla costa e dalle città. Nel 1891 il governo cedette 500.000 ettari di terra alla Cooper corporation, che però non la mise a frutto. Negli anni '50 e '60 gruppi organizzati di agricoltori provenienti dalla Sera centrale presero possesso di fatto (e poi, a cose concluse, di diritto) di quei campi, sottraendoli ai nativi. Nella città vivono oggi per lo più coloni. Infatti loro ci rivolgono parola, ci salutano e chiacchierano, chiedendo dove andiamo, che viaggio sia il nostro. E tutti stupiscono, perchè sanno le strade, come siano, quanto dure. Ma non fate fatica? E' la domanda principale. Sì, eccome. Ma ne vale la pena sempre. Ora, ieri, domani. Questa è vita. Costi quel che costi. Solo così si impara, si cresce. Si diventa migliori. Si può lasciare qualcosa di buono agli altri, che sian parole o distillati minimi di qualcosa che si è capito, dopo tanto peregrinare. Può darsi che io abbia trascinato una bicicletta che pesa quanto me attraverso le Ande e l'Amazzonia anche solo per vivere questo istante fugace, questo scambio breve con una sconosciuta che mi sorride e fa salutare il suo bambino dagli occhi enormi. Ce lo dice Dante per bocca di Ulisse che arde in eterno, di fiamma e sete di conoscenza: fatti non foste... E così siamo nati per andare, e muoverci, con la testa, il cuore, le gambe. Ognuno ha il suo modo, la sua via. I miei sono questi qui.


Facciamo una sosta. Sono le 13, abbiamo già percorso 50km. Numeri impensabili nei giorni scorsi. Decidiamo di tirare fino a San Ramon, sono altri 30km con una piccola salita in mezzo. L'afa e la calura si fanno sentire, per quanto ci saranno al massimo 25 gradi. Riprendere dopo la pausa è complicato. Quando si mangia, l'intestino si ribella. Le gambe diventano molli, la testa leggera. Ma dopo poco si torna concentrati come il Coccolino e via, bruciamo la collina e la comunità nativa di Pampa Michi, dove assaltano i turisti con bigiotteria, abiti tradizionali per far le foto vestiti da garibaldini amazzonici e boa mezzi morti, sempre ad uso selfie. Tiriamo dritti, meglio allora gli ashaninka che con frecce al curaro centrano un gringo nascosti tra le liane.
Unica cosa interessante è il centro di conservazione dei macheteros, nome amichevole per i pacarana, grassi roditori della selva. Oltre a loro qui vengono curati diversi animali, pappagalli, scimmie e serpenti compresi





Passiamo un ponte sul fiume e arriviamo al bivio. Da un lato la via che sale a nord, verso l'Amazzonia settentrionale, a Pucallpa. Dall'altro la nostra strada, che torna verso la cordillera e l'oceano, seguendo sempre il fiume, che qui diventa Chanchamayo (affluente del Perenè).



Qui è un susseguirsi di attrazioni per turisti, che offrono un'immagine stereotipata, posticcia e caricaturale della selva central e di chi ci abita. D'altronde molti si spingono con i pullmini al massimo fino a qui, alla ricerca dell'esotico, e in qualche modo bisogna farlo trovare bello, pronto, confezionato e perfettamente aderente alle aspettative, cioè al cartoonesco immaginario comune. Vaqueria, Nijandaris, Limonpata e Kimiri sono un condensato di negozietti, frutterie, ristorantini. Si vendono i prodotti locali. Caffè, cacao, frutta.




In breve siamo a La Merced. Qui i nativi han sempre ammazzato i coloni (missionari, contadini, esercito) e viceversa. La città vera e propria è stata fondata da un gruppo di italiani, nel 1884, dopo la guerra del Pacifico, sotto la guida di Josè Manuel Pereira. Avevano tentato di stabilirsi in aree limitrofe, prima, ma eran sempre stati scacciati dagli Ashaninka. Qui no. E costruisci la chiesa, issa la croce, tosta i caffè e apri il ristorante Kalabria. Perchè sì.






