mercoledì 31 luglio 2024

31-33. Scimmie, roccia e risaie: la lunga strada per il ponte sul Fiume Kwai e la "Ferrovia della morte"














29/7
Kamphaeng Phet-Nakhon Sawan
121km

E' una notte difficile. La casita in cui siamo è davvero, e non sto esagerando, popolato da un intero microcosmo di insetti che, a luci spente, si palesano zampettando e ronzano e solleticando il viso, il collo, i piedi, le gambe, la pancia, ovunque. Spostando il copriletto un ragno delle dimensioni di Shelob è fuggito per nascondersi sotto al materasso, dove, secondo i miei calcoli, dovrebbe trovarsi anche il geco varano. Mi auguro che la catena alimentare inneschi i suoi meccanismi e risvegli nel rettile i più feroci istinti predatori, e che si pappi almeno l'aracnide, se non le altre bestie che strisciano e volano e corrono in questa stanza. Oltretutto devo confessarvi una situazione fastidiosa. Di giorno si suda tantissimo e non si fa mai pipì. Di sera si beve come cammelli, a cena e dopo, per un'arsura che brucia la gola, e però si suda poco, perchè non si pedala e si sta al fresco, ed è una continua processione in bagno. Anche di notte mi devo alzare più volte, come gli anziani... In condizioni normali non accade. Qui, dalle 21 alle 4 di notte, sono ostaggio della mia vescica, che mi distrae dal sonno. Nella fattispecie, stanotte, avendo il bagno esterno, è stato necessario, ogni volta, svegliarsi per bene, e non solo trascinarsi da sonnambuli. Quindi, nell'insieme, ho dormito poco. Ma il caffè solubile perfetto che preparo e la carica dell'host, che, quando ci vede in tenuta da bici e con i destrieri carichi impazzisce di entusiasmo e ci fa mille foto e video e poi domande a iosa, mi fanno comunque iniziare con il piede giusto la tappa. Poi oggi abbiamo un drittone lungo, piatto e facile, senza inghippi logistici e senza orari di visita. Bisogna solo mettere il culo sulla sella e far girare le gambe, mentre ci si gode il paesaggio. Persino Gigi Sconsy è sorridente!


In effetti il tragitto si rivela facile per come si preannunciava sulla carta. I primi 30km sono di stradine in mezzo ai bricchi, tra campi e villaggetti abitati più da cani randagi che da persone, con enormi templi coloratissimi, tutti yaksha zannuti e statue d'animali variopinti, deserti, ma ben curati.








Poi attraversiamo il fiume Ping, che non è maròn color caffellatte come spesso sono qui i corsi d'acqua, pieni di fango monsonico, e ci immettiamo sullo stradone che è la Highway 1, l'arteria che collega Bangkok a Chiang Mai. Starete pensando che è pericoloso pedalarci, con il traffico che ci sarà, e le velocità sostenute dei mezzi pesanti e non... Ebbene, tutt'altro! Il numero di veicoli è piuttosto limitato (sarà perchè oggi è festa nazionale, per il compleanno del re?), e auto e camion nè corrono nè mancano di rispettare il codice della strada. Più imprevedibili sono i motorini e i baracchini su ruote, che spesso zigzagano contromano, ma pure loro stanno ben attenti e non fanno manovre pericolose. Spesso vanno così piano da essere superati persino da noi! Gigi ci prende gusto, e nella gara tra umarells, moto-thai contro ciclo-farang, spesso vince il secondo e meno quotato. Inoltre la strada è sempre dotata di una larghissima corsia laterale, diciamo di emergenza, a volte persino doppia, che serve a far fiorire quel mondo del margine, quell'insieme di umanità varia che abita il bordo della corsia di emergenza. Ci sono bancarelle e ambulanti che vendono la qualsiasi, dallo street food che manda un profumino invitante alle scope di saggina, dal vasellame cotto e dipinto in loco alla frutta, dagli agli sotto aceto in enormi barattoli ai funghi freschi, dai galli in gabbia ai led tamarri per customizzare le auto. E poi ci sono quelli che raccolgono le bottiglie di plastica, i ragazzini a zonzo, chè oggi le scuole sono chiuse, i cani randagi, gli operai che decespugliano o fan legna... Insomma, un mondo a parte, sul margine. E noi viviamo lì, in quel fiume dalla lenta corrente che scorre esterno, tra la strada vera e propria, dove corrono i mezzi motorizzati, e il luogo di chi sta fermo, di chi ha radice, di chi non è in viaggio. 


