martedì 4 luglio 2023

10-12. Chichen Itza e Mérida







1/7
Valladolid-Pisté (Chichen Itza)
51km

Cosa può andare storto, durante un viaggio in bici? Molte cose, direte voi. Esatto. E oggi sono successe quasi tutte: Gigi è caduto preda del cagotto, ha la febbre e sta male, e si è dovuto ciucciare una mezza giornata in sella sotto al sole cocente in condizioni penose. Io ho bucato, cosa assai meno grave, ma comunque fastidiosa, vista la situazione. Avevo l'ansia di non vedere Chichen Itza, che chiude alle 17, sa papà dios perchè, Siamo in un posto che non è esattamente il Grand Hotel, funestati dal solito annoso problema del cesso che non scarica a dovere e si intappa. La città di Mérida, dove comunque ci saremmo fermati almeno un giorno, dista circa 120km, che non sono una passeggiata se si sta male. Insomma, così. E siamo solo al quarto giorno di viaggio! Che Montezuma o qualche sovrano maya ci abbiano presi di mira?

Riavvolgo il nastro. Stamattina tutto sembrava tranquillo. Siamo usciti presto e faceva già un caldo devastante, ma ormai ci stiamo abituando. Siamo andati a comprare la colazione passando per il centro di Valladolid, che è davvero piacevole e tranquillo, con le sue case color pastello e i cartelli scritti in spagnolo e in lingua yucateca. La maggioranza della popolazione, anche qui, è indigena, per quanto urbanizzata, e lo si nota anche dagli abiti tradizionali delle donne.



Gigi dà già i primi segnali di malessere: si sente stanco e non ha appetito. Fin qui, però, sembra tutto sotto controllo. Prenoto un alloggio a Pisté, la cittadina adiacente a Chichen Itza, e ci mettiamo in moto. Uscendo dalla città rivediamo la Cattedrale di San Gervasio e il monastero di San Bernardino. Vale la pena dir due parole su Valladolid, perchè ha una storia tumultuosa quanto, almeno, le budella del povero Gigi. La città è stata fondata dagli spagnoli nel 1543 vicino alla laguna Chouac-Ha, a 50km dalla costa, ma questa zona era troppo calda e infestata dalle zanzare. Allora i conquistadores la spostarono più in alto, dove sorgeva il centro cerimoniale maya di Zacì. Ovviamente, per conquistare il luogo, ci fu una battaglia sanguinosa, altrettanto ovviamente vinta dagli spagnoli. Questi rasero al suolo la città maya e costruirono da nuovo tutto (la cattedrale di San Gervasio, ad esempio, è fatta con le pietre della precedente piramide cerimoniale). Per buona parte del periodo coloniale, Valladolid rimase in posizione isolata e autonoma dal potere regio, ma gli indigeni subirono un brutale sfruttamento, che proseguì anche dopo l'indipendenza messicana, con tanto di apartheid e quartieri vietati ai maya. Quindi, allo scoppio della guerra delle caste, nel 1847, i nativi presero d'assedio la città e, dopo due mesi, la conquistarono. Chi non riuscì a fuggire fu massacrato. Et voilà.


Dopo questo breve excursus nella storia fradicia di sangue, torniamo sulla nostra 180 libre, diretti a Chichen Itza. I paesini che si affacciano sulla strada sono tutti votati al turismo di massa che transita a pullmanate da Cancun o Tulum a Merida, via Chichen. E' una gran fiera di oggetti di qualità più o meno scadente, souvenir, berretti, cappelli, statuine, teli made in China e cocchi freschi appena raccolti.





Il percorso per noi dovrebbe essere breve, svelto e facile. Sono 50km tutti d'asfalto ottimo, piani e dritti. Ma quella che dovrebbe essere una tappa tranquilla si trasforma in una via crucis. Gigi inizia a stare male, si sente debole, soffre il caldo e fatica a spingere sui pedali. Dobbiamo fermarci ogni manciata di kilometri, ogni volta che si trova un filo d'ombra. E il passo supera di poco i 10km/h. Una sofferenza. Ma le alternative non ci sono: qui i bus non fermano... E Gigi non ha voglia di pietire un passaggio, preferisce provare a proseguire con le sue gambe. Passiamo i pueblos di Ektun, Cuncunul, Kaua e X-Calakoop, tutti fatti da una striscia di edifici per parte, affacciati alla strada, e poco più; sono ristoranti, negozietti, bancarelle. Il passo si fa sempre più lento e le stazioni della passione di Gigi si susseguono.