Gli ultimi 10km sono faticosi per le salite a strappo su strade scassate e trafficate di mezzi imprevedibili nella forma e nei movimenti, dai classici mototaxi ai tricicli camperizzati, dalle carriole a motore con sellino ai carretti a pedali, quasi come noi. La valle si fa più scura, velata di umidità. San Ramon, la nostra meta, è ormai vicina.





Fondata come avamposto dei missionari francescani nel '600, vide scontrarsi di continuo coloni e nativi, prima per l'espansione verso la selva a scapito dei secondi, poi per la ribellione di Juan Santos Atahualpa. Però, tra '700 e '800, da Tarma i coloni avanzano verso la foresta, costruendo forti e avamposti. A metà '800 il governo promuove politiche di colonizzazione da parte di europei e cinesi, regalando lotti di terra sottratti agli indigeni. Arrivano in molti e fanno fortuna. Questo richiama altri coloni, che occupano tutta la valle con l'aiuto dell'esercito, a discapito dei nativi, sfrattati e costretti a vivere sempre più nel folto delle giungla. Negli anni '50 e '60 gli andini scendono alla selva: il boom del caffè richiede manodopera. Negli anni '70 molte prospere haciendas vengono espropriate dallo stato. Falliscono. Inizia un periodo di crisi e povertà che tutt'ora affligge la popolazione locale, aggravate dalla presenza di senderisti, tupamaros e narcos.

In realtà San Ramon ci si presenta come una cittadina vivace e vivibile per i canoni della zona. In bella mostra in piazza c'è il biplano con cui, nel 1927, il tenente Leonardo Alvarino y Herr effettuò il primo volo da Lima a San Ramon, stabilendo un record di altezza (sorvolare le Ande a 5000m) e aprendo la via aerea verso Iquitos.




Ci stabiliamo in hotel e, con una cifra altissima rispetto al solito (25 euro una doppia con bagno e colazione) ci garantiamo una sistemazione così lussuosa che quasi mi commuove. E' una struttura nuova, pulita, spaziosa, ben illuminata. HA L'ACQUA ed è persino CALDA, cosa che non vediamo da almeno una settimana. Ci sono asciugamani, sapone e carta igienica. Una reggia! Dopo aver scattao due foto dal balcone, cado in un sonno profondo, ancora vestita da bici, stesa sul letto con le gambe alzate, appoggiate in bilico sullo schienale della sedia.




Domani ci attende l'ultima tappa davvero tosta. Avendo allungato oggi, saranno solo 43km, ma da 800m risaliremo a 3000 di quota, attaccando per grossa parte il passo da 4800m che ci separa da Lima. Domani lasceremo dunque la selva centrale, saluteremo l'Amazzonia, la foresta e i suoi abitanti. Torniamo in altura, ma questa volta nell'altiplano central.

Una nota conclusiva a margine, per una storiella scema. Sto ridendo da giorni perchè l'altra sera, a Puerto Ene, nell'alloggio senza tetto e con poche pareti, è venuta a farci visita una falenottera azzurra, cioè un insetto enorme e alato che, più che una farfalla, pareva la versione LGBT del conte Dracula. Siccome non c'è da fidarsi di nulla, ma non me la sentivo di ammazzarla lì per lì, ho cercato di trasferirla facendola entrare in un sacchetto usato come cestino dell'umido, con bucce di banana mandarino. Già mi faceva molto ridere l'idea di chiedere a questo insetto grosso come me di "buttarsi via da solo" ed entrare, gentilmente, per conto proprio, nell'immondizia. Poi è entrata davvero motu proprio e, dal nulla, serissimo, Gigi ha commentato: magari nella vita precedente era un ragioniere.


