venerdì 5 agosto 2022

26-27. Si torna in altura. Gli Apu, spiriti delle vette, ci sorridono d'azzurro










Mercoledì, 3/8
Puno-Juliaca-Ayaviri (3900m)
43km transfer + 96km pedalati

Grande ritorno in sella per il dream team andino! Oggi abbiamo macinato kilometri in scioltezza, nonostante vento avverso, salitelle e quota. Il riposo di ieri ci ha rinvigoriti, siamo quasi guariti dal malo gripe e, soprattutto, ci siamo acclimatati all'altura e siamo tornati a funzionare a pieno regime, per quanto il fiato sia sempre un pelino corto. Ma tant'è, si pensava di fare solo 63km e invece ne abbiam pedalati quasi 100. Cifre che non si vedevano da tempo!

Già tre giorni fa, quando, per questioni logistiche, siamo stati costretti a rivedere le tappe e passare da Juliaca e non da Atuncolla per entrare in Puno, avevamo deciso di non pedalare due volte lo stesso tratto di strada, per altro piatta e dritta e poco panoramica ma molto trafficata, avanti e indietro. Quindi da Juliaca a Puno sì, ma da Puno a Juliaca abbiamo optato per un passaggio. L'organizzazione è stata fortunuosa, perchè, se è vero che qui passano i mezzi più bizzarri carichi nelle maniere più impensabili, quando si tratta di trasportare due biciclette non imballate... Apriti cielo. Sui pullman è vietato. Sui combis, i minibus, pure. I taxi si ostinano a voler caricare le bici sulla parrilla, una grata sul tetto, per poi capire che non è cosa. Il treno è un lusso che costa diverse centinaia di dollari a tratta. Insomma, difficile. Alla fine mi accordo con un brav'uomo che offre il servizio di transfer per l'aeroporto di Juliaca via whatsapp. Incredibilmente, ci capiamo alla perfezione e alle 9 in punto si presenta con un'auto scassata ma ampia davanti all'ostello. Carichiamo alla brutta bici e borse e me, tra gli oggetti, e via, in un attimo siamo di nuovo a Juliaca, in plaza de armas, dove più volte siamo passati due e tre giorni or sono. Il traffico, visto dall'auto, fa ancora più paura.
Una volta scaricati e pagato il compenso pattuito (30$), rimontiamo le borse sulle bici, davanti allo sguardo divertito di mendicanti, ambulanti e poliziotti. E via, si parte ad affrontare il casino della capitale dell'integrazione andina.
In realtà siamo ormai abituati e tutto pare più facile. Uscendo a nord, attraversiamo una sconfinata periferia di mercati sempre più sudici e miserandi, fino a imboccare nientepopodimenoche una ciclabile vera e propria. Certo, è occupata da banchetti e venditori, e percorsa da moto e mototaxi, ma è comunque un segno.



I sobborghi settentrionali di Juliaca sono incredibilmente poveri. E' un susseguirsi di case in rovina ma abitate, catapecchie, baracche, cessi di quartiere tra quattro lamiere, a bordo dei binari, cani randagi moribondi e persone ridotte poco meglio. Davvero meglio vivere di nulla sulle isole di totora, purchè sia un nulla di colori sgargianti e dignità, piuttosto che così.





Poi il fiume Qoriwata, con il suo Puente Maravillas. Nelle acque un po' azzurrissime un po' inquinatissime, a seconda della corrente, c'è una folla intenta a... Lavare coperte, credo.



Così la città finisce e ricomincia l'altiplano rurale, con il suo oro di paglia ed erbe secche, il suo blu insondabile, i suoi pueblos campesinos che son di fango, ma non sporchi nè caotici. Lungo i binari e nei campi si vedono donne in abiti tradizionali e ragazzini intenti a sorvegliare il bestiame, che qui è un mix di pecore, mucche, alpaca e lama.






A un tratto la strada si discosta dalla ferrovia e si rituffa all'interno, verso il cuore dei monti. E' dove andiamo noi. Stiamo muovendo verso Cuzco e non solo torneremo abbondantemente sopra i 4000m, ma supereremo anche i 5000. Ma di questo parleremo a tempo debito.



Attraversiamo Calapuja, dove ruderi, fango e polvere si alternano a edifici piuttosto moderni e ben tenuti, in primis la scuola. Le scuole qui sono importanti e godono del rispetto che meriterebbero ovunque. Sono sempre pulite, almeno per ciò che si intuisce da fuori, e più che dignitose negli ambienti. Ogni paese che qui ha una scuola scrive, sulla cima del monte soprastante, il numero di identificazione dell'istituto, affinchè lo Spirito della montagna (Apu) protegga studenti e insegnanti.





