mercoledì 3 agosto 2022

24-25. Titicaca: Puno, Isla Uros e isla Taquile. Mondi fuori dal tempo, scaglie di sole tra abissi d'azzurro e luce















Lunedì, 1/8/22
Juliaca-Puno (3827m)
46km

Che tappa spettacolare quella di oggi! Agile, serena, liscissima, piena di bellezza da bere con gli occhi tutta d'un fiato. E poi il mio malo gripe sta perdendo terreno. Ancora mi assedia, mi assilla, mi stordisce. Ma meno di ieri, e questo è ciò che conta.
Stamattina, dopo aver fatto colazione e i soliti ventordici piani di scale con borse, borsetti, bici e borracce, abbiamo affrontato il traffico impestato e multiforme di Juliaca. Abbiamo assistito al primo incidente con tanto di litigio furioso, e per fortuna senza feriti: un triciclo a pedali con passeggera infagottata stile E.T., ma con cappello andino, e un mototaxi. I pericoli del caos urbano sono molteplici, e a numerosi fattori si deve prestare attenzione contemporaneamente: accelerate, frenate e svolte improvvise di tutti i più strani mezzi, a motore e non; buche e voragini, mucchi di sabbia, di immondizia, di merce, tombini aperti, faglie, in sostanza, il fondo stradale; gli scarti e i balzi dei pedoni, che salgono e scendono dai bus in corsa, attraversano senza minimamente badare ai semafori e (sic) si buttano in mezzo alla strada con bimbi mezzi nudi in braccio per far fare loro la pipì. Insomma, bisogna fare attenzione.
Uscendo, oltre al solito mercatame paciugante, passiamo dalla bella piazza Bolognesi, dedicata a Francisco Bolognesi, colonnello patriota che combattè valorosamente nella Guerra del Pacifico. Intorno corrono mezzi a pedali e a motore di varia fattezza, e su un lato si affaccio il Templo de la Merced, che risale al 1889.









Fuori da Juliaca è subito di nuovo profondo Collao rurale. Campi, pampa, mandrie di vacche e greggi che pascolano pacifiche tra azzurro e oro. I pastori e le donne portano le bestie di qua e di là, le legano, le slegano, le riportano. Ma lentamente. Il tempo qui scorre a una velocità diversa, e sembra quasi tenga il fiato prima di fare respiri profondi e placidi.






Passiamo Caracoto, di fondazione spagnola, e poi Paucarcolla, toponimo che, secondo alcune teorie, significherebbe "luogo in cui combatterono i colla" (contro gli inca, s'intende, e perdendo). Questa cittadina gode del fiume Totorani e di alcuni siti archeologici nella sua area, cosa che la sta portando a crescere in fretta, per quanto sia ancora un ammasso di case in mattoni e fango e paglia con le pecore e le mucche legate in cortile a pascolare.





Fino a qui abbiamo pedalato in pianura. Ora inizia l'unica salitella che ci porta a superare le colline dietro cui si nasconde Puno, la perla sul Titicaca. La strada si innalza pian piano, dolcemente, e conduce fino all'inizio della riserva nazionale del lago navigabile più alto al mondo. Il Titicaca continua a non vedersi, da qui, e a restare nascosto occhieggiando solo vagamente, a tratti, con scintille azzurre e argento, da lontano. Si annuncia tuttavia con l'odore pungente dell'acqua che stagna, ai suoi bordi, e di stagno fermo. Sotto di noi una distesa di campi umidi.




Ancora due colpi di pedale e ci siamo: Puno! L'agognata. Questa città ha una storia profonda come il lago che la nutre. Qui vissero popolazioni nomadi per millenni, poi i Puquina e gli Uros; intorno all'anno 1000, con la caduta della cultura Tiahuanaco arrivarono gli Aymara e con l'espansione dell'Impero Inca nel 1472 arrivò la popolazione Quechua. Il primo documento in cui Puno è nominato come tale risale al 1535: Francisco Pizarro consegna a Gómez de Mazuelas l'Encomienda de Puno. Nel 1543 , il cronista Pedro Gutiérrez de Santa Clara descrisse il caseificio Puno nelle Ordinanze sui latticini emesse dal governatore del Perù . Nel 1668 fu fondata la città spagnola (cito liberamente Wikipedia).