Mercoledì, 24/8
San Ramon - Palca (2760m)
45km

Non nego: oggi ho avuto una piccola crisi. Ho desiderato tornare. Peccato mortale. Ho desiderato non essere nel luogo in cui ero, ho pensato forte a casa. Succede una volta ogni diecimila anni, quando davvero si supera il limite di quello che per me è tollerabile. E' durato un istante, e ora vi spiego cosa mi abbia condotta a questa interferenza dal godimento pieno dell'hic et nunc.
La tappa di oggi è stata tutta salita, e si sapeva. In 45km siamo passati da 800 a quasi 2800m, per altro in modo molto tranquillo e agile. Un problema serio sono stati come sempre, ma più del solito, i cani. Oggi non abbiamo passato città ma solo case sparse e piccoli agglomerati di baracche. In ogni singola capanna, in ogni casupola, in ogni bodeguita, da uno a sei perri aggressivi, che ci hanno inseguiti nell'indifferenza o ilarità dei padroni, quando presenti. Questo ha generato, già di per sè, un clima generale di tensione ed esasperazione, frustrazione, rabbia, poi aggressività da adrenalina alle stelle, come le bestie. Tante urla ferine per spaventare i cerberi, pietre lanciate senza davvero colpire, bastoni agitati in aria, ad un certo punto persino una zappa trovata a terra, con la quale ho fatto pisciare addosso una muta di cani che, vedendomi nella follia totale urlare e roteare l'attrezzo come una mazza chiodata, scagliandomi contro di loro gridando come una furia, han pensato l volessi ammazzare veramente. Invece volevo solo spaventarli ed evitare ci inseguissero oltre. Nel gestire la fatica della salita e degli attacchi dei cani, in tutto questo, ad un certo punto di siamo trovati circondati da uno sciame di api. Stavamo pedalando tranquilli, sulla carreggiata, e prima Gigi poi io ci siamo trovati completamente coperti di pelosissime e agguerittisme api. Ma perchè? Che abbiamo fatto? Non solo ci hanno assaliti, ma non ci hanno mollati per interi lunghissimi minuti, nè fermandoci nè continuando a pedalare. Hanno iniziato a pungere sul viso, ovunque, narici, labbra, sopracciglia, collo, gola, mani. Si infilano nel casco, sento ronzare nel cervello e poi una, due, tre punture. Fa un male brutto. E non se ne vanno, seguitano e ne arrivano altre e poi altre. Mentre cerco, stupidamente, di "fuggire" dallo sciame pedalando forte, tre cani iniziano a rincorrermi, e allora mi fermo, butto la bici a terra, mi chiudo in posizione fetale, con le testa coperta dalla maglia, e piango. Così è troppo, veramente troppo. Farà ridere la scena, parrà un capriccio. Ma in quel momento si è incrinato qualcosa, e non ho avuto più nè difese nè strumenti. I cani, vedendomi ferma,si sono allontanati.Le api pian piano sono morte, perchè a furia di pungerci TUTTE ci ha rimesso le penne un intero sciame. Gigi si è spaventato, vedendo la mia reazione. Temeva uno shock anafilattico. Ero solo STANCA. Abbiamo passato i successivi dieci minuti a estrarre i pungiglioni e a medicare con ammoniaca. Le punture si sono gonfiate e hanno continuato a fare male. Ancora stasera, facendo la doccia ho sfilato alcuni pungiglioni dalla testa. Nulla di che. Ma che fatica. Poi è passata e ho ricominciato a vivere l'attimo e godermi ogni istante, sia chiaro. E' solo stata la congiuntura a farmi cedere.

Riavvolgo il nastro.
Questa mattina San Ramon si è svegliata con noi, e la macelleria di fronte all'albergo, alle 7, era già gremita di polli con le zampe tese a saluto romano e avventrici in abiti misti tra l'amazzonico e l'andino.
Per colazione frittata e frittelle di platano, e una bella dose di mal di pancia, nausea coliche e diarrea. Ormai penso che ce ne libereremo una volta in Italia, forse.


Ci mettiamo in sella un po' a fatica, e con fatica affrontiamo i primi kilometri di salita, dopo esser sopravvissuti all'assurdo traffico cittadino. Il paesaggio muta in breve e la foresta  si fa più rada, meno colorata, più silenziosa. Le alture, al contrario, si elevano sempre più maestose davanti a noi. E' la già nota Cordigliera. Ci attende per l'ultima grande salita.




Oggi è anche giorno di tunnel e gallerie, che sono buchi nella pancia delle montagne in cui roccia e buio e umidità ci inghiottono. La valle qui è ormai così stretta da non lasciare spazio alla strada, che deve passar dentro e trafiggere la pietra. Il rio Tarma scorre lontano sotto di noi. Lo si vede di rado, coperto dagli strapiombi e dalla vegetazione, ma se ne sente il canto.