Lasciamo il pueblo alle spalle e risaliamo la valle, dove l'abitato si riduce a poche cascine sparse tra colline e radure. Da queste parti vivono palesemente più animali che esseri umani e di entrambe le categorie l'esistenza è dura e asciutta come la terra che le ospita.








La valle si stringe un poco e pare quasi di essere altrove. Mi sovvengono i Balcani, la Spagna, certi tratti di Asia centrale. A volte devo fare uno sforzo di attenzione e volontà per registrarmi di nuovo nel luogo esatto, come il puntino del GPS sulla mappa. Perù. Ande. Siamo a 3900m, non sulla costa di un paese mediterraneo.






Il cielo ci regala una novità, oggi: nuvole. Nuvole bianche e in corsa, nuvole vere che si spettinano al vento. Non portano pioggia: siamo nella stagione secca. Ma interrompono un poco e lasciano respirare l'azzurro infinito del cielo che qui sembra non riposare mai.




Mi colpiscono anche i cartelli minatori e di violenza inaudita che, con grafia vacillante da semialfabetizzati, intimano di non gettare immondizia: orden de masacre, orden de disparo nel caso in cui accada. Le stesse dolci parole si trovano a caratteri cubitali all'ingresso delle mini-comunità campesine.A parole vietano l'ingresso ai malfattori. A tuo rischio, se lo sei e ti avvicini... MASACRE!



In questa valle si incontrano molti più cani (invero mansueti, forse troppo affamati e deboli per inseguirci) che persone. Anche il traffico di auto e camion è quasi assente, cosa che mi stupisce: siamo comunque sulla strada principale che collega Puno, Juliaca e Cuzco. Meglio così, comunque.


Ogni pueblo ha il suo cimitero, e a volte c'è il cimitero ma non più il pueblo. Si vede che da sopra son finiti tutti sotto e l'ultimo si è seppellito da solo.





Pedaliamo agilmente e, nonostante la partenza ritardata a causa del transfer, ci lasciamo alle spalle i primi 50km in tre ore scarse. Bisogna dire la strada è praticamente in piano, con l'eccezione di qualche dosso che si affronta addirittura alzandosi sui pedali (per poi sfiatare come cetacei riemersi dalla fossa delle Marianne, perchè comunque l'ossigeno è quello che è).



Nel primissimo pomeriggio siamo a Pucarà, quella che inizialmente doveva essere la meta finale di oggi. Ci accolgono lama, alpaca, e un tacchino estremamente aggressivo e canoro che, se potesse ammazzarci a beccate, lo farebbe. E ovviamente i toritos di ceramica o argilla. Sono tori di varia dimensione e decorazione usati come portafortuna: si trovano sui tetti o alle porte della case della zona.








In quechua e aymara Pukara significa fortezza e proprio qui si è sviluppato il primo centro urbani della regione, a partire dal 1800 a.C.. Intorno al 200 a.C. la cultura Pukarà dominava l'intera zona del Titicaca e aveva qui la sua sede religiosa e cerimoniale. Ne sono testimonianza le costruzioni piramidali in pietra del vicino sito Kalasaya, che noi vediamo sul fianco dei monti che cingono il villaggio.

Decidiamo di fare una piccola pausa e di proseguire. E' presto e non siamo stanchi, quindi i 32km che ci separano dalla città successiva, Ayaviri, non ci spaventano.
Facciamo sosta all'ultima bodeguita del paese, dove ci accoglie una anziana che ci vede poco, ma la sa lunghissima. Anzi, prima si fa sulla porta il suo canetto molesto e impigiamato.


Lei, dentro, sta mangiando di gusto una zuppa, al tavolo del suo baretto. Appena ci sente entrare si rivolge a entrambi con l'appellativo di papacito. Finisce la minestra, si alza e ci chiede cosa vogliamo. Prendiamo due cose casuali da bere, anche perchè la scelta è quella che è, e lei ci spara un prezzo da gringos ma accettabile (non come i negozietti di Puno, ieri, dove volevano fregarci in ogni modo credendo fossimo appena sbarcati in Perù e non avessimo idea dei prezzi medi delle cose... Due volte abbiamo mollato tutta la merce in cassa, dicendo di non pigliarci per i fondelli).