ciclo-farang in procinto di superare vecio moto-thai, mentre un'arancia saluta

Il vento a favore, su questo drittone piatto, è una manna dal cielo. Teniamo una velocità di crociera ben alta per i nostri standard, e le frequenti, brevi e leggere piogge non ci disturbano. Certo, siamo di nuovo, noi, le bici e le borse, incrostati di fango, e il nitore dopo l'opera al bianco di lavaggio a Chiang Mai è già ricordo lontano. Però non fa quel caldo mortale che sale quando ci si avvicina al mezzogiorno, e nemmeno diluvia. E' una via di mezzo assolutamente accettabile. Così i primi 70km scorrono via veloci sotto alle ruote. Facciamo quindi una sosta, controllando più l'orologio (è mezzogiorno) che la stanchezza. Mangiucchiamo, ci reidratiamo, ridiamo forma alle terga e alla schiena, e via che si riparte. Ora il sonno si fa sentire: se mi buttassi a terra farei una buca di sogni pesantissimi. Ma non si può! Meglio andare e arrivare presto ed eventualmente schiacciare un pisolino prima di cena.
Tra l'altro nella pianura che oggi ci coccola compaiono delle colline dalla forma davvero strana, aguzza e affilata. Anche queste sembrano denti di bestia feroce che spuntano da una mandibola di terra ed erba.
Si tratta del Khao Nor-Khao Kaew, un breve complesso di alture ripide che custodiscono un tempio, una scuola isolata per le case sparse dei contadini intorno, e grotte ricolme di pipistrelli.






bancarelle in cui si vende il riso a km0, ma per davvero!


E, soprattutto, ricompaiono inaspettatamente le scimmie. Segno inequivocabile che stiamo tornando al centro del paese (la capitale dista meno di 300km da qui). Sono selvatiche, se ne stanno in gruppi, con tante femmine con i cuccioli, a mangiucchiare frutta e giocare, a spulciarsi e grattarsi. Insomma, son scimmie-scimmie, che fan cose da scimmie. Non sono abituate all'uomo e stanno a debita distanza (per fortuna, dopo il furto della lucertola a Lopburi non mi fido più). Quando ci fermiamo per scattare qualche foto, addirittura, molte se ne vanno. Altre se ne stanno lì, sedute sulle loro zampette, a sbucciare manghi maturi e succhiarne avidamente la polpa. Mi fanno grande tenerezza, sono tanto simili a noi, ma ancora in stato di natura, che è una condizione di piena innocenza. Il regno di necessità, per dirlo con Nietzsche. Mangiate i vostri fruttini tranquille, signore macaco, o macachesse, ora ce ne andiamo. Vi guardiamo un po', tutte carine come siete con le vostre codine e le mani affusolate, e quegli occhi così espressivi, e poi vi lasciamo in pace.



Nel frattempo, in una manciata di minuti, davanti a noi si è addensato un cupo muro di nubi nere. Vento e goccioline di pioggia vaporizzate nell'aria preannunciano il diluvio imminente. Siccome ormai mancano meno di 30km, tentiamo di battere il monsone sul tempo. E ci riusciamo (quasino, dai). Approfittando del vento a favore, che adesso soffia a raffiche, innestiamo la quinta e frulliamo sui pedali come fossimo in piena gara a cronometro. Inizia a piovere, di una pioggia che da noi sarebbe già intensa ma qui non è nulla. Proseguiamo. Il numero sul contakilometri sale in fretta, la meta si avvicina.


