lunedì 1 agosto 2022

22-23. Altiplano: la pura meraviglia distillata dal ghiaccio e plasmata dal vento. La terra è bassa anche in altura.











Sabato, 30/7
Imata - Santa Lucia (quota 4100)
74km

La notte va così così. Abbiamo tirato al limite i nostri corpi, convalescenti, infreddoliti, esposti all'altura e alla fatica immensa, con poco cibo e liquidi appena sufficienti. La sensazione è quella della febbre, con brividi e spossatezza totale, senza contare la nausea e il fiato che proprio non vuole saperne di tornare. Mal di testa e vertigini. Alle 2.30 decido di prendere una Tachipirina e todo pasa, per fortuna. Al mattino va decisamente meglio, per quanto sia necessario qui specificare una cosa delle strutture andine. Nemmeno a queste quote hanno degli stramaledetti impianti di riscaldamento. Stanotte la temperatura è scesa a -6°C, fuori. Dentro alla camera il fiato faceva condensa, ci saranno stati 7-8 gradi al massimo. Certo, il letto è un cumulo immenso di coperte, minimo 4 di lana spessa di alpaca, peso totale 50kg, che ti schiaccia e ti impedisce il già difficile respiro... Ma appena il naso sorte fuori dalle coltri si è già gelato e staccato. Vedrai che abbiamo raffreddore e tosse. Inoltre il non potersi fare una doccia per mancanza di acqua aggrava la situazione: siamo incrostati, appiccicosi, sporchi. E manco c'è la carta igienica! Male male, signora dell'hospedaje. Male male.

Facciamo colazione con tè e un dolcetto anziano e ben indurito nei mesi, sotto lo sguardo incuriosito dei numerosi astanti, tutti intenti a disossare polli e sorbire minestroni. Poi lasciamo che il sole scaldi un pochino l'aria, per quanto qui resterà comunque fresca tutto il giorno, e ci mettiamo in sella nella ridente Imata.




Il paesino, un insieme indistinto di ruderi e casette, si sviluppa intorno alla strada, prima e dopo il ponte sul fiume omonimo. Nella piazza centrale signore in abiti tradizionali aspettano un passaggio, mentre le mamme portano i bimbi per mano o infagottati sulla schiena.




Dopo aver fatto scorta d'acqua ci tuffiamo nei lunghi drittoni dell'altiplano, che sono belli da pedalare e si lasciano domare facilmente, sono mansueti e non rubano fiato. Oggi ce ne è davvero poco e ogni goccia va preservata. L'oro della pampa riluce al sole del mattino e si sposa perfettamente al profondissimo celeste del cielo, che è alto, qui, alto e senza una nube mai. Un azzurro assoluto.





Questa è zona di pastori. Ci imbattiamo in numerose greggi di alpaca e lama, vegliate da uomini dal profilo di idoletto incaico, coni visi cotti al sole e intagliati dal vento; quando li salutiamo, rispondono biascicando: masticano coca a boli grossi come il pugno.









La pampa arida è qui resa meno invivibile da fiumi e torrenti che ricamano una rete fitta di azzurri e verdi; dove c'è acqua, ci sono greggi, e qua e là recinti di pietra, bassi, circolari. Potrebbero essere scambianti per antiche rovine precolombiane. Una curiosità: questi mansueti camelidi, al pari delle renne finlandesi, temono più il nostro passaggio in bici che non quello rumoroso delle auto o dei camion. Ai secondi sono abituati, alle prime no.

I primi 20km volano sotto alle ruote, per quanto si sia sempre in leggera salita. Infatti Komoot, l'app che uso per registrare le tracce, mi segnala che abbiamo toccato i 4500m di quota. 




Procediamo con il respiro sempre più corto. Oggi, rispetto a ieri, mi sento molto più in forze, ma l'ossigeno manca. Si informicolano le zone più strane del corpo: il mento, anulari e mignoli, la lingua, le spalle, le labbra. Sperimento anche una sensazione nuova: una sorta di temporanea cecità intermittente, che va a ritmo dei battiti cardiaci. Nero. Vedo. Nero. Vedo. Tu-tum. Tu-tum. Tutto perchè, sentendomi appunto in forma, ho tirato un po' su una salita, forzando sui pedali. Meglio di no, magari.