Nè Gigi nè io abbiamo moneta, quindi le rifilo una banconota da 50 soles, che sarebbero qualcosa come 12 euro, ma è un taglio abbastanza grosso per i local. Lei, sconvolta, se la rigira mille volte tra le mani e continua a chiederci se sia buona, se sia vera. Ellamadonna. Poi sparisce in cerca del resto.



Torna et voilà, un pacco di banconotine d'epoca pucarà arrotolate strette strette e qualche monetina. Il tutto contato e ricontato portando i pezzi a due millimetri dall'occhio buono (diciamo, migliore).


Infine, ecco l'espressione della soddisfazione di avercela pigiata nel baugigi con un prezzo per noi ridicolo ma per lei gonfiatissimo.


Ci sediamo su una panca nel locale per rilassarci e studiare il percorso... e lei ci tiene d'occhio (gioco di parole di cattivo gusto, scusate) tutto il tempo, temendo che allunghiamo le mani sulla sua merce. Quando usciamo per ripartire, con nonchalanche ci segue e viene a vedere con quali mezzi ci stiamo muovendo, e verso dove.



Si riparte. Purtroppo gli ultimi 30km sono resi piuttosto ardui da un vento contrario e prepotente che si è alzato tutto a un tratto e monta in violenza nel giro di minuti. Ci trattiene, ci spinge indietro. Ci toglie il fiato. Dobbiamo alternarci ogni kilometro o poco più a tirare la carovana, in modo da sfruttare la scia e riposarci a vicenda. Intorno, però, la valle assume un profilo meraviglioso di alture sempre più strette, quasi affollate intorno alla strada.






Superiamo ancora qualche pueblo campesino, con i suoi mucchietti di fieno piramidali come gli altari pucara, e incrociamo diversi desperados che raccolgono bottiglie di plastica dall'immondizia a bordo strada.







L'aria inizia a raffreddarsi e le ombre si allungano. Non abbiamo molto tempo prima che il sole sparisca dietro l'orizzonte e la temperatura precipiti. Teniamo duro, mentre Eolo continua a prenderci a schiaffi e la luce diventa miele ramato.





Mentre pedalo, siccome il traffico è quasi assente, faccio un check delle strutture di Ayaviri, città in cui stiamo entrando e dove faremo tappa. Leggo i commenti, scarto quelle senza acqua. Trovo un alloggio soddisfacente, imposto il navigatore, tutto sempre sfidando il vento, senza fermarsi, ed eccoci in paese.



Questa città, abitata da una popolazione simile ai Canas, resistette a lungo prima di capitolare e sottomettersi agli Inca. Poi arrivarono gli spagnoli con Diego de Almagro, ma più volte gli "indigeni" si ribellarono, anche prima e dopo la rivolta di Tupac Amaru II, nel '700 e nell'800.
Oggi è una cittadina quieta di pastori, agricoltori e bottegai.


Prendiamo alloggio all'Hostal la Posada, prezzo calmierato 40 soles (10 euro) per la doppia con bagno privato. Sempre al terzo piano, mai l'ascensore. A gestire la struttura è una signora andina molto orgogliosa e dai modi molto sbrigativi. Mi caccia in mano un asciugamano 20x30cm, una saponetta, un rotolo di carta igienica e la chiave. E via. Ma la camera è grande e la doccia funziona ed è persino calda! Che lusso!
Per cena non ci dedichiamo al cancacho, piatto peruviano nato proprio qui ad Ayaviri e super sponsorizzato in ogni bettola e ristorantino. Si tratta di carne d'agnello cresciuto in quota, che mangia solo arbusti e beve acqua salata della puna.La carne viene lasciata a macerare in un mix di birra nera, peperoncino, aglio e cumino. Il giorno dopo si cuoce in forno di mattoni, a legna, e si serve con patate e peperoncino. E' un piatto millenario, a quanto pare.
Siccome Gigi ha una caviglia dolorante, entriamo nella prima quinta (taverna) che troviamo, accanto all'hostal, di fronte al terminal dei bus. La cena (zuppa + secondo) non è disponibile, c'è solo il secondo. Ok. E cosa c'è di secondo? Pollo fritto. E? E basta, Pollo fritto. Ok, vada per il pollo fritto, che viene servito con riso, patate e insalata. E' eccellente. In più veniamo omaggiati di una tazza di tè caldo, che è la bebida clasica in altura (sulla costa, jarra di limonata o succhi di frutta). Il locale è roncio il giusto e la cena ci costa 5 sole a testa (1,25 euro).