Dei cani vi ho già detto prima, e non ne parlerò oltre, con buona pace degli animalisti e di quelli che "se non li disturbi non ti fanno niente". La nostra esistenza li disturba. Tenete conto che tutto ciò che racconto è intervallato da inseguimenti e tenzoni. Come dicevo, oggi le uniche città sono state quella della partenza e quella dell'arrivo. Tutto il percorso è però costellato di agglomerati di quattro baracche, dove vivono un paio di famiglie, e negozietti, dove esse famiglie lavorano. Per noi, perri a parte, è una manna: cibo e acqua sono sempre garantiti. Facciamo una prima sosta tra Pan de Azucar e San Josè de Ucuyacu, nomi molto più lunghi dei "villaggi" stessi.



I prodotti sono sempre gli stessi: bibite, frutta (agrumi, banane, platano, granadilla), chiflets di platano dolci e salate, torte antiche e polverose, snack confezionati e frutta secca, spesso caramellata. In media per quattro o cinque prodotti si spende l'equivalente di un paio di euro.




Tutta la valle è costellata di centrali idroelettriche, molte delle quali di proprietà Enel. E là dove non ci sno turbine, ci sono cascate. Una mi colpisce per il nome. la ducha del diablo. Si vede che ha le chiappette strette, Satana, perchè il filo d'acqua lunghissimo che scende in verticale è veramente un filo interdentale.



Attraversiamo anche il Tunel Yanango, che è il fiore all'occhiello dell'ingegneria locale. Si tratta di una normalissima galleria lunga poco più di un kilometro, ma è un tunnel "moderno", con le pareti protette da cemento e persino illuminato. Gli altri sono buchi nella roccia fatti grossolanamente con la dinamite, bui e pieni di buche e pozze.



Sono così orgogliosi del tunnel che lo considerano quasi un monumento e non mancano, all'uscita, baracchini e venditori di cose per tutti coloro che si fermano ad ammirare una tale opera della tecnica.




i cocchi presieduti dalle scimmie e il cartello bagno. Caos e arte.


Qui si colloca l'episodio delle api che ho raccontato in apertura. Una volta rimessi in sesto, tutti gonfi (vedi foto) e doloranti, decidiamo di bardarci nuovamente in stile Amazonas, per quanto le precauzioni, fortunatamente, si riveleranno inutili. E' stato un caso sfortunato. La sfiga nera proprio.



In due colpi di pedale passiamo dal cartello che segna la "porta" di entrata o, nel nostro caso, uscita, dalla Selva central. Siamo ufficialmente fuori dal bacino amazzonico, e altrettanto ufficialmente dentro alla cordillera  (sempre central, naturalmente, altezza di Lima). Forse lo sciame molesto è stato l'ultimo saluto della foresta, che ci ha congedati così. Ciao, neh!




Qui la salita inizia a far sul serio. Le rampe diventano più ripide e meno docili da addomesticare. Gli strapiombi sul fiume danno le vertigini.



Passiamo Huacapistana e una valle si chiude, prima che si dischiuda quella successiva.







I tornanti e le gallerie consentono di guadagnare quota in fretta, sempre più immersi in un paesaggio montano che si fa spoglio ed essenziale, nudo.






Tiriamo dritti. Le punture delle api iniziano a pulsare e dolere meno, i cani sono più rari perchè non ci sono baracche abitate. Le gambe girano e il fiato corre rapido come il fiume. Siamo in forma, siamo informi, nel senso bello del termine, un tutt'uno con la roccia, il vento, la luce e le nubi alte. Anche Gigi tiene botta alla grande e spinge sui pedali con decisione. Qui in assetto antisommossa.







A Carpapata iniziano i tornanti lunghi e stretti come una biscia d'acqua; li seguiamo, per poi fare una sosta "in centro", rifocillarci e fare un cambio d'abito. E' tempo di metter via i vestiti leggeri della giungla e di indossare di nuovo quelli invernali della montagna. Il vento è freddo e l'aria si è fatta leggera, frizzante, non più densa, umida e afosa.





chips di platano e faccia punzecchiata

Ripartiamo per l'ultimo tratto di 15km. Salendo si vede la strada appena percorsa, e dell'alto dà misura di quanto ci si stia addentrando nel ventre dei monti lungo le loro budella d'asfalto.