questa no, dai

A un certo punto Gigi si ferma a bere una Coca, sperando sturi, e ha un conato di vomito quasi addosso a un ragazzo che gli si è seduto accanto a chiacchierare. Io, intanto, sono stata trascinata nel vortice di palabras di un ambulante con la sua bancarella. Mi aveva incuriosito, invero, un'action figure di Goku in mezzo alle statuine di giaguari, piramidi, verginelle di Guadalupe e guerrieri maya. Ma lui mi attacca una pippa infinita e mi spiega ogni pietra, ogni pezzo di vetro o plastica che ha lì in mostra. Mi racconta di tutti i rituali che si possono fare con le varie pietre (le più, sappiatelo, purificano e bisogna metterle con il bicarbonato e l'acqua non so dove (nel chiulo, immagino) ogni martedì e giovedì. Insomma, 'ste collanine sono un lavoro! Ma per lui: vuole rifilarmele a prezzi indecenti, come una camera doppia d'hotel scrauso. Alle mie risate del tipo hey, amigo, magari pensi che tutti i gringos siano giocondi ma lo siento, hai sbagliato volpe, iniziano le contrattazioni. Per fortuna Gigi coglie i miei sguardi disperati e si alza per andare, nonostante i conati a spuzzo. Io lascio giù tutto il ciarpame che il venditore mi ha cacciato in mano e fatto indossare e via, di nuovo per strada al nostro passo da armadillo deceduto.
In tutto questo io ho bucato già da mo, ma con un fil di ferro così sottile che basta rigonfiare la gomma ogni tanto per poter proseguire. Ora le urgenze sono altre: portare Gigi a riposare, arrivare a Chichen Itza prima che sia raggiunto il numero massimo di visitatori giornalieri, o prima che chiuda. Che ansia!
Finalmente arriviamo, o crediamo di essere arrivati: c'è del personale in divisa, c'è una sbarra, c'è un cartello che indica le rovine archeologiche... Truffone, mannaggia a loro. Si tratta di un ingresso secondario, che ti porta a circa 3km da quello ufficiale. Ma casualmente lì ha sede un ristorante che fa anche da servizio di trasporto, e vende il pacchetto almuerzo + bus. Che furbacchioni! E che coglioni noi! Ma poco male, in bici son distanze ragionevoli. Quindi ringraziamo, salutiamo e torniamo sui nostri passi, io con la gomma molla e storta, Gigi moribondo.



Finalmente eccoci ai cancelli del sito archeologico. Gigi, plot twist, decide di non entrare, ma nemmeno di andare da solo in hotel (che dista nemmeno 2km). Preferisce sedersi fuori ai baretti e morire lì un paio d'ore. Non insisto, ha già fatto tanto. Anche se io, al posto suo, entrerei e, piuttosto, morirei lì, con onore, nel cenote sagrado dove buttavan dentro le vittime sacrificali. Quindi ci dividiamo. Lui rimane con le bici proprio alla porta del sito, io entro. Le famigerate impossibile code per le biglietterie sono a zero, non esistono. E' falsa anche la notizia che si debbano fare due code per i due biglietti (quello dell'ingresso e quello delle tasse). Si fa tutto insieme, con lo sproposito maledetto che costa.


Il primo impatto con la zona archeologica è quella di un marché de putaneé. Su ogni viottolo tra le rovine ci sono decine di bancarelle, cui si aggiungono ambulanti più disperati che nemmeno hanno il tavolino (chissà che pizzi ci sono da pagare in questo mondo atroce). Ma poi la meraviglia arriva, eccome se arriva! E tutta insieme, senza preavviso.




Riassumendo Wikipedia, Chichén Itzá è un importante complesso archeologico maya. Le rovine, che si estendono su un'area di 3 km², appartenevano ad una grande città che fu uno dei più importanti centri della regione intorno al periodo epiclassico della civiltà maya, fra il VI e l'XI secolo. Il sito comprende numerosi edifici, rappresentativi di diversi stili; fra i più celebri si possono indicare la piramide di Kukulkan (nota come El Castillo), l'osservatoio astronomico (il Caracol) e il Tempio dei guerrieri.

Il sito di Chichén Itzá è stato dichiarato patrimonio dell'umanità UNESCO nel 1988 ed è stato inserito nel 2007 fra le sette meraviglie del mondo moderno.



Il nome Chichén Itzá deriva dalle parole chi ("bocca") e ch'en ("pozzo"), e significa letteralmente "Alla bocca del pozzo degli Itza". Gli Itza erano un gruppo etnico che aveva una posizione politica ed economica predominante nella parte settentrionale dello Yucatán. A sua volta, il nome "Itza" viene in genere ricondotto a itz ("magia") e (h)á ("acqua"), e tradotto in "maghi" (o "streghe") "dell'acqua", dice Wikipedia. Infatti qui ci sono due cenote. E non è un caso che venissero usati anche per sacrificare esseri umani alla divinità della pioggia.



Chichén Itzá ascese al predominio regionale verso la fine del 600d.C.. Fu comunque verso la fine del X secolo che il sito divenne una grande capitale regionale, centralizzando e dominando politicamente, culturalmente ed economicamente la vita nelle pianure settentrionali dei Maya.
L'ascesa di Chichén Itzá viene messa in relazione con il declino dei principali centri Maya delle pianure meridionali, come ad esempio Tikal.
Alcune fonti indicano che intorno al 987 d.C. un re Tolteco di nome Quetzalcoatl arrivò in armi dal Messico centrale e, con l'aiuto di alleati locali, fece di Chichén Itzá la sua capitale, una seconda Tula. L'arte e l'architettura di questo periodo mostrano un interessante mescolanza di stili Maya e Toltechi. Tuttavia la recente nuova datazione del declino di Chichén Itzá indica che essa è in gran parte un sito del periodo classico finale, mentre Tula rimane un sito del primo periodo postclassico, rovesciando la direzione di possibile influenza (sempre parafrasando Wikipedia).