Da subito la città si presenta ai nostri occhi come un mix perfetto tra classico squallore di periferia latina, vitalità coloratissima, storia e fascino. Con punte un pochino inquietanti, almeno quanto le strade ripidissime che collegano i quartieri di questa città che come un formicaio brulica su diverse alture.




Puno è anche definita "capitale folklorica" del Perù: le processioni della Festa de La Virgen Candelaria (Candelora, febbraio) sono trasmesse sulle tv nazionali e attirano decine di migliaia di turisti; molte sono fiestas, pagane e poi cristianizzate, che si celebrano in Puno e nelle comunità vicine, quechua e aymara. Ci sono 300 danze tradizionali riconosciute, processioni in maschera e con abiti di pregiatissima fattura, che spesso valgono più dell'intero guardaroba di una famiglia, accompagnate da musica con strumenti a fiato e a percussioni talora rimasti immutati dall'epoca incaica.

Dopo aver percorso una discesa ripidissima che mette a dura prova le nostre pastiglie dei freni, prendiamo possesso della nostra camera d'albergo (Milagros Inn, top) e ci accordiamo con il gentilissimo proprietario per la visita delle isole di Uros e Taquile, domani. Sarà un'esperienza pazzesca! 
Facciamo un minimo di bucato, approfittando dell'acqua CALDA, e poi ci tuffiamo nella tranquilla ed elegante area centrale della città, votata al turismo e piena di gringos (e quindi un po' insipida ai nostri occhi ormai abituati ad altro).

Passiamo dal Templo San Antonio


e dal palazzo di giustizia


prima di raggiungere Plaza de armas, che è un luogo sereno di ritrovo su cui si affacciano palazzoni coloniali e localini, oltre alla maestosa cattedrale barocca del 1757.




La chiesa è ancora chiusa, quindi ci dirigiamo verso la casa del corregidor, edificio secentesco tra i più antichi di Puno (che ora ospita un negozio di prodotti equi e solidali) e il Museo Carlos Dreyer. Questa collezione spazia da reperti precolombiani a opere di epoca coloniale e repubblicana ed è frutto della passione del pittore e fotografo tedesco Dreyer che qui visse per trent'anni, a cavallo tra i secoli XIX e XX.






la divinità patata?




i toretti benauguranti che si trovano sui tetti delle case andine



Pezzo forte della collezione sono le mummie recuperate in perfetto stato di conservazione, e con i loro corredi, nelle chullpas di Sillustani, una delle quali è ricostruita nella sala



Sopra alla teca c'è un vasetto dento cui i visitatori lasciano monetine e foglie di coca. Perchè gli andini hanno un senso della spiritualità pagana e una devozione superstiziosa che nessuna croce importata potrà mai eradicare.



questa mummia si è conservata con un feto di lama offerto alla Pachamama

Non solo monetine: nel vaso accanto alle mummie, scorgo qualcosa... Caramelle e cioccolatini, sempre lasciati in dono ai muertitos


Sono degne di nota anche tutte le foto che ritraggono Dreyer con i suoi amici peruani.




Appagati della visita al museo, torniamo in piazza, dove la mole della Cattedrale ci ruba lo sguardo. Nei dettagli della facciata barocca ci si potrebbe perdere come in un labirinto di simboli.





Dopo le foto di rito alla piazza, ci concediamo una merenda (non abbiamo pranzato... Come quasi sempre). Gigi si accontenta di un gelato, mentre io mi lancio sul milkshake alla lucuma e cacao. Una bontà divina, e non mi viene nemmeno il cagotto, hurrà! Da notare quanto siano alti i soffitti di molti locali: Gigi ha la testa piena di croste perchè spesso ci sbatte contro!