Ed eccoci, bagnati, inzaccherati, ma non fermati, a Nakhon Sawan, "Città divina", con i suoi 95.000 abitanti e almeno altrettanti varani. Ne vediamo uno ENORME morto (che Gigi scambia per una tenda/coperta) spiaccicato sulla strada. RIP varano, che tristezza! Il centro cittadino sorge in una fertile pianura alluvionale, nel punto in cui ben quattro fiumi – Ping, Wang, Yom e Nan – confluiscono dando origine al Chao Phraya. Che è il fiume di Bangkok. Noi abbiamo conosciuto le acque di tutti.
La fondazione della città risale al regno Dvaravati (VI-XI secolo d.C.) da parte di quell'etnia Mon che contribuì a diffondere il buddhismo nel paese. Poi le vicende sono quelle già note: finì sotto al Regno di Sukhothai (1238-1378), poi sotto a quello di Ayutthaya (1350-1767); pur con le inevitabili alterne vicende, in questi secoli la città, per la sua posizione strategica, divenne un importante centro commerciale, soprattutto per il teak e il riso. Poi, dal XIX secolo, fu annessa al Siam ed eccoci qui.



Le attrazioni turistiche degne di nota sono ben poche, e a noi, più che altro, tornava comodo far sosta qui come tappa di trasferimento verso Kanchanaburi. Ieri ho prenotato una stanza a nemmen 10 euro in un hotel di lusso in centro, il P.A. Place, con i suoi 8 piani (qui si conta il pianterreno come 1). Siamo accanto ad un ospedale che pare molto moderno e pulito, ed è pochissimo frequentato e molto silenzioso. Il che non so se sia un buon segno, ma almeno non siamo accanto al crematorio come ieri! In più abbiamo intorno negozi e ristoranti per la cena. E dal nostro terrazzo al sesto piano la vista è davvero degna! Da un lato lo sguardo si perde a sud, nelle pianure oltre il fiume. Dall'altro le due collinette della città svettano con tanto di osservatorio/terrazza panoramica, templi e Buddhone.







Domani piegheremo i manubri a sud-ovest, facendo tappa in quella che Gigi ha ribattezzato come "sempar ciuc" (sempre ubriaco, in dialetto): Sam Chuk, sede di un antico mercato famoso in tutta la regione. Seguiremo una parte del corso del Chao Phraya, e poi quello del Tha Chin. Sono altri 120km, così che poi, dopodomani, si possa giungere alla città-simbolo degli orrori della guerra, Kanchanaburi, nota per la sua Ferrovia della morte. Lì avremo modo di vedere il tristemente famoso ponte sul fiume Kwai, i cimiteri dei prigionieri di guerra e i musei che ne ricordano la misera sorte. E a questo punto saremo così tornati all'altezza di Bangkok, dopo 33 giorni, di cui 25 pedalati, e 2600km percorsi e 13.000m di dislivello... Disegnando pure una specie di cuore sulla mappa! O un culo, o uno scroto, vedete voi.

30/7
Nakhon Sawan-Sam Chuk
120km

Pronti, partenza, via! Siamo in strada, dopo un cappuccino (sic) della macchinetta offerto dall'P.A Place hotel che è molto molto simile a quello che bevo a scuola da settembre a giugno tutti i giorni o quasi. Vibes contrastanti, sa di casa, ma non la parte bella dell'essere a casa. Gigi ha pure fatto entrare in camera una flottiglia di gechi lunari, stamattina, che si erano rintanati nelle sue borse lasciate sul balcone. I prossimi ospiti avranno un'allegra compagnia.
Noi siamo presto in strada. Anche oggi ci attende una tappona di trasferimento verso sud est; puntiamo alla finora sconosciuta Sam Chuk, che offre tutti i servizi necessari e sta proprio a metà strada: per Kanchanaburi sono altri 120. Poi rallenteremo un po', visto che finora abbiamo conservato intatto un "tesoretto" di giorni extra rispetto ai 100km quotidiani che di media percorriamo. L'idea è quella di spezzare su due giorni i 135km che separano Kanchanaburi da Phetchaburi. Quest'ultima, infatti, pare meriti di essere visitata con calma: è definita una "Ayutthaya vivente" e senza l'accollo dei turisti, ma con macachi mordaci senza tema nè vergogna. Insomma, una figata! E poi le saline di questa città saranno la nostra porta di accesso alla costa del Golfo del Siam, che percorreremo diritti come frecce scagliate da un arco esatto. Almeno fino a Chumpon, dove ci imbarcheremo per le isole. Insomma, i progetti sono questi, ma adesso è ora di pedalare!
I primi kilometri sono di nuovo sulla highway 1, nel nostro porto sicuro, la corsia del mondo di margine. Incappiamo in templi cinesi con enormi portali, baracchini a motore a non finire (oggi non è più festa, e il viavai è molto più vivace) e anche furgoni stracarichi, letteralmente, di banane.