cartelli in spagnolo, inglese e lingua maya


"Al contrario di altre città Maya del primo periodo classico, Chichén Itzá non era governata da un singolo individuo o da una singola dinastia. L'organizzazione politica della città era invece strutturata attraverso un sistema cosiddetto multepal, caratterizzato dal governo di un consiglio composto dai membri delle famiglie più importanti.
Chichén Itzá al suo apogeo era la maggiore potenza economica delle terre Maya settentrionali. Sfruttando le rotte marittime che circondavano la penisola dello Yucatán per mezzo del sito portuale di Isla Cerritos, la città riusciva a ottenere materie prime non disponibili localmente, come l'ossidiana dalle regioni del Messico centrale e l'oro dalle regioni del Centroamerica più a sud." (Wikipedia)



La grande città dove si veneravano divinità maya e tolteche (come Quetzalcoatl stesso) vide fondersi le due culture sia nelle conoscenze sia nelle abilità artigianali. I toltechi, popolo guerriero, portarono all'ossessione ed esaltarono il sacrificio umano, come dimostrano le cruente rappresentazioni presenti nel sito. Il declino iniziò quando un capo maya decide di spostare la capitale politica a Mayapan, mantenendo qui solo quella religiosa, tanto che rimase meta di pellegrinaggio per molto tempo anche dopo il suo abbandono (XIV secolo). Il sito è stato riscoperto dalla metà dell'800 da archeologi statunitensi.




il cenote

l'ossario

I monumenti più interessanti, e qui c'è anche del giudizio personale (ma confermato da tante guide lette) sono, in primis, e grazie al Quetzalcoatl, la piramide di Kukulkan, detta, sempre con grande fantasia, El castillo. La struttura che si può vedere, con serpenti piumati e guerrieri sulle scalinate, è di epoca tolteca, ma ingloba una piramide più antica, che risale all'800 d.C. Non ci si può più salire perchè nel 2006 una donna è caduta, trasformandosi nell'ennesimo sacrificio alle divinità del luogo. La struttura altro non è che un calendario maya in pietra: 9 livelli divisi in due, 18 terrazze, come 18 erano i mesi (di 20 giorni); 4 scale di 91 gradini, per un totale di 365, come i giorni dell'anno. Ogni facciata ha 52 pannelli, come 52 erano gli anni della ruota del tempo. Negli equinozi si crea un gioco di ombre per cui pare che un serpente si snodi lungo la scalinata settentrionale. La piramide più antica contiene il cosiddetto trono del giaguaro rosso, con occhi e gocce di giada. Pare che questa matrioska di piramidi poggi su un cenote profondo 20m, cosa che potrebbe far collassare tutto da un momento all'altro.



Ancora, mi ha colpito il caracol, la chiocciola, dalla forma della scala interna all'osservatorio astronomico. Anche qui la simbologia si spreca: 4 porte rivolte ai 4 punti cardinali, decorate con maschere del dio della pioggia Chac; le finestre della cupola sono allineate con particolari costellazioni, visibili solo in alcuni periodi dell'anno. Da qui i sacerdoti stabilivano i giorni fausti e infausti per celebrazioni, rituali, semina e raccolta del mais.
Poco distante c'è un palazzo nobiliare finemente decorato, detto Edificio de las monjas perchè, con le sue molte sale, ricordava ai conquistadores un monastero. Convinti loro... Davanti c'è una pietra sacrificale tolteca.






Akab dzib, "scrittura oscura", è il più antico edificio del complesso (II secolo d.C). Sulla porta c'è la raffigurazione di un sacerdote con un vaso ornato da geroglifici tuttora non decifrati.





Ci sono poi ben 8 campi da gioco di pelota, di cui uno immenso, il più grande del Messico. Il campo è delimitato da mura e circondato da templi. Si vedono gli anelli di pietra fissati in alto, dove bisognava far passare la palla (solo con i piedi, in certe epoche, con l'ausilio di mazze, in altre) e le decorazioni che raffigurano la decapitazione dei giocatori. In periodo tolteco, infatti, chi perdeva veniva sacrificato agli dei. Questo edificio, come anche le piramidi, ha un'acustica incredibile. Non ho citato, per brevità, la piattaforma dei crani (tzompantli), il tempio dei guerrieri e il gruppo delle mille colonne, e altre strutture meno visibili ma non meno interessanti, tutte decorate ora con crani, ora con aquile, ora con giaguari e serpenti.


Insomma, Chichen Itza è bella! L'avreste mai detto? Una meraviglia del mondo moderno che effettivamente è tale. Dopo Machu Picchu l'anno scorso, ora aggiungiamo anche questa alla lista. Esco dal sito un po' trafelata: ho camminato diversi kilometri e a passo svelto, per non lasciare Gigi da solo troppo a lungo. In più il cielo si è fatto nero di nuvoloni, con tanto di tuoni e fulmini, mentre il vento si è alzato minaccioso. Tutti gli ambulanti e i venditori di souvenir si affrettano a raccogliere le loro cosine, a imballarle in qualche modo ed è tutto un fuggi fuggi di gente carica di statuette, maschere, parafernalia vari.

Gigi si è un po' riposato ma non sta bene. Montiamo in sella e, dopo le ennesime domande dei turisti riguardo alle bici, al viaggio, al cicloturismo in senso lato, ripartiamo. Mancano solo 2km all'albergo e riusciamo a scampare il temporale, che poi risulta in quattro gocce, e ad arrivare prima che la mia gomma vada a terra e Gigi también.