Domani facciamo un'esperienza veramente poco turistica e molto autentica. Dormiremo in una fattoria, che ha anche una piccola azienda di prodotti caseari. Ho contattato telefonicamente la gentile proprietaria di questa sorta di "agriturismo" (tra molte virgolette) e ci siamo accordati. Ci aspettano domani. Sarà super interessante vedere dall'interno la vita dei pastori e degli artigiani che producono latte e formaggi, a quota 4100m, nel cuore delle Ande peruane.

Giovedì, 4/8
Ayaviri - Tambo Queque Norte (4050m)
56km

Oggi tappa breve, intensa, non troppo pesante e spettacolare dal punto di vista dei paesaggi che ci hanno osservato passare. Siamo tornati in altura, e domani scollineremo al passo di 4350m che ci attende nei primi giri di pedale del mattino. Dopo i quasi 100km di ieri e i 100 di domani, abbiamo optato per una giornata leggera, approfittando della presenza di una fattoria con camere per ospiti proprio a metà della salita. Questa mattina, oltretutto, ho sbrigato un praticone logistico che mi ha impegnata per quasi tre ore: ho organizzato TUTTE le tappe da qui alla fine del viaggio. Mi era necessario sapere: 1. se fossimo nei tempi 2. quando raggiungeremo Machu Picchu, uno dei luoghi più significativi di questo viaggio. Dovete sapere che il sito archeologico è estremamente regolamentato e il numero di ingressi giornaliero è ridottissimo, in proporzione alla richiesta. Ciò significa che i biglietti vanno a ruba mesi prima. Vi immaginate che scorno pedalare fin lassù per poi non poter entrare? Sicchè ho dovuto fare bene tutti i conti, considerando dislivelli, strada, cose da vedere nel mezzo (Cuzco, Vinicunca ecc), distribuzione dei paesi e dei servizi... Insomma, un lavorone. Morale: ho acquistato due biglietti per il 17, giorno in cui saremo al Machu Picchu, e sì, siamo nei tempi. Riusciremo anche a pedalare nella regione amazzonica, altro capitolo di questa avventura pazzesca che si sta rivelndo el Perù.

Quindi stamattina siamo usciti tardi, quando fuori faceva già molto più caldo che dentro alla stanza. Niente colazione: nei pueblos il desayuno consiste in riso e carne e minestra, ma poi auguri a pedalare. Ci siamo messi per via, salutando Ayaviri e i suoi baracchini che preparano il Kankacho. Certo, 500m dopo eravamo già fermi a una bodeguita a procacciarci qualcosa di dolce per carburare, mentre i negozi sparsi, nel gran silenzio dell'altiplano, iniziavano a spander musica andina nell'aria limpida.




Uscendo dalla cittadina abbiamo anche visto uno dei rarissimi trenini blu PeruRail, quelli per gringos facoltosi, che costano un occhio della testa e collegano le destinazioni di interesse tristico.



In un soffio siamo di nuovo nel vallone in salita leggera e costante. Il vento è meno rabbioso di ieri, ma ha voglia di alzarsi e durante la mattinata cercherà più volte di ostacolarci. La tavolozza è sempre sgargiante di azzurri e oro, punteggiata dai richiami turchesi dei laghetti, scaglie di cielo, e da cascine e ruderi sparsi, tra cui pascolano vacche magrette e un po' sciupate.



Superiamo il pueblo di Chuquibambilla, dove l'Università andina ha una sede e porta avanti studi sullo sfruttamento di fauna e flora di questi luoghi, con modelli di agricoltura sostenibile e corsi per futuri agronomi e fattori.



 
Poi la valle si apre e le alture restano sullo sfondo a frastagliare l'orizzonte. Compare qualche nuvoletta, la strada si snoda come un fiume placido su cui noi muoviamo senza fretta, a un ritmo tranquillo ma ininterrotto. Così è bene pedalare in quota, per non soffrire della scarsità d'ossigeno.




A tratti emergono tra gli arbusti secchi degli acquitrini salati, che evaporano in un attimo e lasciano uno strato bianco di grani sul terreno. E' questa l'acqua che bevono gli agnelli destinati allo stufato... Si condiscono e speziano già da vivi, porelli.





Lentamente la valle inizia a farsi più angusta, più vicine le pendici dei monti. A tratti pare d'essere in Mongolia, a tratti in un'Islanda imrpovvisamente arida.





Purtroppo oggi sono tornati a funestarci i perri mali, che schizzano fuori dalle cascine e ci inseguono per lungo tratto. Uno raggiunge Gigi e morde di violenza, e più volte, una delle sue borse. Per fortuna nessuno si fa del male ma... Aiuto!