Poi iniziano a comparire cicloviaggiatori thai; uno, poi due, poi tre e quattro... Sono tutti vestiti quasi uguali, qualcuno ha una e-bike, i più normali bici un po' cancello. Borse, passamontagna, cappello a tesa larga e un cartello appeso dietro con immagini religiose. Nessuno di loro ha voglia o modo di far conversazione, e si limitano a un breve saluto. Pensiamo che siano un gruppo, ma no, tra loro non si conoscono... Vuoi vedere che son pellegrini? Qui usa abbastanza mescolare fede e viaggio/avventura. Magari... Ma il dubbio ci resta, e per un po' mi dà da pensare. La testa deve restare impegnata, e ben assorta: infatti, a differenza di ieri, il vento oggi non ci aiuta. Anzi, ci sputa proprio in faccia con cattiveria! E' teso e ci rallenta, rende tutto difficile e pesante, e i kilometri non scorrono. Guardo lo schermo del ciclocomputer e sembra sempre fermo. 120km piatti e abbastanza dritti in questa maniera sono mentalmente impegnativi. Il tempo si sfilaccia e lo spazio si dilata, in barba alle leggi fisiche della relatività, e pare di sprofondare nelle buche molli (così le immagino) dello spazio curvo. Si affonda nel terreno della fatica, della noia. Si va troppo piano. Si è quasi -quasi- fermi. La stessa risaia, la stessa piccola altura sono sempre lì, immobili, ogni volta che si alza lo sguardo.






A un certo punto lo stradone si biforca e il ramo che imbocchiamo è deserto. Deserto ma provvisto di ciclabile. Ciclabile vera, separata dalla carreggiata da una siepe di bouganville policroma in fiore, designata proprio solo per le biciclette. Le moto, per lo più, ne stanno fuori. Intorno son campi, risaie, canali, fiumiciattoli, contadini curvi sulla terra bassa e tutte le varietà di uccelli acquatici che potete immaginare, anche quelle che non conoscete. Regna su tutto una grande pace, e c'è silenzio. Se solo Eolo la piantasse di prenderci a schiaffi in faccia! Io sto facendo davvero fatica ora e mi sento in debito di zuccheri. Ma dobbiamo pedalare ancora un po' prima della pausa.




Passati i 60km, e quindi la metà della dose odierna, facciamo tappa ad un benzinaio con negozi. Il main event è che stanno smontando l'enorme insegna, con gru, cavi, operai che gridano e commessi tutti impegnati a filmare i lavori. Tanta cura e tanta precisione non valgono ad evitare un danno: l'insegna, smontata e penzolante, finisce a centrare un'auto e un pick-up, con sommo disappunto dei proprietari, dipendenti delle attività della stazione di servizio. Per fortuna nessuno si fa male... Gigi, da bravo umarell, controlla tutto il cantiere.



Mentre fervono i lavori, io mi pappo questa papaya essiccata e salata, ma anche galeotta: mescolata al thai tea ghiacciato, mi provoca un reflusso che mi trasforma in un dragone vomitabile per i successivi 40km. Non è una passeggiata. Riesco a pedalare, ma intanto rimetto, e se bevo anche solo una goccia d'acqua, innesco di nuovo l'effetto naga a spruzzo. Quindi vomito e pedalo, e pedalo e vomito. Sono abbastanza una professionista di queste situazioni, in viaggio ahimè abbastanza frequenti. Riesco a sporcarmi poco, per la situazione "dangerosa" che è. Ma mi disidrato e le forze vengono a mancare del tutto.