Sulle prime fatichiamo a trovare l'albergo, per quanto Pisté sia minuscola; infatti non è un hotel, ma è una casa, privata, anche abbastanza vecchietta e tradizionale, dove vive una famiglia che affitta alcune stanze, e persino alcuni posti letto e posti amaca. Infatti ci accolgono un bimbo che sta giocando in cortile e la abuela, con la pelle scura scura, che contrasta con i capelli e il vestito bianchi. La sciura è sguigia. Ha capito che la posizione della sua casetta può essere ben sfruttata, e affitta a un prezzo pari a quello di un hotel a 3 stelle in altro luogo, ma conveniente per la location. In ogni caso è una signora molto gentile e premurosa, e siamo contenti di dare qualcosa a lei e non a qualche catena alberghiera.






Gigi, senza nemmeno far la doccia, si butta a letto e cade in un sonno profondo da malattia. Io mi sistemo, mi riposo un po' (fare la tappa così lentamente e con tale fatica mi ha devastata) e mi metto a trafficare con la gomma bucata. Poi si aggiunge Gigi, che nel frattempo è vagamente resuscitato, ma solo perchè è cominciata la danza del mal di panza con la quale l'infezione intestinale si manifesta in tutta la sua bruttura. Stasera optiamo per una cena fai da te con spesa al supermercato, onde evitare ulteriori salsine e verdurelle maledette da Montezuma. Poi ci piazziamo fuori dalla nostra cameretta, che è un forno del demonio, e ci godiamo il fresco della sera temporalesca. In tutto questo si aggiunge una corsa in farmacia a comprare un termometro perchè Gigi ha la febbre da monitorare e il nostro è quello comprato in Perù, la cui batteria decide di morire proprio stasera. Ma, dopo tutto, anche questa giornata si chiude e rimarrà indimenticabile.




2/7
Pisté - Mérida
119km

Mentre Gigi dormiva, esausto, io ho cercato dei modi per evitargli i 120km di tappa (impensabili), ma permettergli comunque di raggiungere Mérida, dove ho prenotato una sistemazione molto più confortevole. Inoltre Mérida è la capitale dello stato dello Yucatan e offre tutti i servizi, mentre qui dove siamo c'è a malapena una farmacia grande come un ripostiglio. Mi informo sui trasporti privati, ma poi mi torna in mente un blog letto pima di partire: un cicloviaggiatore spiegava che, per quanto formalmente non consentito, sui bus non ci sono problemi a caricare le bici. Soprattutto quelli di seconda classe, dove la regola è: basta che ci stia.

Ci svegliamo poco prima dell'alba, e, in un primo momento, Gigi pare miracolosamente guarito e si dice in grado di pedalare. Ma basta un'oretta di veglia per farlo ricredere e ripotarlo più volte con i piedi per terra. Seduto sulla tazza del wc, altro che trono del giaguaro di giada.

La abuelita ci offre la colazione: ovetti in padella, frijoels refritos (salsa di fagioli) avocado, pomodoro e insalata, da mangiare sorseggiando un caffè lungo e nero nero. Do a Gigi le uova, prendo i fagioli (non aggiungiamo meteorismo alla situazione già stellare) e faccio anche la scarpetta. Gigi mi abbandona a metà, e sapete già dove sia corso. Faccio due parole con la signora, le lascio anche uno yogurt ancora chiuso sigillato che è rimasto da ieri (leggi: che Gigi ha comprato e io gli ho impedito di bere).


Gigi si convince del fatto che non sia il caso di pedalare, e si rassegna alla soluzione bus. E' spaventato dal fatto che, una volta sceso al terminal, dovrà raggiungere l'hotel (comunque vicinissimo) senza che sia io a guidare. Lo sa fare benissimo, ma ha comunque dei timori. Gli spiego tutto, gli imposto già Maps. Poi pedaliamo insieme i 500m che ci separano dalla fermata. Qui gli compro un biglietto per la prima corsa della compagnia Oriente, che è di seconda classe. I taquilleros mi spiegano che non ci sono problemi a caricare la bici, alla peggio l'autista può far pagare un extra (tipo mancia, tipo estorsione). Così attendiamo il bus, che è assai in ritardo, per un'ora e mezza. Ale 10, finalmente, passa. Aiuto Gigi a ficcare armi e bagagli nella stiva e lo saluto: ci vediamo a Mérida!



Ora son sola, e la strada è lunga. Faccio una sosta immediata al benzinaio, per gonfiare bene la gomma, e via! Ad affrontare le strade dello Yucatan. I primi 40km scorrono veloci. La strada è a gobbette, con dei minuscoli saliscendi che, vedendoli uno in fila all'altro, sembrano disegnati o frutto di abuso di peyote. Ai lati, selva bassa. 
Passo i pueblos maya di Yokdzonot, con il suo cenote azzurrissimo e balneabile, Libre Union, nato dai lavoratori di un rancho, e ora ancora assopito nella pigra mattinata di una rovente domenica di luglio. Holcà, il luogo del miele e Kantunil, "pietraia rossa". Sono tutti paesini ben messi, decorosi, con le loro case e i loro edifici pubblici, i parchi e i campetti, la chiesa, i ristorantini. Non fosse che ogni locale ha delle fettazze di carne di vario taglio appese fuori come panni stesi, in direzione della strada, ad affumicarsi con i gas di scarico dei mototaxi...