In breve raggiungiamo Santa Rosa, cittadina piuttosto estesa ma veramente malconcia. L'unica struttura che pare funzionare è la scuola, dove i ragazzi stanno giocando a palla in cortile.



Per il resto è un agglomerato di baracche e case fatiscenti, ruderi, capanne di fango e paglia e molta polvere sollevata dal vento.



C'è persino una palestra coperta, ma pare chiusa e disuso da secoli.



A bordo strada si incrociano anziane signori in abiti tradizionali che ci offrono i loro prodotti: pane, formaggio, uova. Quando passiamo si allungano verso la strada sventolando sacchettini e forme di queso, e richiamando, ma quasi con vergogna, la nostra attenzione. Mi si stringe il cuore. Quello è cibo buono, artigianale, prodotto con maestria dalle loro mani sapienti. E fa quella fine. Svenduto a bordo strada, proposto come fosse robaccia. Questo fa rabbia, sì.

Dura poco questo bagno di umanità dolente. In un attimo siamo di nuovo fuori, Santa Rosa alle spalle. Il fondo stradale diventa dissestato e sconnesso, cosa che urta e non poco i nostri già callosi culetti. Il cielo esplode di nuvole, è uno spettacolo pirotecnico di luci e ombre.




Compaiono accanto a noi alcune vette innevate. Su tutte spicca l'imponente Cunurana, con i suoi 5420m. Ci scruta dall'alto in basso, nero e silenzioso. Noi passiamo rispettosi, senza animo di sfida. Sarebbe follia, hybris.










Raggiungiamo un'infilata di casine e catapecchie, tutti luoghi semi abbandonati ma non del tutto. C'è chi vive ancora in questi ruderi. Ogni tanto si intravede qualcuno. Ci sono panni stesi nei cortili. Tre bimbi giocano a nascondino tra macerie e mucchi di copertoni.










C'è persino un cimitero, forse più popolato dei pueblos. Intanto il cielo si è coperto e tira un vento freddo. Meglio affrettarsi, non ci teniamo a incappare in un temporale in quota.



Arriviamo alla deviazione che, con un sentiero sterrato, porta dalla strada principale al "fundo" dove ci attendono. Veniamo accolti da due lama pasciuti che ci controllano, di sottecchi, anche se fanno finta di no. Gigi si è conquistato l'amore eterno di un canetto randagio, dandogli un biscotto; il perro hermoso ci scorta fino alla fattoria.







Il Tambo Queque norte, in realtà, è ben più che una cascina. E' una proprietà che consiste di: villa dei padroni, con sala da pranzo adibita a ristorante; depandance con camere per gli ospiti. Corti e cortili interni. Stalle, con mucche, pecore, lama e pollame. Fabbrichetta di lavorazione del latte e dei prodotti caseari (formaggi, yogurt, burro), cappelletta privata. Insomma, roba da ricchi. Lavoratori, ma che han fatto i soldi. Buon per loro!







La camera e gli spazi comuni sono caldi e accoglienti, e ne godiamo per l'intero pomeriggio, visto che siamo arrivati presto. Nel frattempo scoppia anche un gran temporale, con vento che ruggisce e pare debba strappare il tetto e pioggia battente. Possiamo dirlo? Che culo essere al riparo!
Intorno alle 18.30 veniamo chiamati per cenare nell'immensa sala da pranzo, dove un ciocco nella stufa scoppietta allegramente.


Veniamo rimpinzati con ogni bendiddio: pane al formaggio e formaggi della casa, il solito riso e pollo (ma cucinati con un pochino più di cura rispetto al magnaporco delle taverne), e poi una torta alla banana accompagnata da mate caldo di erbe miste. Insomma, un pranzo da signori!






Alle 8 è praticamente ora di dormire. Qui i ritmi sono vincolati al lavoro e all'altura, al clima rigido e irascibile. Al sole che sorge e tramonta tutto l'anno alle 5.30, mattina e pomeriggio.
Domani ci attende una tappissima: passo Abra La Raya, 4400m. Ingresso nella regione di Cuzco. Discesa a precipizio tra vulcani e fonti termali. Passaggio al sito di Raqci. E arrivo a Checaupe. 97km. Perchè Chcaupe? Perchè da lì si parte per il trekking alla Vinicunca, la Montagna Arcobaleno, il punto più alto in assoluto di questo viaggio: 5200m. Cinquemiladuecento! Sarà fantastico!



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