Con una galleria e un ponte ci portiamo sull'altra sponda del fiume, e ormai manca poco alla meta. La soddisfazione di aver già alle spalle il grosso della salita e il desiderio di arrivare e riposare ci fanno spingere sui pedali più di prima, anche perchè da qui si sale in falsopiano e il vento è a favore e ci aiuta, generoso come mai finora.



Anche qui ci sono casupole e baracche abitate più da galline e perri che da cristiani. Il fiume è poco più che un torrente e corre ora vicino alla strada, sfruttato per irrigare campi obliqui e in pendenza assurda.







Poi eccoci, finalmente, alla meta. Palca, nella regione di Junin, la prima città dopo San Ramon. Era un forte utilizzato dalla gente della sierra come avamposto per la colonizzazione della selva, nel XIX secolo. Qui infatti non è territorio ashaninka, era l'ultimo porto sicuro prima dell'oceanico verde costellato di insidie, frecce avvelenate e animali pericolosi. Oggi è un borgo piuttosto macilento e cadente, ma con i servizi essenziali e qualche scorcio interessante.




Prendiamo alloggio nell'hostal El torero, tutto a tema corrida, con foto di azioni sanguinolente in ogni camera e corridoio. Incredibilmente macabro. Ma la scelta si riduce a zero e qui siamo di fronte alla plaza de toros, quindi ha senso. Per 40 soles (10 euro) si prende una camera con due letti matrimoniali. Il bagno è al piano ma ha l'acqua e la doccia è persino tiepida. Il che fa solo piacere, visto che le temperature, di sera, non sono più quelle dei giorni scorsi. Siamo pur sempre a 2700m.
Domani faremo tappa brevis, 20km (tutti di salita, sempre) fino a Tarma. "Siamo tornati sulla guida turistica". Sono di nuovo zone e città visitabili, con un centro storico, monumenti e siti archeologici. Quindi ne approfitteremo per riposare e goderci un fugace momento di ritorno alla civiltà, prima degli ultimi strappi d'altura.

Giovedì, 25/8
Palca-Tarma (3080m)
22km

Notte d'inferno. Dissenteria, nausea, fitte e bruciori dall'inizio alla fine del tubo digerente. Non si dorme. Il bagno è al piano, finisce la carta igienica. Sto male.
Questa mattina mi sveglio sversa e ribaltata per la debolezza, ma l'antibiotico lavora e argina il proliferare dei batteri che non mi mollano da giorni. Facciamo colazione con il fornello sul comodino, camomilla zuccherata e biscotti secchi simili ai Nic Nac, ma con gli animali local.



Essendo tappa breve, ci mettiamo in strada con calma, anche perchè io sto a mala pena in piedi. Il movimento, l'aria frizzante e il sole mi fanno bene e pian piano riprendo coscienza di me e del mondo. La valle del Tarma splende di luce chiara ed è un tripudio di verdi, chiari e scuri, ma addomesticati. Qui è zona agricola.



Uscendo dal paese ci diamo ancor più ragione dell'hotel El torero, a tema corrida, in cui abbiamo soggiornato. Poco oltre c'è il monumento al torero e una plaza de toros più grande della cittadina stessa.



Oggi la strada è dolce e ci accompagna insieme ad un deciso vento a favore. Di perros malos ne incontriamo pochi e i numerosissimi pueblos rurali, che si susseguono quasi senza interruzioni, sembrano più "civili", più "urbani". Le case son case e non capanne o baracche. Ci sono muri di cinta e cancelli, che tengono dentro i cani. C'è un tentativo di senso estetico, qui e là, con intonaci colorati e chiesine decorate. E' tutto più dignitoso, pur nel poco.



La gente è già ai campi. C'è chi zappa, chi irriga e chi ara, tutto a mano, senza macchinari. Terra bassissima e dura che però dà frutto. Qui han patria cereali, fiori, piante da frutto e ortaggi, erbe aromatiche e officinali.