Faccio una sosta al km 40 e sarà l'unica prima di arrivare a Mérida (km 105). Grande errore di valutazione! Non tengo in conto il fatto che molti paesini che sulla mappa sembrano affacciare alla strada, sono invece immersi nella foresta e raggiungerli costa una deviazione su sterrato di parecchi kilometri. In ogni caso, dicevo, faccio una prima sosta e mi rifornisco di acqua. Resto un attimo a sbollire all'ombre, insieme a un perrito, a delle cipolle che abbruscano sulla griglia e un pollo in sacchetto di plastica, anch'esso sulla griglia, pronto a condirsi di tossine, microplastiche e cancro.








Torno in sella dopo aver sentito Gigi, che è ancora sul bus, e pedalo ininterrottamente per i successivi 65km, vale a dire 3 ore abbondanti. Direte voi: mica è niente di che. Certo. Vero. a casa, in clima temperato, è una sciocchezza. Ma oggi qui, in quelle ore centrali nelle quali ho pedalato, ha sfiorato i 40 gradi, con l'umidità, l'aia ferma e stagnante e il sole tropicale che mi ha bruciata nonostante il multistrato di crema solare 50+.
Le gambe vanno, ma dopo un po' mi accorgo che la vista è annebbiata e il cervello lenticchio come il legume. E delle stesse dimensioni, e secco del pari. Inoltre l'acqua nelle borracce è brodo, piscio, tè senza tè. Nè me. Tocco il casco: scotta. Idem la maglia, sulla schiena, e le parti della bici esposte al sole. E' tutto rovente! Spero di non bucare: i copertoni diventano morbidi, con queste temperature. Più tardi, in hotel, quando aprirò le borse, troverò tutti i vestiti come appena usciti dall'asciugatrice. Caldissimi, nonostante l'infogno nel profondo delle borse. Ad aumentare la sensazione di danno cerebrale imminente c'è la strada, che, dopo i paesi, si riunifica con l'autostrada cuota e diventa un unico stradone a 3 corsie, lungo, piatto, dritto, sempre identico, senza un filo d'ombra mai, senza una baracchetta a bordo strada. Luce, asfalto, selva. Fine.







Ci sono cartelli che indicano fattorie o allevamenti, ma l'idea di allungare ulteriormente la strada mi disgusta. Allora tiro dritto, e dritto. e dritto, finchè arrivo a Mérida. Ricevo diversi segnali di incitamento dalle auto e dai camion. Sclacsonate simpatiche, gente che mi grida: "Bravo! Bravo!" e persino un camionista fermo in uno spiazzo che si affaccia e mi fa segno, con due birre in mano, di fermarmi a bere con lui. Ringrazio di cuore, ma una birra adesso potrebbe essermi fatale, ancorchè fresca. Merida mi accoglie con i suoi cantieri aperti, che rendono le strade scassate e strette, e un tappetto di cani morti schiacciati dalle auto. Alcuni freschi, alcuni gonfi come zampogne, altri ridotti in poltiglia, altri in poltiglia ormai essiccata, che diventa una macchia scura sull'asfalto, con ossa e denti qua e là. La puzza di carogna è atroce. E' atroce pure come trattano qui gli animali. Sto vedendo scene che preferisco non raccontare, perchè non voglio mi si fissino nella memoria. Ma sono da spaccare il cuore. Perchè son gratuite. Non c'è uno scopo. Usare violenza o voler bene sono due moti d'animo gratuiti, non serve esser ricchi, o aver studiato. Danno la misura di quella che definirei inciviltà. Pensare che disporre della forza sul più debole autorizzi ad utilizzarla, per il solo fatto di poterlo fare. E' la storia del Grigio, l'asino della novella Rosso Malpelo. Tutto dà la misura dell'orizzonte di senso, affettivo ed emotivo, di chi le prende sempre, spesso gratis, e appena può ne dà.

Il punto più alto del mio ingresso a Mérida resta comunque, senza dubbio, Mateo. Ha 8 anni e lo incontro mentre aspetta sua mamma, nel supermercatino di un benzinaio, in custodia all'amica della madre che lavora lì. E' seduto all'unico tavolino, su una delle due sedie. Io sto per stramazzare al suolo dal coccolone di caldo e gli chiedo se posso sedermi a bere con lui. Lui alza lo sguardo dal tablet dove sta guardando i cartoni e, come un principino, mi dice: certo, non è occupato quel posto, accomodati pure. Lui si sta annoiando e ha voglia di chiacchierare. Io, pu avendo il cervello annebbiato, gli vado dietro. Prima mi parla della scuola, del fatto che sta studiando che c'erano dinosauri piccolissimi e altri che mangiavano solo banane. Poi mi fa vedere tutti i suoi giochi, soprattutto degli aggeggi per riempire d'acqua una ventina di palloncini simultaneamente. Lui vuol fare lo splendido e cerca di gonfiali soffiando, ma non riesce allora mi spiega che ha un po' di tosse e ora non ce la fa. Mi regala un palloncino rosa precedentemente gonfiato. "E' da femmina". Poi mi fa vedere una cavalletta e disserta a lungo sugli insetti che saltano. Poi mi chiede delle cose da bambino gentile, tipo: nome, anni, cibo preferito, colore preferito, quanti anni avessi nel 2007. "Non ti capisco tanto bene", chiosa. Mi scuso. Mi sento una cacca e penso che, oltre al mio spagnolo zoppo, l'ictus è realtà. Poi si prende una minipizza, se la fa scaldare nel grill dall'amica di mamma, e ne mangia prima le fettine di salame, staccandole con i ditini. Mi dice che è uno youtuber, ha 200 iscritti al suo canale. Io devo andare, mi sono ripresa e mancano solo 10km. Lo ringrazio, lo saluto, gli chiedo una foto. Mi alzo. "Non dimenticare il tuo palloncino!". Certo che no. Ciao Mateo!