Imbocchiamo stradine sempre più piccole e sperse in aree rurali. Meglio così, almeno nessuno vede quanto una ciclofarang possa essere malridotta, pur senza smettere di pedalare. Ogni tanto si incrociano cascine che espongono in cortile antiche barche sfasciate. Qui è tutto un dedalo di canali e fiumi, sicuramente questi erano mezzi di trasporto assai usati, come da noi, sui navigli, le chiatte. Ad ogni incrocio, ingresso di villaggio e scuola ci sono anche enormi statue di pappagalli e uccelli esotici. Non lontano da qui si trovano uno zoo e un birdpark piuttosto amati dai locals. Noi seguiamo i canali, e pare di essere a casa, sullo scolmatore.













Finalmente torniamo in zone meno campagnole: necessito di un bagno per lavare me stessa, le borse, la bici, la volPina a manubrio... Tutto è coperto da un sottile strato di bile, papaya e thai tea. Lo so, è un'immagine splatter. Ma tant'è. Dopo aver ripulito tutto a modino, bevo, chè sono disidratata e, finalmente, dopo quasi tre ore di fuoco, riesco a tener giù almeno l'acqua. "Sono fuori dal tunnellelleleleeee", anche se discretamente sbattuta!!!



Ormai manca poco: in 15km siamo a Sam Chuk. Qui ci fermiamo in un "resort" centralissimo che avevo individuato già ieri sulla mappa. Una ragazza mi accoglie con un inglese impeccabile. Le altre signore dello staff, invece, necessitano di traduzione simultanea. La ragazza english speaking mi fa molte domande riguardo al viaggio e rimane impressionata sia dal tempo che abbiamo a disposizione, sia dal kilometraggio pedalato e pedalando, sia dal fatto che siamo qui da un mese e ce la siamo cavata pur senza parlare thai. Per lei è incredibile. E invece... Un po' qui tanti parlicchiano inglese, un po' siamo italiani noi e ci intendiamo a gesti anche là dove il logos non arriva. In ogni caso, prendo una stanza. Il posto è davvero di lusso, infatti siamo quasi fuori budget: 12 euro la doppia! Però c'è la colazione inclusa domattina,





la faccia della volpe-dragone

Cena da spesa al minimarket (il ristorante, oggi, no), telefonata consueta a mamma e papà, che mi fan sempre vedere la mia gatta Bisky in villeggiatura con loro, e sotto a studiare bene la logistica per visitare domani Kanchanaburi. Ho prenotato in un alberghino su palafitte sul fiume, proprio a ridosso del museo dedicato ai prigionieri di guerra e alla Ferrovia della morte, che sorge accanto al cimitero dei POW. Vedremo queste due cose, e il ponte stesso, ovviamente. La sera, invece, si prevede passeggiatina nella "walking street", con le sue case storiche e i suoi mercatini. A propos, qui vi sarete accorti che son dei professionisti dei mercati. Ogni città ha il day market, il night market, il mercato dei giorni feriali, quello del sabato, quella della domenica... Ma il concentration camp market ve lo aspettavate? Ebbene, c'è anche quello, dove sorgevano i campi di prigionia gestiti con ferocia dai giapponesi. Pure Sam Chuk, dove siamo ora, è famosa per un mercato che esiste da oltre un secolo ed è patrimonio Unesco perchè conserva tradizioni altrove perdute, con tanto di stile architettonico particolare, detto "casetta di pan di zenzero" per le shophouse in teak. Gigi ha commentato in modo laconico: "Anch'io ho quasi un secolo. Tra poco sarò anch'io patrimonio Unesco?".