Altra sensazione fastidiosa è quella del naso continuamente infiammato, che cola, e le tonsille e la faringe infiammate nel tentativo vano di cavare un po' d'ossigeno da quell'aria leggera e secca. Per fortuna la grandiosa meraviglia dei passaggi intorno di distrae dalle nostre umili piccolezze d'esseri di pianura, e ogni tanto, nell'oro e nel blu, incrociamo curiosi animali. Questi, che in foto non si vedono bene, sono uccelli grossi come cicogne, ma dall'aria di rapaci cattivelli. 



Si susseguono distese aride e zone benedette da un torrente, dove subito spuntano due case e un recinto, qualche alpaca, un pastore che mastica foglie. Anche le vigogne selvatiche si abbeverano a questi corsi d'acqua, e pure oggi abbiamo l'onore di incrociarne molte, eleganti, delicate, piene di grazia.




Sulla scorta del trend "foto acrobatiche in altura", inaugurato ieri, non ci facciamo mancare uno scatto al cartello che indica il punto più alto di questo tratto di strada: 4528m. Mica noccioline! Pensate che per appoggiare la bici, dare il telefono a Gigi, mettermi in posa e poi riprendere possesso di me ci vogliono dieci minuti pieni, perchè i movimenti sono a rallentatore, e anche quando si parla pare che sia un dialogo tra persone con gravi problemi, un po' a gesti, un po' a versi, un po' a mezze sillabe storpiate. Però siamo troppo felici. Il cuore così in alto non è mai stati, mai.



Questi sono luoghi magici di forza primordiale, e non sono per tutti. Non così. Bisogna avere lo spirito di arrivarci, per poter bere di questa energia che fa tremare la terra e cantare la roccia viva.






Le vette, intorno, che paiono colline, superano tutte i 6000m. Le guardiamo negli occhi, siamo quasi alla stessa altezza. E' questione di prospettive, in fondo.








Superiamo diverse altre greggi, fino a raggiungere la laguna Sacacane, presso cui pascolano placide mucche dalle lunghe corna. Mentre siamo fermi a rifiatare, ci accosta un'auto, addobbata con cappellino (sul tettuccio) e festoni vari per la festa dell'indipendenza; il conducente ci tempesta di domane, mentre tutti gli altri passeggeri si accalcano ai finestrini per ascoltare: da dove veniamo, dove andiamo, un fiorino, quanti copertoni abbiamo consumato, quanto stiamo... Insomma, grande curiosità. E' capitato anche nei giorni scorsi e alcuni hanno persino voluto una foto con noi, anzi, con Gigi: la sua altezza è tutt'altro che comune, qui, come la barba bianca e la capoccia pelata. I bambini lo guardano e ridono o si intimoriscono, e così alcune ragazze. Gli uomini vogliono la foto. Ha senso.





Dopo un'estenuante rampa in salita raggiungiamo finalmente la tanto attesa Laguna Lagunillas, lago altoandino di 66km quadrati di estensione con 4 isole al suo interno. Un occhio azzurro puro spalancato sul più puro degli azzurri, un'insondabile purezza che specchia l'altra in un gioco continuo di risate di luce.


Facciamo sosta al mirador, quota 4444m, neanche a farlo apposta. Ci sono diverse bancarelle di prodotti locali in lana di alpaca, un chiosco e i bagni. Parentesi: i bagni costano un sol (0.25 euro). Solitamente a questo prezzo ti vengono forniti accesso e qualche strappo di carta igienica, e quando non c'è l'acqua corrente, una brocca piena d'acqua da rovesciare nella tazza. In questo caso l'operazione di sciacquone manuale viene compita dalla signora addetta, e per fortuna ho solo fatto pipì! Per lavarsi le mani c'è un secchio d'acqua, accanto a cui giace una saponetta ormai pietrificata. Nel secchio noto che nuota allegro un gamberetto.