Raggiungo il centro della città, dove si trova l'hotel, e mi rendo conto che le periferie son belle veraci anche qui, ma più ci si avvicina ai quartieri bene, più l'aspetto delle strade e degli edifici cambia, e drasticamente. Arrivo sotto una leggera pioggerella e un vento feroce. Il tempo di entrare e si scatena un quasi uragano, che prosegue per ore allagando completamente le strade e facendo saltare la corrente in diversi quartieri, compreso il nostro.




Tra la piscina, un gatto magro (questo hotel ne è pieno) e uno scivolone sulle piastrelle bagnate, ritrovo Gigi, che sta un po' meglio ma deve iniziare a prender qualcosa perchè febbre e cagotto persistono. Doccia, riposino, uragano, blackout. Intorno alle 20 prendo la situazione in mano e decido di uscire comunque a comprar qualcosa da mangiare per entrambi. Mi aggiro per le vie completamente buie, con l'acqua alle caviglie, ed è un'acqua caldiccia e puzzolente, frutto anche del rigurgito dei tombini, in cui galleggia di tutto. Molti negozi han chiuso prima dell'orario previsto. Non c'è un'anima in giro, le strade sono spettrali. Devo camminare a lungo prima di trovare qualcosa di aperto, una luce accesa. Per fortuna fa caldo e, nonostante sia fradicia, quasi non me ne accorgo: di solito si è così conciati, ma di sudore.
Tornando incrocio diverse squadre di operai, in cerata e con lucine segnaletiche addosso, a lavorare per ripristinare la corrente e rimuovere dalla strada rami e alberi caduti; ogni poco si sente un tonfo, uno scoppio. E' uno scenario post apocalittico! Per fortuna in breve riprendo la via dell'hotel e torno in camera sana e salva e con tanto di cacciagione: tonno, tortillas, frutta, marmellata... Insomma, il necessario per una cenetta da sciuri! La sera passa a lume non di candela ma di lucine della bici. Gigi cade presto in un sonno agitato... Speriamo che domani stia meglio! La giornata di sosta a Mérida casca a fagiolo più che mai.

feminicidios - Somos el grito de las que ya no estan. In Messico ogni giorno vengono uccise 11 donne, e poco si fa, persino, per cercarne i resti. Da ciò è nato un movimento femminista di protesta sempre più esteso e forte. Un inno: la Cancion sin miedo. Ascoltala qui.


3/7
Mérida

Oggi non pedaliamo: Gigi deve riposare e la capitale dello stato dello Yucatan ha tanto da offrire a chi la visita. Purtroppo molti musei sono chiusi perchè è lunedì, ma poco male. Quello che più mi interessa, il Gran museo del mundo maya, è aperto e ci aspetta. Le prime ore della mattina trascorrono in operazioni di noia mortale, in contatto con casa: la dichiarazione dei redditi da inviare, lo Spid da sbloccare, e altre menate che, per fortuna, gestisco solo in minima parte, con gran supporto della famiglia. Fosse per me, mi darei alla macchia, finirei in carcere o mi aggregherei agli zapatisti, cosa che non è detto non succeda davvero.
Poi, finalmente, concluse queste pratiche di morte, usciamo. Portiamo con noi il carico di vestiti luridi di quasi due settimane, perchè qui a Mérida ci sono le lavanderie a gettoni, o laundromat, cosa assai rara nei paesini.
Attraversiamo alcune vie centrali della città, che si riconferma un bel mischione tra edifici di gran lusso, anche esteticamente curati, ed altri fatiscenti, scrostati, decrepiti. Angoli tirati a lucido e ordinatissimi e quartieri caotici e lercetti. Ma senza che ciò corrisponda alla distinzione tra centro e periferia. Ogni zona ha entrambe le anime, che si compenetrano. In ogni caso si respira un'aria tranquilla e piacevole. Il caldo è già feroce, ma grazie ai portici e ai balconi si riesce a camminare spesso all'ombra.