Decidiamo di fare una passeggiata fino al porto che affaccia sul lago, da cui domani ci imbarcheremo alla volta delle isole. Come sempre, i quartieri intorno al porto sono più veraci, più autentici, più caotici e più ronci. Mi piacciono di più delle zone turistiche preconfezionate a misura di gringo. Donne con abiti tradizionali si alternano a famigliole di turisti interni, studenti, cadetti, e venditori ambulanti.





che trecce fantastiche!


zaini tradizionali: una coperta arrotolata


Giungiamo al porto. Qui si trova un grande mercato di prodotti artigianali, soprattutto in lana, e cibo delle comunità della sponda e delle isole. Mi piace questa attenzione a ciò che è local.



Incappiamo quindi in una parata di pedalò di dubbio gusto, che raffigurano personaggi dei cartoni animati e degli anime visti da uno che si è fatto di troppa ayahuasca (liana degli spiriti/dei morti) e non è più uscito dal trip da incubo.





Intorno al faro, un guizzo di pacchiana genialità dei venditori di strada. Ci sono dei mini "set" fotogrfici che rappresentano boschi dell'idillio, foreste da favola, con peluches di leoni, pony in carne ed ossa e soprattutto piccioni, tortore e colombi arruffati. Pagando, ci si può mettere in posa in questi set, e si viene fotografati in una cornice da libro delle fiabe.




Gli scorci sul lago che si godono dal molo sono un assaggio della meraviglia che gusteremo domani.







Non manchiamo di visitare il centro di conservazione ambientale, un piccolo museo gratuito che dà informazioni su minerali, fauna e flora del lago, oltre a esporre alcuni reperti e modellini delle isole galleggianti.





Torniamo verso il centro e il crepuscolo ci sorprende con un cielo iridati di vaghe nubi rossastre, infiammate dagli ultimi sorsi di sole.



La luna è un sorriso, una piccola U perfetta che ci guarda benevola. I numi sono propizi. Non mi verrà la sciolta per quel milkshake alla lucuma. Per sicurezza, facciamo anche un passaggio in chiesa, che, ora, finalmente, è aperta.




Per procacciarci la cena ci dirigiamo nella via pedonale super affollata e super turistica: Lima. La pavimentazione ricorda le danze e i costumi tradizionali.




Tra i mille ristorantini, optiamo per il ristorante Tulipans, in cui incappiamo per caso e mi sovviene in quanto citato nella guida. Ahimè è pieno di gruppi organizzati di italiani, che sono una categoria di viaggiatori che, quando incrocio all'estero, mi sta un pochettinino sul piloro causa modi, volume e tenore dei discorsi. Tante volte preferirei no hablar el idioma.
In ogni caso ceniamo divinamente: limonata alla menta


zuppa di quinoa, che è un piatto supersupertipico



e spiedini di verdure con patate e magia. Tutto troppo buono.


Ora bisogna dormire: domattina alle 7 partiamo per le isole. Staremo via l'intera giornata e sarà forse uno dei momenti più iconici di questo viaggio che tanti orizzonti nuovi per me sta spalancando.

Martedì, 2/8
Puno - Isla Uros - Isla Taquile -Puno
0km pedalati, parecchi navigati e camminati

Quella di oggi è stata una delle giornate più assolute in termini di scoperta, conoscenza e approfondimento dal punto di vista sociale e antropologico. Che sono alcuni dei principali motivi per cui ogni anno metto il culo su una bicicletta e attraverso paesi, confini, orizzonti. Longa brevis: abbiamo visitato due delle isole del lago Titicaca (puma grigio, o luogo in cui nasce il sole), Isla Uros e Isla Taquile. E fin qui niente di speciale, penserete. Lo pensavo anche io quando siamo stati prelevati direttamente in albergo da un pullmino che ci ha portati al molo d'imbarco. Fila, turisti da ogni dove, guide che berciano e contano... Quando siamo saliti sul barchino le aspettative erano abbastanza basse, nonostante i racconti entusiasti e le numerose letture. Vi lascio immaginare quando poi si è imbarcato il musicante one-man-band a deliziarci con flauti e charango... Temevo di essere finita in una tourist trap.