Molti di questi pueblos portano i segni della loro storia e danno la misura della lenta espansione dei coloni dalla costa all'altiplano, al cejo de la selva e al bacino amazzonico. Questi paesini, spesso composti da una chiesa, un'hacienda e quattro casette, erano avamposti.




Per quanto si continui a salire, le pendenze sono gentili e quasi non ci si accorge che, un giro di pedale dopo l'altro, siamo sopra i 3000m di quota. Anche il paesaggio intorno non pare montano, se non per qualche altura che si intravede, brulla, a distanza. L'aria è densa del profumo di eucalipto e resina e sembra di essere in collina, da noi, a inizio primavera. Certo, qui l'aratro è ancora manuale e trainato dai cavalli...




Dopo 10km raggiungiamo Acobamba, nota per il suo santuario, El senor de Muruhuay, che attira migliaia di pellegrini peruani ogni anno. La moderna struttura, del 1972, custodisce un Cristo con croce scolpito nella roccia, che prima era protetto da una chiesina, e, fino al 1835, da una capanna con il tetto in paglia.



La cittadina di per sè è piuttosto anonima e polverosa, chiusa tra blocchi di roccia scura che fanno risaltare, ai loro piedi, le candide fincas e i loro terreni coltivati in perfette linee parallele.




Prima di raggiungere Tarma si possono ammirare diverse fattorie storiche che si sono convertite, del tutto o in parte, all'accoglienza turistica e sono, di fatto, qualcosa che noi definiremmo agriturismo. Hanno ambienti curati che richiamano gli splendori coloniali e offrono prodotti della terra, carne e latticini a km0, mostrando anche la filiera produttiva locale. Qui è attivo soprattutto un turismo interno di limenos e peruviani della costa che vengono a visitare l'altiplano e la selva in poche ore di bus o auto.




Ben prima di mezzogiorno giungiamo a Tarma, dove ho già prenotato un alberghetto in centro che ci dia modo di riposare bene per una mezza giornata. Ne abbiamo bisogno, tra notti in bianco, intestini in fiamme e visi gonfi di punture d'ape.



Tarma, spesso Taruma, è definita dalla guida come una delle città più accoglienti dell'altiplano, e in effetti è dotata di tutti i servizi ed è piacevole da passeggiare, nel centro. Il suo nome, che ha in realtà etimo quechua e si riferisce a una pianta autoctona e al fiume, non mi piace: un po' è trauma un po' insetto che fa i buchi nei vestiti e pure un po' schifo.


Qui, per il clima mite e il terreno fertile, vivevano due grandi gruppi etnici poi sottomessi dagli inca e frammentati in unità territoriali da Pachacutec, in modo da agire un miglior controllo. La città inca più importante era Tarmatambo, a 6km da qui, dove oggi si possono ammirare vaste rovine. Gli spagnoli poi mantennero l'idea della divisione delle etnie e Tarma, fondata a fine '500 in fondovalle, ebbe il ruolo di forte e centro di potere coloniale nell'area.


colibrì e studenti in uscita


Durante la guerra d'indipendenza qui si è combattuto sanguinosamente, ed è stata quartier generale delle forze peruane nella guerra del pacifico. Ma Tarma è famosa soprattutto per aver dato i natali a uno dei molti, purtroppo, dittatori che han governato il paese. E non solo gli ha dato i natali, ma lo commemora e venera e ha pure una giornata della gratitudine che viene celebrata ogni anno il 26 novembre. Parliamo di Manuel A. Odrìa, militare filostatunitense che, con un golpe, prese il potere nel 1948 e lo mantenne per 8 anni.


Prima di esplorare la città ci dedichiamo ad un poco di riposo. Doccia calda, lavaggio vestiti puteolenti, sano cazzeggio e pisolino. Dalla finestra si vede il Perù, con i suoi monti e i suoi tetti sghembi.