l'università


La città pota evidenti tracce della sua fondazione spagnola. Nel 1540 Francisco de Montejo il giovane fondò la colonia di Campeche, e, approfittando delle inimicizie tra città maya, nel 1542 riuscì a conquistare questo luogo, dove sorgeva una città già semi abbandonata, T'ho. Le strutture di pietra e calce ricordano ai conquistadores la città romana di Mérida, in Spagna, onde il nome. Templi ed edifici furono abbattuti e le pietre usate per costruire la cattedrale e i palazzi. Durante il periodo coloniale lo Yucatan riceveva ordini direttamente dalla Spagna, e non da Città del Messico, cosa che ha dato un'identità culturale autonoma alla regione e alla sua capitale. Durante la guerra delle caste solo Mérida e Campeche riuscirono a opporre resistenza alle forze ribelli, grazie all'aiuto di rinforzi inviati dal Messico centrale, in cambio della disponibilità a passare sotto al controllo di Città del Messico

spesso le facciate scrostate dei palazzi nascono cotili interni meravigliosi



Oggi Mérida è il centro commerciale più importante della penisola, anche grazie ai maquiladoras, industrie di proprietà straniera aperte negli anni '80 e '90, e al turismo. Per questo ci sono ampie comunità di immigrati. E' anche il centro culturale più vivace dello stato, sia per la presenza di scuole, università e musei, sia perchè ogni sera o quasi i quartieri sono animati da musica, feste, danze ed esibizioni tradizionali. Numerosi sono anche i festival, tra cui quello de las aves Toh, che culmina con una gara di conta degli uccelli. Non chiedetemi altro. Questi maya sanno come divertirsi!

La prima tappa è al Parque de Santiago, con omonima chiesa, semplicemente perchè qui si trova la lavanderia prescelta. Mentre aspettiamo che i nostri quatto stracci tornino presentabili, facciamo un giro nel parco, dove i piccioni diarrotici glassano Gigi dalla testa ai piedi di una sostanza semiliquida e verde pistacchio (merda chiama merda, a quanto pare).



musicisti di strada che escono dal mercato coperto, dove si sono esibiti, e contano gli spicci


Al suo interno, la chiesa custodisce la più ampia collezione di statue brutte che io abbia mai visto. L'apice si raggiunge con il Cristo unicorno, sotto in foto.



la prima a destra... L'unicorno!



Dopo quattro risate blasfeme, passiamo per il piccolo mercato coperto adiacente. Ci sono principalmente ristorantini affollatissimi dove si griglia, frigge e arrostisce di tutto, in un odore misto di carne, peperoncino, pesce e pane appena sfornato. I banchi sono invece piuttosto ordinati e puliti. Nulla a che vedere con certe scene peruane, insomma.




versione maya della Nike





Concluse le operazioni di lavaggio e asciugatura vestiario, ci portiamo verso il centro, con l'idea di fare una beve visita dei punti salienti in modo che Gigi possa tornare in camera a riposare.


ma questi che vendono corsi religiosi che sembrano locandine di film? Sabato terapia de amor, casos imposibles






Raggiungiamo in primis la Iglesia de Jesus, costruita dai gesuiti nel 1618 con le pietre ricavate dalla demolizione del tempio maya che sorgeva proprio in questo luogo, tanto che sulle facciate è possibile rintracciare alcune incisioni maya.




Ci spostiamo poi nel vicino parco di Santa Lucia, delimitato da portici e sede di localini graziosi. Un tempo i viaggiatori arrivavano e partivano da qui, in diligenza. Sul palchetto in pietra, ogni giovedì, vanno in scena le serenatas yucatecas.




Potandoci verso la piazza centrale, passiamo per il futuristico palacio de la musica, che si colloca tra palazzi storici e case d'epoca.





Attraversiamo il parco de los hidalgos (!)


ed eccoci finalmente ai piedi della cattedrale di San Idelfonso, iniziata nel 1561 e portata a termine nel 1598 dove prima sorgeva un tempio maya, di cui sono state utilizzate le pietre. L'interno è disadorno perchè le sontuose decorazioni furono distrutte dai contadini ribelli, durante la rivoluzione, al culmine dei disordini anticlericali. Accanto, nel fu palazzo arcivescovile, si trova il museo di arte contemporanea.






Di fronte alla cattedrale si trova il palazzo del governo municipale.







Sulla piazza si affaccia anche casa museo Montejo, costruita nel 1549 e inizialmente adibita a caserma, poi villa nobiliare, oggi banca e museo. Interessante è la facciata, che raffigura conquistadores trionfanti con alabarde e piedi sulla testa di barbari non meglio identificati (e chi saranno mai?). I vinti sono, in proporzione, piccolissimi rispetto ai vincitori, canone tipico dell'arte coloniale che si ritrova anche nelle chiese.



Gigi ha esaurito le forze, per cui torniamo in hotel passando per i due archi secenteschi, del ponte e dei dragoni, che delimitavano la città,





fino a raggiungere l'hotel via chiesa de La Mejorada e museo della canzone yucateca.



Mi fermo anch'io un po' in camera a preparare le tappe dei giorni prossimi. Poi decido di uscire per recarmi al Museo maya, che dista una decina di km dal centro e richiede di prendere un mezzo. Proprio mentre metto fuori il naso si scatena il diluvio universale, come ieri. Stessa scena: vento, acqua a secchiate, strade allegate in un attimo, delirio e disagio di traffico. Ma non mi interessa, voglio vedere il museo. Quindi indosso la mia cerata da passeggio, praticamente una busta dell'immondizia di plastica spessa, e via. Cammino quel tento che basta da ritrovarmi scarpe e calze, ma pure i pantaloncini e le mutande, completamente zuppi. Fortuna fa caldo, caldissimo, soffocante. Poi prendo al volo un colectivo stracolmo di visi indigeni e chiedo all'autista di farmi scendere davanti al museo, anche perchè i finestrini sono completamente appannati e riesco solo a seguire il tragitto con il gps.