31/7
Sam Chuk-Kanchanaburi
120km

Scrivo da qui, dalla riva del fiume Kwai, il Khwae Yai tristemente noto per gli orrori inflitti ai prigionieri di guerra Alleati finiti tra le grinfie dei giapponesi. Ora tutto è calmo, e si respira un'atmosfera di pace. Pace per i morti, oltre 100.000 per costruire questi ponti maledetti, e pace per i vivi. Da lontano giunge fioca una musica festosa, mentre qui, sulla passerella in legno della "nostra" palafitta, si sentono solo lo sciabordare delle onde tra i fiori di loto e, ogni tanto, il tintinnio delle piccole campane a vento appese alla tettoia. Pace. Le luci accese sugli stupa e intorno alle statue dei Buddha non disturbano questa vastissima quiete, che, anzi, gioca in morbidi riflessi d'oro e argento sulle acque increspate. Pace. Pace per i vivi e pace per i morti.



La giornata comincia di buon'ora: ci attendono quasi 120km di strada e poi la visita ad alcuni luoghi simbolici di Kanchanaburi, meta che stiamo inseguendo furiosamente da tre lunghi giorni. Ieri la ragazza english speaking mi ha detto che la colazione inclusa consiste in caffè solubile e merendine confezionate. Ma quando scendo nella hall per la mia necessaria dose di caffeina, mi trovo davanti a quel che pare un ricevimento, un pranzo di gala. Tutti i tavoli davanti alla lobby sono occupati da famiglie thai intente a ingozzarsi con ogni bendiddio, mentre due sciure sono impegnate in quello che definirei "servizio di catering", cioè spadellare e servire pentoloni di riso, di zuppa, di salse varie. Con il traduttore chiedo ad una signora dello staff se quella è la modestissima colazione per gli ospiti dell'hotel, e lei mi dice di sì con la testa, sorride e fa segno di accomodarmi e servirmi. Alla faccia delle merendine confezionate! Che bella sorpresa! Vado a chiamare Gigi e approfittiamo di questa fortuna, pur senza esagerare con le zuppe piccanti e lo yogurt conservato alla "sper'in dio" in un bidoncino da 5 litri immerso in acqua fredda.





Così, ben carichi per la lunga giornata che ci attende, partiamo. Oggi è tutto un alternare stradine di campagna e stradoni tra le città. Come ieri, Eolo è contro. Ma la calma delle aree rurali, dove i contadini sono già al lavoro, sparsi uno qua uno là, nel frullare d'ali degli aironi-cicogna, distraggono dalla fatica. Destiamo non poche attenzioni, ma positive: molti pollicione alzati spuntano da carretti e trattori, e tanti "Hello!" e "Ok ok!" ci giungono e subito se li porta via il vento.

















Non fosse per i templi dai colori sgargianti e per gli zebubi zebussi, parrebbe quasi di trovarsi, a tratti nelle nostre zone, tra il canale scolmatore e i navigli. Stamattina mi frullano in testa alcune scene di "Goodmorning Vietnam", per questa luce polverosa e rovente e i profili di palme e banani, e Montale.

"Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l'uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo."

E' un manifesto esistenziale, ed oggi lo sento particolarmente mio. Non chiederci la parola, e nemmeno se questa è la strada giusta. Credo di sì. Di sicuro so che non è quella sbagliata, e porta a Kanchanaburi, proprio dove vogliamo andare (se ho impostato bene la traccia, eh. Il dubbio a un certo punto viene sempre). Intanto Gigi, che sostiene che stare a ruota quando c'è vento non seva, perchè "non sente beneficio", scopre le gioie del retromotore o retrocamion, facendosi tagliare l'aria da un carretto carico di fieno che procede a 20km/h esatti.
 


Intorno ai 40km, ben presto, a U-Thong, facciamo una sosta per riempire le borracce. Oggi fa veramente caldissimo, si suda e si beve come cammelli assetati. Poi tiriamo dritti fino al km 72, passata la cittadona di Suphan Buri e l'imponente monumento a re Naresuan il Grande, eroe nazionale che, dal suo trono di Sukhothai (1590-1605) sconfisse e scacciò i birmani, espanse il regno, e fece rinascere Ayutthaya, in rovina. Per gli interessati c'è anche un film a lui dedicato. I thailandesi lo venerano due volte l'anno, a gennaio e il 25 aprile, in ricordo di una battaglia decisiva e della sua morte. La sua figura è stata sfruttata da alcuni dittatori militari per creare unità nazionale, infatti sti po'po' di monumenti risalgono a quei periodi politici lì.
Noi ci limitiamo ad una sosta classica e incontriamo un cicloviaggiatore asiatico che a stento ci degna di un saluto, e se ne va presto in sella alla sua simil-Brompton elettrica. Il cassiere ci dice di stare attenti alla pioggia monsonica che sta per arrivare. Ma si sbaglia. Anche oggi ci dice culo, e ce la caviamo con qualche gocciolina e nulla più.