Riprese le forze (meglio: ripresi i sensi) ci tuffiamo nel gomitolo di strade che sono vivaci sì, ma non incasinate. I venditori ambulanti sono ordinati tricicli con ombrellino, con i gelati confezionati, e signore dei popcorn (c'è la potnia theron e la potnia popcorn). Sbrighiamo alcune pratiche, come il ritiro di contanti, il pellegrinaggio in farmacia e la ricarica della sim peruana. Poi ci diamo al paseo, piano piano, perchè sono molle e l'altura ha ricominciato a rubare ossigeno. Passiamo accanto alla parrocchia del Signore dei miracoli, che solo ormai può far qualcosa per le mie budella, e andiamo a vedere la prima cosa strana e vagamente inquetante: un parco dedicato al didattore nato qui.



Nulla da dire, è un bello spazio verde, molto curato e pulito per gli standard. I bambini giocano a piedi nudi sull'erba ed è in corso un piccolo comizio elettorale di uno dei mille candidati che hanno una faccia così poco raccomandabile che non gli affiderei neanche dieci soles.




Tuttavia, in questo bel clima sereno, non c'è da dimenticare che Odria è stato un dittatore, ha preso il potere con un golpe militare e si è accanito contro comunisti e apristi, (socialisti populisti antiamericani), violando i diritti individuali ed eliminando ogni forma di opposizione. E' stato uno dei tanti dittatori latinoamericani sostenuti dagli USA, in piena guerra fredda. Una personcina a modo.





Certo, Odria a Tarma ha fatto tanto. Diceva: "Por mi patria doy mi vida y por Tarma mi corazón". Un ospedale, due istituti scolastici, la casa municipale e l'hotel de turistas, tutt'oggi esistente. E la cattedrale, inaugurata nel 1954, dove ha l'onore di essere sepolto, vicino all'altar maggiore. Caso abbastanza raro per i dittatori, o almeno così mi piace pensare. Forse, fosse per molti, anche da noi si farebbe tanto per alcuni noti volti della nostra storia.



Con questo senso di straniamento, passeggiamo lungo il corso centrale fino alla Plaza de armas. Si susseguono begli edifici coloniali, sedi di istituzioni religiose, banche, farmacie e negozi di tecnologia. Tutte le cose "da città" che mancano nei pueblos rurali.




un bel negozio di telefoni e tv... Con il tetto à la peruana


In piazza, quasi tutta opera di Odria, spiccano la sua cattedrale, il gazebo dei vaccini





e i palazzoni in cemento decorati con fili di piccioni.




Proseguiamo la passeggiata per poi rientrare in hotel a riposare ancora. Siamo cotti ed è necessario.


Domani, infatti, ci attende una tappa da 60km. I primi due terzi in salita, dino a 4100m. L'ultima parte in discesa, per tornare a 3800m. Faremo sosta a La Oroya, che apre la zona d'altiplano crivellata di miniere, con le loro luci e le loro ombre.






6 commenti:

  1. Chiedi ad una falena che ti faccia una magia. Bel, viaggio, hai avuto un momento così, ma continuerai, altrimenti mi passa la voglia di lettura. Questo viaggio è quasi terminato ,e io penso già all'anno prossimo.

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  2. Ti avevo chiesto di farmi girare la testa, ci 6 riuscita, anzi a momenti mi hai fatto venire un attacco di cuore, specialmente, perché ti è svolazzata in testa l idea di rinunciare. Nooooooo. Io già ti ringrazio per tutto ciò che hai mostrato. Sei meglio di tutte le pastiglie e le cure mentali conosciute

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  3. ...non è sfiga... Gesù 40 giorni nel deserto....e la sua preghiera vera, padre nostro? Padre mio,mettimi in tentazione affinché io possa crescere. .... mentre la frase:" non mettermi in tentazione", affinché io viva come un ebete