Arrivo e mi scaravento nel museo, perchè il tempo è poco e la collezione vasta. La cosa più fighissima (e uso appositamente questo termine perchè mi entusiasma!) è che il museo non presenta la cultura maya come qualcosa di storicamente concluso, anzi, segnala come, attraverso varie forme di evoluzione e necessario adattamento, sia viva e vegeta fino ai nostri giorni, con un orgoglio e una coscienza della propria identità che l'han salvata, nonostante siano i vinti di questa storia. Probabilmente c'è un desiderio di affermazione, di riscatto, di rivincita, ma è giusto così. Mi piace davvero l'idea che si parli di passato non come di una vetrina polverosa e con le ante chiuse, come un passaggio del cammino che porta a noi, e vive in noi, ogni giorno, in ciò che facciamo e nel modo in cui pensiamo.

Dunque la visita parte da sale che spiegano chi siano i maya oggi, dove e come vivano, quali lingue parlino, come si vestano (spoiler: con gli huipile, quegli abiti bianchi e con decorazioni floreali che ho visto spesso in questi giorni) e come gli attuali usi siano frutto di sincretismo tra religione e tradizioni preispaniche e cattolicesimo, con il suo calendario e i suoi riti. 





virgen con huipile

Ci sono poi tutte le testimonianze della conquista



Santiago matamoros della reconquista qui diventa Santiago mataindios

maschere di Abramo e Isacco usato per danze di conversione al cattolicesimo


Si affrontano poi i temi della schiavitù, dello sfruttamento, del regime dell'apartheid e della conseguente guerra delle caste


Questi documenti dimostrano che i maya che aveva studiato nei conventi usarono il latino per trascrivere le conoscenze tradizionali del loro popolo, fino ad allora trasmesse solo oralmente, per salvarle dall'oblio.



Solo dopo sono esposti i reperti provenienti dai siti archeologici, alcuni dei quali già visitati, altri ancora da scoprire, per me.








il famoso calendario













La visita si conclude con interessanti video immersivi che riguardano le principali credenze religiose, su tutte quella del sacrificio quotidiano del sole, che al tramonto scendeva nell'inframondo degli inferi e dei morti, e, dopo cruenta battaglia, ogni mattina risorgeva al cielo a portare vita.

Esco dal museo ben contenta e soddisfatta: ora ho strumenti in più per decifrare ciò che stiamo vedendo ogni giorno. Diluvia ancora, fuori. Mi imbatto nel pulcino di qualcosa (sembra uno struzzo in miniatura) che per un po' mi segue. Poi, per fortuna, ritrova il suo albero. Dall'esterno apprezzo la forma del museo, che richiama la ceiba, l'albero sacro dei maya che collegava i mondi: radici nell'oltretomba, tronco nel mondo degli uomini, chioma in cielo.





Inizia qui l'odissea del ritorno: i bus non passano, poi passano ma son pieni e non fermano. Quando salgo il traffico è tale che, per una decina di kilometri, impieghiamo oltre un'ora. E' ormai quasi ora di cena, quindi mi dedico alla spesa, da portare direttamente in hotel rientrando. Vedo finalmente come funziona un supermercato messicano e quanta idea di opulenza e abbuffo bulimico possa dare. Il pane si compra a vassoiate, tutto è immenso: le torte, i polli arrosto, le confezioni di biscotti. E' una bolgia e mi ci perdo. Fortunatamente trovo tutto il necessario, recupero lo zaino (è vietatissimo entrare nei negozi con lo zaino) e torno in albergo.
Qui trovo Gigi che sembra in forma. Al punto che si è appena preso, alla reception, quello che lui chiama gelato, ma è una gelatina bianca (latte gelificato?) con pezzi di gelatina sminuzzati rossi e verdi. La porcheria più sbagliata per uno che ha le maledizioni intestinali! Non posso lasciarlo da solo un attimo, mannaggina.


Dopo la necessaria doccia, durante la cena, discutiamo del percorso e delle modalità per i prossimi giorni. Sono fortemente indecisa perchè le cose da vedere sono troppe, ma una esclude l'altra per questioni di kilometraggio e tempi. Quindi, dopo un paio d'ore di studio, ne vengo a capo così: domani lasciamo Mérida e facciamo tappa a Uxmal, che non è una città ma ha delle strutture intorno alle rovine archeologiche (anch'esse patrimonio Unesco). Poi scenderemo lungo la ruta Puuc, costellata di resti maya, e in tre giorni circa, dovremmo raggiungere San Francisco de Campeche, capitale dell'omonimo stato. Da lì torneremo verso l'entroterra, per visitare la riserva di Calakmul. Domani si vedrà se Gigi sia in grado di pedalare o meno. Altrimenti faremo come già sperimentato: lui in bus, io in sella. 

1 commento:

  1. GIGI sei in buone mani, quello che stai passando,la Rita lo racconta in tutti i suoi viaggi...d altronde state affrontando un clima esagerato..

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