Siamo al pelo per arrivare in tempo a visitare il museo dedicato alla Ferrovia della morte. I 50km che ci separano dalla meta sono qualcosa di simile a una marcia forzata. Il vento non molla, ma la strada è piana. Giù la testa e ci trasformiamo in grame bestie da soma, in trattorini con le marce ridotte. E' faticoso, ma appagante arrivare giusti giusti in Kanchanaburi per fare tutto ciò che ho programmato. Questa città, fin dal Settecento avamposto voluto da Rama I contro le invasioni birmane (il confine è vicino, e qui ci sono montagne e un fiume a proteggere), è famosa più che altro per la cosiddetta "Death Railway", resa nota grazie alle memorie dei reduci (in particolare Pierre Boulle, autore del libro "Il ponte sul fiume Kwai) e ben 3 film da esse tratti. In effetti, la città non manca di onorare la memoria della tragedia e degli orrori della guerra. E ne beneficia, per non dire approfitta pure parecchio, in termini economici. Ma di questo vi dico dopo.




Durante la Seconda guerra mondiale l'esercito di occupazione giapponese usò i prigionieri di guerra alleati e manodopera asiatica coatta (quella di "razza inferiore", per capirci) per costruire la linea ferroviaria destinata ad assicurare i collegamenti tra odierni Thailandia e Myanmar (che era colonia inglese). A riaccendere l'interesse, di recente, è stato il romanzo vincitore del Man Booker Prize, "La strada verso il profondo Nord" di Richard Flanagan (Bompiani, 2018), ispirato all'esperienza del padre dell'autore, uno dei prigionieri qui impiegati.

La nostra prima tappa di visita è un museo, il Thailand-Burma Railway Centre. L'esposizione, ben curata e immersiva, spiega come i POW e i lavoratori coatti venissero trasportati qui su carri merci, stipati e roventi (un viaggio di 4 giorni), per poi essere portati nella giungla con marce forzate a lavorare in condizioni terribili. Si moriva per malnutrizione, pessime condizioni igieniche, malattie (colera, malaria e dissenteria) e incidenti, o tutte e tre le cose insieme, sommate alla brutalità e alla ferocia dei giapponesi e delle loro barbare punizioni ad ogni minima infrazione delle regole. Infatti questa ferrovia, che pure è una straordinaria opera di ingegneria per le caratteristiche del territorio, si basò tutta sul lavoro manuale, con attrezzi rudimentali e la sola dinamite come ausilio "tecnologico". Costò la vita a 12.000 prigionieri di guerra (inglesi, australiani, olandesi, statunitensi) e a 90.000 asiatici (malesi, cinesi e indiani su tutti). Molti thailandesi rischiarono la vita per aiutare in qualche modo i detenuti, pur senza poter fare molto. Il museo illustra bene il costo in termini di vite umane, la follia della guerra e la necessità di ricordare le storie dei singoli, e dar valore a quelli che non sono solo numeri e statistica.














Compreso nel prezzo del biglietto c'è un tè o un caffè che si può consumare nella caffetteria al secondo piano, dove è possibile consultare l'archivio dei nomi e spaziare con lo sguardo sull'ahimè sconfinato cimitero dei caduti. E' il più grande dei due presenti in città ed è mantenuto in modo impeccabile dalla Commonwealth War Graves Commission. Qui riposano 6982 soldati, metà britannici, gli altri australiani e olandesi. Ci sono anche quelli non identificati e le ceneri di chi fu cremato. I resti degli statunitensi sono stati rimpatriati.