C'è anche un monumento mozzafiato. Cioè un monumento al fiato corto. Perchè qui parlare, respirare, ridere... E' tutto un breve e stentato HeH! (Invero è l'ecuadoregna Hidalgo&Hidalgo, impresa di costruzioni e amministrazione)



Con una discesa che definire stupenda, meravigliosa, assolutamente fantastica è dir poco, ci tuffiamo giù di quasi 300m, fino alle sponde del lago. E' il trionfo del blu e dell'azzurro in ogni sua tonalità, che si fondono nella velocità e nella luce che filtra rapida ai margini del campo visivo.






E poi, una volta giù... Oh strano! Fenicotteri! Rosa, adunchi, inequivocabilmente fenicotteri. E chi mai lo avrebbe detto, qui! Queste montagne riservano sorprese a non finire.



Purtroppo, come siamo scesi, tocca risalire. Ci lasciamo alle spalle questo occhio aperto sull'infinito per affrontare gli ultimi strappi di oggi.






Ma poi, nemmeno ci credo a ricordarlo, scollinata l'ultima altura si para davanti a noi la poesia di una discesa di 20km quasi ininterrotti. Ci lanciamo a cannone giù giù tra valli prima strette poi via via più ampie, sempre rilucenti d'oro fino e lapislazzulo.









L'aria è fredda e la sensazione di febbre è tornata, ma non importa, questo momento non può essere interrotto per alcun motivo, è troppo prezioso, troppo assoluto, è l'istante eterno, il grano d'oro tra i mille di sabbia della clessidra.


In un volo siamo così a Santa Lucia, a 4100m, nostra meta di oggi. E' un paesotto noto per le acque termali, le conformazioni rocciose dalla forma bizzarra e le trote (trucha truce). Infatti una trota campeggia sul monumento centrale, sopra al toponimo.


Scartiamo gli hospedaje e ci lasciamo attirare un hotel. La prima domanda è se abbiano una camera, la seconda se abbiano l'acqua, magari pure calda. Sì e sì. Veniamo forniti persino di: un asciugamano (da spiaggia con disegnata una donnina mezza nuda e un cavallo e mi fermo qui), una saponetta e un rotolo di carta igienica. IL LUSSO!
Finalmente riusciamo a farci una doccia che ci rimette al mondo. E anche la cena, nella locanda gestita dal figlio dell'albergatrice fa il suo. La "cena" è un menu fisso che comprende: minestra di riso, verdure, patate e un pezzo di carne indefinita, molto calda, brodosa, eccellente. Poi un secondo, che è il solito pollo con riso bianco e patate. Acqua. Mais salato come stuzzichino. Mate (infuso) a scelta. Il tutto per 2 euro a testa.


l'arsenale di bibite amate dai peruani


Sto ancora ridendo per il dettaglio della camomilla. Gigi la prende in loco, io, che sono piena e vorrei gustarmela con calma in camera, chiedo se sia possibile ordinarla da portar via. Il ragazzo mi dice di sì, claro. E poco dopo si presenta con una busta di plastica 


che contiene un'altra busta di plastica, in cui giace il mio mate de manzanilla, con la bustina che nuota dentro come un pesciolino rosso vinto in fiera. Un po' perchè mi immagino a sorbire il mate ciucciando come da una tettarella, un po' perchè sembra la famosa "busta di piscio", rido molto approfittando del fiato che è un po' tornato.


Abbiamo studiato le tappe dei prossimi giorni: dopodomani saremo a Puno, dove sosteremo un giorno per visitare alcune isole sul lago Titicaca, il luogo dove, secondo gli Inca, era nato il sole. Domani, se tutto va bene, saremo ospiti in una comunità rurale ad Atuncolla, paesino sperduto tra i campi e la pampa, raggiungibile solo tramite sentieri. Vicino si trova il sito archeologico di Sillustani, con le famose Chullpas. Quindi, alla Pachamama piacendo, domani avremo modo di godere della storia e dell'ospitalità dei campesinos andini. Sarà fantastico!