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  4. Quando ti vedo che cos'ho
    Sento tremare lo stomaco
    Qualcosa di profondo sai
    Mi fa andar fuori di testa
    Fuori di me
    Io non capisco senza di te, oh no
    Il mondo che cos'è?
    Ho camminato per strade sai
    Ho fatto cose che non dovrei
    Ho visto cose fantastiche
    Ho avuto donne bellissime
    Nessuna ha mai chiarito se
    Il mondo è vero senza di te, oh no
    Io credo di no
    Standing ovation
    Standing ovation per te
    Standing ovation
    Ovation for you
    Ho passeggiato nel buio sai
    Ho vinto tutto e ho riperso poi
    Ho visto cose fantastiche
    Ho avuto donne bellissime
    Nessuna ha mai chiarito se
    Il mondo è vero senza di te, oh no
    Io credo di no
    Standing ovation
    Standing ovation per te
    Standing ovation
    Ovation for you
    Standing ovation
    Standing ovation per te
    Standing ovation
    Ovation for you
    Ti ho mandato un messaggio ieri sera
    È sulla segreteria telefonica, sono dei fiori
    Io ti ho pensato molto stamattina
    Quando ho visto nascere il sole
    Ti ho mandato subito un messaggino
    Era, "Per te vorrei essere migliore"
    Standing ovation
    Ovation for you

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  5. È nei ritagli ormai del tempo
    Che penso a quando tu eri qui
    Era difficile, ricordo bene
    Ma era fantastico provarci insieme
    Ed ora che non mi consolo
    Guardando una fotografia
    Mi rendo conto che il tempo vola
    E che la vita poi è una sola
    E mi ricordo chi voleva
    Al potere la fantasia
    Erano giorni di grandi sogni sai
    Erano vere anche le utopie, eh
    Ma non ricordo se chi c'era
    Aveva queste queste facce qui
    Non mi dire che è proprio così
    Non mi dire che son quelli lì
    Ed ora che del mio domani
    Non ho più la nostalgia
    Ci vuole sempre qualche cosa da bere
    Ci vuole sempre vicino un bicchiere
    Ed ora che oramai non tremo
    Nemmeno per amore sì
    Ci vuole quello che io non ho
    Ci vuole pelo sullo stomaco
    Però ricordo chi voleva
    Un mondo meglio di così
    Sì proprio tu che ti fai delle storie ma dai
    Cosa vuoi tu più di così?
    E cosa conta chi perdeva
    Le regole sono così
    È la vita ed è ora che cresci
    Devi prenderla così
    Sì, stupendo
    Mi viene il vomito
    È più forte di me
    Non lo so
    Se sto qui
    O se ritorno
    Se ritorno
    Se ritorno tra poco, tra poco, tra poco
    Però ricordo chi voleva
    Un mondo meglio di così
    Ancora tu che ci fai delle storie ma dai
    Cosa vuoi tu più di così
    E cosa conta chi perdeva
    Le regole sono così
    È la vita ed è ora che cresci
    Devi viverla così
    Sì, stupendo
    Mi viene il vomito
    È più forte di me
    Non lo so
    Se sto qui
    O se ritorno
    Se ritorno
    Fonte: LyricFind
    Compositori: Massimo Riva / Tullio Ferro / Vasco Rossi
    Testo di ...stupendo © Sony/ATV Music Publishing LLC

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  6. Vivere
    È passato tanto tempo
    Vivere
    È un ricordo senza tempo
    Vivere
    È un po' come perder tempo
    Vivere e sorridere
    Vivere
    È passato tanto tempo
    Vivere
    È un ricordo senza tempo
    Vivere!
    È un po' come perder tempo
    Vivere e sorridere dei guai
    Così come non hai fatto mai
    E poi pensare che domani sarà sempre meglio
    Oggi non ho tempo
    Oggi voglio stare spento
    Vivere
    E sperare di star meglio
    Vivere
    E non essere mai contento
    Vivere
    Come stare sempre al vento
    Vivere, come ridere
    Vivere (vivere)
    Anche se sei morto dentro
    Vivere (vivere)
    E devi essere sempre contento
    Vivere (vivere)
    È come un comandamento
    Vivere o sopravvivere
    Senza perdersi d'animo mai
    E combattere e lottare contro tutto contro
    Oggi non ho tempo
    Oggi voglio stare spento
    Vivere, vivere (vivere)
    E sperare di star meglio
    Vivere, vivere (vivere)
    E non essere mai contento
    Vivere, vivere (vivere)
    E restare sempre al vento a
    Vivere e sorridere dei guai
    Proprio come non hai fatto mai
    E pensare che domani sarà sempre meglio
    Fonte: LyricFind

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