Invece no. Appena salpati sul lago navigabile più alto al mondo tutto subito prende senso. Già solo i colori del cielo e dell'acqua che giocano a chi si fa più turchese e chi più luminoso valgono l'esperienza. Questo lago è sconfinato, immenso, inafferrabile con lo sguardo. Sembra un mare e, parlando, tante volte ci capita di riferirci a questa massa d'azzurri proprio con tale parola: mare. Ma l'acqua e dolce e porta vita nelle sue più colorate forme.




La prima sosta è a Isla Uros. Si tratta di un agglomerato di oltre cento isole artificiali costruite con la totora, pianta acquatica che qui cresce spontaneamente e in abbondanza. Il colore che domina è il giallo oro della totora asciugata al sole, e pare che un frammento di sole sia precipitato nel Titicaca. 






Gli Uros sono una popolazione antichissima che, in origine, abitava le sponde del lago; poi, per sfuggire ai bellicosi vicini, si sono trasferiti su imbarcazioni e zattere, che, ingrandendosi, son diventate vere e proprie isole. Questa gente dipende in toto dalla toto-ra: la usano per rinnovare gli strati delle islas flotantes, per costruire le case, le imbarcazioni (spesso molto elaborate), per filtrare l'acqua del lago e persino da mangiare (è come canna da zucchero, ma letale di batteri per noi foresti). Ogni isola ospita tra le tre e le dieci famiglie. In occasione delle feste, le isole vengono unite, quando si litiga col vicino vengono divise e ci si ormeggia poco più in là. Ci sono le isole scuola, bagno e ricezione turistica. Ah, gli Uros parlano la lingua aymara e solo chi ha studiato conosce lo spagnolo.




Veniamo accolti da donne dai vestiti di colori sgargianti; ci fanno accomodare su una piazza in totora, su panche in totora. La guida ci spiega i dettagli di come sia organizzata questa comunità. Gli uomini costruiscono zattere e case, cacciano e pescano. Le donne tessono, fanno essiccare pesci e volatili con sole e sale (non c'è elettricità sulle islas, se non quella fornita, e solo di recente, da alcuni pannelli solari). Il turismo è diventato un capitolo fondamentale dell'economia uros, che producono souvenir, vendono prodotti d'artigianato e ospitano nelle loro case dove la tranquillità è assoluta.
Sono cristiani, ma la Pachamama e il Pachatata hanno ancora grande importanza per queste persone. Attraverso veri e propri arazzi ricamati, ci viene spiegato come la salute derivi dal controllo e dal rispetto di ciò che la natura ci dà: serpente (spina dorsale), puma (ventre), condor (mente). 



Poi si passa alla spiegazione pratica di come vengano costruite e rinnovate nei loro strati, che man mano marciscono, le isole. E' un lavoro inesausto, che non finisce mai, letteralmente, da 10.000 anni.





Dopodichè veniamo invitati a visitare le abitazioni. Qui conosco Rosi, che mi racconta di come sia ancora single e non sia mai stata sulle barche dell'amore (quelle in cui si parte in due e si torna in tre) dove si appartano le coppie. Prima di sposarsi i fidanzati devono convivere almeno tre anni, perchè non esiste il divorzio. Anche la giustizia è amministrata a livello locale. Ovviamente non manca il piccolo mercato, e risulta inevitabile comprare qualcosa. In tutta onestà, trovo questo modo di "vendere" il proprio folklore e le proprie tradizioni molto onesto e rispettoso. Oltretutto non ci sono intermediari e il ricavato va direttamente alle famiglie di artigiani.