Domenica, 31/7
Santa Lucia - Juliaca (3820m)
64km

Viaggiare significa anche saper cambiare. Adattarsi. Prender la forma dei luoghi che si attraversano, che ci attraversano. Viaggiare significa anche essere disposti a scegliere, cioè rinunciare, e cogliere ciò che invece la strada ha da offrire. Vivere il momento, non lasciarsi sfuggire il kairòs. Gli antichi sapevano.
Nella fattispecie, noi abbiamo dovuto rinunciare alla giornata di pedalata rurale, al pernotto presso la comunità agricola di Atuncolla e alla visita alle chullpas di Sillustani (cioè le tombe monumentali in cui i colla, civiltà guerriera di lingua aymara poi assorbita dagli incas, seppellivano i nobili). Ieri ho tentato in tutti i modi di contattare il centro artesanal, ma non ho ottenuto risposta. Questa mattina ho chiamato e il buon signor Julio, tra un desculpe (pronunciato de'cu'pe) e un altro, mi ha detto che non c'era posto per noi. Un po' ho l'impressione che preferiscano turisti "già pagati" spediti dalle agenzie, un po' ho avuto ancora una volta l'impressione che lo spirito di imprenditorialità, diciamo così, qui sia un po' carente. C'è un senso di fatalismo, nonchè di leggera voglia di non far altro rispetto a ciò che si è sempre fatto... Da un lato bene per la "decrescita positiva" (ci fosse mai stata una crescita), dall'altro possibile che questa gente preferisca spaccarsi la schiena a coltivare terra secca, piuttosto che spennare qualche turista? Mah.
In ogni caso, questo impone anche un cambio di rotta: tra qui e Puno, per la via meridionale, ci sono 90km senza nulla in mezzo, ma noi siamo troppo malaticci per dormire in tenda con queste temperature. E allora si passi a nord, per Juliaca. E qualcosa di bello troveremo anche lì! (spoiler: sì, ma bisogna arrivare in fondo al racconto per scoprirlo).

Tutte queste considerazioni, e il relativo fare, brigare e disfare, avvengono in camera, nel gelo più totale. Finchè si resta sotto alle coperte (4 doppie, pesano più di me) no hay problema. Ma il fiato fa fumo bianco e sui vetri la condensa è ghiacciata.


Per fortuna il sacro Inti dio del sole fa il suo dovere e scioglie la brina e riporta alla vita. Presto fa molto più "caldo" fuori che dentro alla stanza.


Per fare colazione usciamo e la truce trucha ci saluta con il suo colpo di coda; le pozzanghere sono ancora una lastra di ghiaccio. Santa Lucia si sveglia pian piano, stiracchiandosi nella tiepida luce del primo mattino.




La "caffetteria" (sic recita l'insegna) che avevo individuato già ieri si rivela un caotico magazzino di cibo e immondizia, cose e bambini e cani tutto mescolato. Chiediamo un mate e due dolci stile "luisona" con manjar blanco, pensando di poter consumare in loco (vista la busta di ieri, voglio evitare altre stranizie). Invece la signora, tutta presa tra uova e figlioletti da badare, acchiappa due bottiglie di plastica vuote da quella che credevo fosse la monnezza, ci butta dentro una bustina, un po' di zuccherr, acqua bollente e ce le caccia in mano, insieme alle suddette luisone. 





Colazione, telefonata a Julio di Atuncolla e via, ora l'aria è mite e si lascia respirare. Per il quanto il mio malo gripe, un raffreddore oceanico e inarrestabile, non mi lasci tregua. Mi insegue da Arequipa e da qualche giorno mi ha raggiunta, costringendomi a litri e litri di moccio da gestire. Una roba bruta.
La tappa inizia in discesa, e così resterà per quasi tutto il suo corso, sull'altiplano del Collao che qui digrada un po' al basso, verso il Titicaca, cosa che non ci dispiace affatto.
Le colline intorno risplendono nel sole e sono plasmate nell'oro e vive dei rifrulli d'ali degli uccellin.






La pampa è punteggiata qui e là di fattorie, casupole, recinti e abitazioni. Qui scorrono torrenti che permettono di coltivare e allevare, e sono ricomparse le mucche e le pecore, più numerose, in quest'area di lama e alpaca.







A tratti, dai ricami d'oro, emerge la nuda pietra, la roccia a strati che è l'ossatura di questo mondo. Si riconoscono diversi tipi di minerali, e alcune masse paiono proprio di origine vulcanica, nere di magma solidificato, quando la terra era un crogiolo attivo di esplosioni e fuoco.






Raggiungiamo il pueblo contadino di Aychuyo, stretto tra i monti, il fiume, la strada e la ferrovia. Vacche e contadini in abiti tradizioali sono già nei campi da ore.