Piuttosto scossi dalla visita, che davvero è d'impatto, decidiamo di concederci un attimo di sosta e di fare check in alla Tamarind Guesthouse, che dista una manciata di metri dal museo e dal cimitero, e affaccia direttamente sul fiume Kwai (che si pronuncia, a quanto pare, KUAE, mentre KUAI significa bue e fa riderissimo i thai). I 10 euro per la doppia con bagno privato spesi si rivelano un ottimo investimento. La palafitta che ospita la nostra camera è circondata da fiori di loto, e lo sguardo spazia sulle montagne intorno. E' davvero bellissimo, commuovente. Pace per i vivi, e pace per i morti.













Doccia, cambio rapido e siamo di nuovo in strada. Vogliamo andare a vedere il ponte, ora che ne conosciamo la cruenta storia. Dista 3.5km, e decidiamo di prendere una sorta di motorino con sidecar con tettoia, che è il mezzo privilegiato per il traporto su breve distanza, qui. Prima, però, camminiamo un po'. E ciò che vedo mi dà sensazioni contrastanti. Si vede che questa città, che conta quasi 100.000 abitanti, attrae turisti e cerca di trarne beneficio. La via centrale che affaccia al fiume è un susseguirsi di ristorantini un po' marcescenti e zozzoni, che però vantano menù in inglese e "vegan dishes". Negozi che vendono marijuana. Localacci in cui promettono ubriacature epocali a soli 10 baht, negozi di souvenir, tatuaggi walk in e tour poco etici con passeggiate a dorso di elefante e negli zoo, umani e animali, e soprattutto una marea di bar con le donnine. E tutti piuttosto frequentati da farang improbabili, vecchi gassi e storpi, brutti dentro e fuori, che ridono, già alticci, in compagnia di ragazze e donne del mestiere. Non è uno spettacolo particolarmente piacevole. Il mercimonio della carne umana mi fa ribrezzo, e non per chi lo pratica (si fa di necessità virtù) ma per chi ne usufruisce. Sarò bigotta, sarò moralista e bacchettona. Ma mi fa schifo. Mi fa schifo a pelle. Mi fanno schifo i puttanieri, questi grassi, rubizzi, attempati uomini, magari padri e nonni, magari mariti, magari anche no, non importa, che pagano per un servizietto e si sentono a posto così. Certo, fanno girare l'economia. Ma questa economia è sbagliata e basta.



Dopo esser stati richiamati a più riprese dalle signorine, ci carichiamo sul mototaxi o come vogliamo definirlo e raggiungiamo il ponte.




Qui pure è tutto un fiorire di bancarelle, con tanto di donne trans che interpretano il ruolo della caricatura di loro stesse e fanno versetti e versacci ambigui tagliando la frutta a colpi di machete, per il divertimento dei turisti. Davanti al ponte che è costato la vita a più di 100.000 persone. Piuttosto si faccia pagare un biglietto per visitarlo, ma questo è un po' troppo. Come il concentration camp market sull'altra sponda. Pensate se ci fosse una cosa del genere da noi, che so, a Fossoli, o a Dachau. Stona, vero?







Sul ponte, l'unico in acciaio dei 688 costruiti, lungo 300m, si può camminare, prestando attenzione a che non passi il treno (in caso, ci sono delle piattaforme laterali); è stato parzialmente ricostruito dopo aver svolto la funzione di via di fuga per i giapponesi (altro che invadere il Myanmar) ed esser stato bombardato a più riprese dagli Alleati nel 1945. Sempre un po' carnevalesche risultano le gite in paddle e in battello con tanto di musica tamarra sparata a palla. Interessante, invece, il tempio cinese con colonna e dragone.














Dopo una passeggiata fino all'altra sponda, ce ne torniamo sui nostri passi, e poi, con una corsa in mototaxi, alla guesthouse. Ceniamo in riva al fiume, godendoci frutta e verdura fresche di questa terra ricca e bassa. Ora sto scrivendo, come dicevo all'inizio, e a breve studierò le tracce di domani e dopo. Passeremo da Ratchaburi e soprattutto Phetchaburi, che merita una visita approfondita. Sono due tappe ridotte, per un totale di circa 135km. Poi, finalmente, raggiungeremo la costa.




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