Ci aggiriamo per l'isola dove siamo sbarcati e incappiamo nel classico esempio di caballito de totora, imbarcazione zoomorfa super elaborata e coloratissima, come tutto qui.



carne di uccelli acquatici e pesce essiccati

modellino di isola in totora




Quando il caballito parte, le donne intonano un canto benaugurante per il viaggio. E' un momento di sospensione del tempo, si viene trascnati in un altro mondo, in un'altra epoca.





acquisto numero 1: kttmuort apotropaico

acquisto numero 2: il lama nero, guercio e che ha perso un ovetto dalla sporta



Dopo poco, quando il sole inizia a scaldare, ci trasferiamo su un isolotto che vanta persino un baretto, un ristorante e una sorta di galleria di sculture in... totora ovviamente!








Dopo esserci fatti timbrare il passaporto (e che fai, te ne privi?) è già ora di ripartire. In realtà starei ancora a lungo a lasciarmi cullare dalla danza delle onde su cui gli Uros camminano, scalzi. E questi colori, questa pace, dove mai si possono ritrovare?
Ma el capitan della nostra barchina ci chiama, è ora di salpare alla volta di Taquile. Ci vuole un'ora e mezza a pieno regime. Prima attraversiamo dei veri e proprio corridoi tra distese di totora (eh sì), poi lo stretto tra le penisole di Capachica e Oyuyo (dove è stata coltivata la patata per la prima volta). Questi lembi di terra sono luoghi nei quali la gente delle isole viene a scambiare i prodotti del lago con quinoa, carne, patate, verdure e uova.







Poi la navigazione prosegue nel lago "aperto" e riusciamo persino a intravedere le maestose vette innevate della cordillera real boliviana. Il confine è qui ad un passo. Il sole è rovente ma l'aria fresca che arriva stando sul tetto del barchino mitiga la temperatura.




Ci avviciniamo a Taquile, geometrica nelle linee orizzontali e concentriche che la caratterizzano: sono terrazzamenti antichi quanto il popolo che li ha costruiti.



Taquile è un'isola naturale, fatta di roccia e terra. Ci vive una comunità che non ha nulla a che spartire con gli Uros. Qui si parla quechua. La città principale si abbarbica in cima a una collina, a 4000m. Qui vissero gli Inca (ci sono alcuni siti archeologici) e qui resistettero a lungo prima di capitolare contro gli spagnoli di Carlo V.




La società di Taquile si basa sul lavoro collettivo e cooperativo; vale ancora il codice morale inca: non rubare, non mentire, non essere pigro. E pigri certo non sono questi isolani, dediti alla pesca, all'agricoltura e, ora, al turismo. Tutto ciò che si porta in città, si porta in spalla, su sentieri scoscesi e ripidissimi.






Quando gli spagnoli vietarono l'abbigliamento tradizionale inca, i taquileni svilupparono una loro arte tessile che li contraddistingue ancora oggi ed è considerata patrimonio dell'umanità dall'Unesco. Gli abiti, i loro colore, la loro forma e il modo in cui vengono indossati descrivono lo status delle persone: sposati o no, l'età, il rango.






Ci si saluta scambiandosi una foglia di coca, che è anche l'offerta privilegiata ai santi e alla madre terra. Il tempo qui corre a un passo diverso: non c'è corrente elettrica, l'acqua nelle case solo da poco. Non ci sono negozi, nè hotel, nè veicoli a motore, nemmeno cani e gatti. Gli uomini fanno le cose da uomini (arare, pescare, cucire i vestiti per le donne), le donne fanno le cose da donne (seminare, cucinare, cucire i vestiti per gli uomini). Tutti lavorano, ma i ruoli sono estremamente divisi in modo netto. I bimbi fino a 5 anni portano i capelli lunghi e intonsi, maschi e femmine. Il padrino o la madrina che taglia i capelli la prima volta deve poi ospitare almeno due mesi all'anno i fanciulli in casa propria. Gli unici ristoranti sono per turisti e vengono gestiti dalle famiglie residenti a rotazione, così come i campi coltivati. Il motto è: tutti per uno, uno per tutti. Il concetto di proprietà privata è estremaente labile e poco radicato.