Le abitazioni, sparse e rare, sono per lo più in mattoni di fango e paglia. I bagni sono "in cortile" e di quartiere, un gabbiotto ogni tre o quattro case. Ci sono nonne con i nipotini per mano, mentre uomini e donne sono al lavoro, chini verso la terra bassa. Passiamo anche davanti ad un asilo, ora chiuso. Ci sono bottiglie di plastica vuote dipinte a tempera e usate per costruire piccoli recinti colorati.






Tra mucche, pecore, capre e qualche campo coltivato, oltre alla semplicità della vita qui (evidentemente dovuta a mancanza di mezzi) mi stupisce il grande ritorno degli alberi. Alberi veri, con tronco e rami e chioma. Non se ne vedevano da tempo!




Proseguiamo agili fino a Cabanillas, paesotto rurale dove la gente ci guarda incuriosita e qualche bambino ci saluta. Penso di poter affermare con certezza che qui si trova la chiesa più brutta che io abbia mai visto.






Dopo aver attraversato il centro, seguiamo la strada che è una linea retta attraverso l'altiplano. Anche qui fattorie e terra bassa, mattoni di fango e fatica da bestie.







Juliaca ci compare davanti all'improvviso, senza annunciarsi in anticipo in alcun modo. E dire che supera i 200.000 abitanti ed è la città più grande di tutta quest'area andina, oltrechè centro economico e di commerci di primaria importanza nel paese. La vicinanza alla Bolivia e la presenza di un aeroporto la rende anche zona di traffici poco limpidi. Prima di entrare so tre cose di Juliaca: ancora oggi vi si festeggia un "Carnevale" (cristianizzato) in onore della Pachamama; è chiamata città dei venti (e infatti oggi ci sono avversi); può essere pericolosa per i gringos per la diffusa microcriminalità.




Il primo impatto non è positivo. Non è una città caotica e trafficata. Però è decadente, in rovina, ammalorata in ogni sua parte. Ci sono mucchi di macerie, immondizia, ruderi di case mai finite, cani randagi e umanità mistomàr.




Poi, però, avvicinandoci al centro, qualcosa cambia. Resta una città roncia e impestata, per certi versi inaffrontabile per il turista medio. Ma racchiude tutto il caos vitale di queste alture assurde dove da millenni l'uomo sopravvive in qualche modo. Qui ci sono tracce di insediamenti umani fin dal 4000 a.C., quando si allevavano lama e cuy (porcellini d'India). Poi arrivarono gli Uros, attratti dalla pesca e dalla navigazioe sui fiumi e sul vicino lago, ma anche capaci di coltivare patate, quinoa e altri frutti della terra. Nei due secoli prima e dopo Cristo venne la cultura Pucarà, e poi kolla, acerrimi nemici degli inca, sconfitti nonostante la strenua resistenza. 



monumento al mototaxista


Quando gli spagnoli arrivarono fondarono la città vera e propria su insediamenti già esistenti. Portarono gli stemmi della corona e la croce. Alfabetizzarono gli indigeni, anteponendo al loro nome quello di un santo, per battezzarli. Convinsero i guerrieri andini a danzare non più per i loro numi pagani ma per Santa Catalina, in onore della quale fu eretta la chiesa.
Ma non mancarono gli atti di ribellione, compresa una partecipazione massicia a quella "grande" di Tupac Amaru II.



Quando il Perù divenne indipendente, Juliaca era a vocazione rurale. Ma nel 1873 arrivò qui la ferrovia, che portò il temibile progresso. Juliaca è nota anche per il grande sciopero del 4 novembre 1965: contadini e operai del settore tessile, qui sviluppatissimo, incrociarono le braccia chiedendo acqua potabile, ospedale, mercato, macello, strade, dignità. Il governo rispose reprimendo le proteste con l'esercito. Non mancarono i morti. Nel '52 passa Che Guevara in viaggio verso Cuzco e nel 1968 venne fondato qui il Fronte nazionale dei lavoratori e dei contadini.



E Juliaca era già stata culla di ribelli e paladini. Nacqua qui tra 1933 e 1937 il cosiddetto rijcharismo, movimento nazionalista volto a estirpare malattie endemiche come il vaiolo, l'analfabetismo e la servitù degli indigeni, nonchè il gamonalismo (sistema di potere peruano-andino del XIX secolo, resistito fino alla riforma agraria degli ani '70, che vide alcuni proprietari terrieri non di discendenza europea usare violenza e mezzi illegali per espropriare terre e beni agli indigeni). Il leader di questo movimento, un medico, f anche premiato dai sovietici ad Almaty, tu pensa, per aver vaccinato i contadini e i pastori.









Ora che sappiamo tanto della storia di questa città, è più facile interpretarne il volto. Anzitutto, raccoglie tutti i produttori di frutta, verdura, carne, formaggi e lana dal bacino andino meridionale. Pastori, contadini e artigiani vengono qui a vendere. Qualcuno ha un negozio vero e proprio, qualcuno un carretto, qualcuno una stuoia da stendere a terra. Poi, la città è l'unico centro urbano degno di tale nome che offre servizi agli abitanti dell'altiplano. Quindi è tutto un affollarsi di negozi e negozietti, officine, sartorie, parrucchieri, ristoranti, alberghi.




Nella nostra passeggiata non manchiamo di visitare Plaza de Armas e la chiesa di Santa Catalina, esempio di barocco indigenista. Iniziata dai gesuiti nel 1649, è stata terminata solo 125 anni dopo. Il campanile è in marmo di Arequipa. All'interno si affollano fedeli urbani e campesini, in abiti tradizionali, con bambini infagottati sulla schiena, a portar devozione ai santi e alla Vergine.





Tutt'intorno è un carnevale folclorico. C'è di tutto. Gente dalle alture e gente dal lago, gente di passaggio e gente che resta. Gente che vende, gente che comra. Gente disperata che chiede un sol e gente in giacca e cravatta che va al lavoro.










L'area del mercato è sempre la più interessante. Le macellerie vendono tranci immensi di carne, e qualcuno la espone direttamente a terra.











Facciamo scorta di frutta e verdura e mi colpisce una signora anziana che ci vende delle mele dalla sua bodeguita: è in abiti tradizionali, con il suo berrettino e il grembiulone. Non penso si sia mai fatta una doccia: le braccia e le mani sono coperte da uno strato molto, molto spesso di lordura, terra, incrostazioni. Ha i denti (pochi) completamente neri. Ci parla a gesti. Il bolo di foglie di coca che mastica è così grosso che le impedisce di parlare.





Insomma, Juliaca, snobbata dai turisti e persino dalla guida della Lonely Planet, che consiglia di scappare al più presto e la definisce pericolosa, rivela la sua anima disperatamente colorata della gente dell'altiplano. Miseria, musica, profumi, voci e sguardi di queste strade non si dimenticano facilmente. Asì es el Perù profundo.
Non manco di chiedere un aiutino alla Pachamama e all'Inkafarma: il mio raffreddore apocalittico sta solo peggiorando. La farmacista mi rifila antistaminici e paracetamolo, e via.


A cena approfittiamo di un chifa gettonatissimo dai locals e in effetti è sai buono. riesco finalmente a mangiare riso e verdure, tante verdure, senza pollo. Un raro lusso! L'hotel in cui siamo, oltretutto, è di gran lusso rispetto agli ultimi incrociati e offre persino mate di ogni tipo self-service. Inutile dire che ci sfondiamo di infusi: anis, hierba luisa (verbena), manzanilla, cannella y clavo, coca.
Questa giornata leggera in bici e appagante dal punto di vista della scoperta del nuovo e dell'altro da sè si rivela, alla fine, il migliore dei ripieghi rispetto al piano originale. Ora siamo riposati e carichi per ciò che ci aspetta domani: Puno, il lago Titicaca e le sue isole!

3 commenti:

  1. Ma come fai dimmelo tu
    Vecchietto e buffo a piacere di più
    Tutti i peruan ti voglion con se....
    Ggi però fermati un po'
    Alle ragazze di un po no.
    GIGI LA TROTTOLA

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  2. Ma come fai dimmelo tu
    con la tua bici a salire lassù..

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  3. ...la tua città
    Ti chiama già
    Gigi il Perù one

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