I taquileni hanno i loro capi, che sono le famiglie più anziane. Anche qui, a rotazione si gestisce la comunità. Non ci sono polizia, tribunale, forze dell'ordine... Si va in piazza e ci si chiarisce. O così, o l'isola è piccola e si fa presto a esser sbattuti fuori. I 2200 residenti si sposano solo tra di loro.

Abbiamo l'immensa fortuna di incappare in una festa di paese: si celebra Santiago. Tutta la comunità è radunata in piazza, dove un gruppo di musicisti e danzatori si esibisce in una cerimonia tradizionale che di cristiano ha solo la facciata. Abiti, strumenti e ritmi sono assolutamente precolombiani.








le famiglie  "al potere" assistono allo spettacolo









Rimaniamo estasiati, sospesi tra passato e presente, in bilico tra due azzurri e colori sgargianti, rapiti dalle note strudule delle zamponas e dal ritmo martellante, quasi bellico, dei tamburi. Gli incas usavano già questi strumenti. Ci richiama la guida, è ora di pranzo. Saliamo nel punto più alto e panoramico del paese, con scorci sul lago e sui terrazzamenti.







Il pranzo è quello tipico di Taquile: pane con aglio e peperoncino, zuppa di quinoa e verdure, trota fritta con riso e patate. Dire che è delizioso non rende.



le cuoche all'opera



Concludiamo con un mate de muña, super aromatico e, apparentemente, ottimo per le patologie gastriche.



Viene il momento di scendere e tornare. Il sentiero che conduce al porto è di una bellezz che toglie il fiato, perchè si tuffa dal blu del cielo direttamente al blu delle acque del Titicaca, tra archi di pietra decorati e donne in abiti tradizionali.














Il rientro è un lungo commiato da tanta bellezza. Dalla scoperta di comunità che vivono in modo diverso, alternativo, fuori dal tempo. E forse funziano meglio.




Una volta in Puno ci dedichiamo ad alcune faccende logistiche: rinnovare la sim peruana (Bitel, ottima), che è sempre un cimena perchè siamo stranieri; organizzare un passaggio fino a Juliaca, per non ripedalare una strada già vista ieri. Concludere lo studio accurato delle tappe dei prossimi giorni. Muoviamo verso Cuzco, torniamo in altura, ci infiliamo di nuovo a capofitto nella pancia dei monti. Ricomincia l'avventura.
Ma prima, un ceviche vegetariano con papas dulces, roba da leccarsi doppiamente i baffi!





2 commenti:

  1. Wow sembra un altro mondo, e anche Gigi non ci sta con le dimensioni,sembra entrato nella casa dei puffi.

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  2. L'impossibile non c'è
    L'impossibile non c'è
    Perché tutto è possibile
    Lettera ai potenti della terra
    Padroni delle banche e della guerra
    Voi avete fascio e propaganda
    E noi vi massaggiamo con la fionda
    Ah!
    Lettera ai potenti della terra
    Hey!
    Io vi farei fumare un po' di erba
    Queste mie parole sono artiglieria
    Per voi sarò come Davide con Golia, Golia
    L'impossibile, è solo l'inizio per noi
    Benzina della mente
    L'impossibile, è solo una bestia che noi
    Combatteremo sempre
    He, l'impossibile non c'è
    L'impossibile non c'è
    Perché tutto è possibile
    Tutti contro tutti per il pane
    Hey
    Ma tutti insieme a tutti, è eutopia d'amare
    Io reggo, viaggio, pratico armonia, hey
    Con voi sarò come Davide con Golia, Golia, Golia
    Hey
    L'impossibile è solo l'inizio per noi
    Benzina per la mente
    L'impossibile è solo una bestia che poi
    Combatteremo sempre
    L'impossibile non c'è
    L'impossibile non c'è
    Perché tutto è possibile, possibile, possibile
    L'impossibile non c'è
    L'impossibile non c'è
    Perché tutto è possibile, possibile, possibile
    Fonte: LyricFind
    Compositori: Federico Renzulli / Pietro Pelù
    Testo di L'impossibile © Warner Chappell Music, Inc

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