lunedì 25 luglio 2022

15-16. Arequipa la blanca. Primi 3500m di scalata andina tra canyon e vulcani













Sabato, 23/7
El Pedregal (Majes)-Arequipa
100km

Scrivo da Arequipa la bianca, la alta, superba quasi come Genova. Irraggiungibile? No, ci siamo arrivati, ma è stato faticoso davvero arrivare fin quassù in così poco. Siamo a 2300m di altezza, ma per arrivarci ne abbiamo dovuti masticare 4000, di cui 3500 solo tra ieri e oggi. Se non riuscite a darvi un'idea perchè non siete "del mestiere", immaginatevi di scalare lo Stelvio due volte e ne avanzano ancora. Certo, la pendenza qui è molto meno crudele, ma le nostre bici pesano poco meno di 40kg, poco meno di me insomma. Quindi perdonatemi questo momento di sfoggio d'orgoglio ma penso di potermelo concedere. In ogni caso ora siamo in una casa storica di Arequipa, siamo puliti e profumati, rifocillati e al calduccio. I vestiti lerci e puteolenti sono a lavare e domani faremo i turisti senza posare le chiappe sulla sella nemmeno per un secondo. Insomma, stiamo BENISSIMO!

La nottata è stata travagliata: abbiamo dormito nella camera più rumorosa dell'ostello più esposto alla via più incasinata del Perù. Fino alle 3 di notte discoteche, locali, giostre e ambulanti hanno continuato a fare un chiasso allucinante. Poi hanno iniziato i vicini di camera. E alle 5 sono ripartiti gli altoparlanti di tamalestamales, naranjaspinapalta, VitorVitor Lajoia taxibus. In sostanza non abbiamo dormito che per un paio d'ore. Ne abbiamo però approfittato per partire presto. Alle 6 siamo operativi, due biscotti e via. Quando si viaggia in bici la fatica inizia ancor prima di partire: chiudere le borse e portarle su e giù per scale e scaloni, sempre in almeno due giri, già prosciuga. Ma oggi non c'è tempo per esser stanchi, ci aspetta una tappa lunga e ripida.

Ecco i galli da combattimento, con bargigli e creste tagliate e artigli da far spavento. Ci osservano incuriositi con l'occhio vitreo, probabilmente, se potessero, si vendicherebbero dell'atrocità che subiscono ammazzando il maggior numero possibile di esseri umani. Almeno questo si evince dalle loro espressioni.


Torniamo sulla strada principale, che non è più la Panamericana ma la Carretera Interoceanica. Che nome gagliardo, anche questo! Appena fuori dalla città, che ancora dorme ad eccezione dei contadini, già al lavoro, affrontiamo il primo dei molti canyon di oggi. Questo è scavato dal fiume Siguas. Passare i canyon significa scendere a cannone su rettilinei quasi ininterrotti, perdere dai 100 ai 300 metri, passare il ponte sul corso d'acqua e poi risalire dall'altra parte per altrettanti 100-300m, ma non a cannone, no no, piano, pianissimo, facendo fatica gratuita. Però guardate che meraviglia la valle resa fertile dal fiume, raccolta tra i fianchi dei monti come in palmo di mano che accarezza e custodisce.




Scendiamo e risaliamo dal lato opposto. Oggi ripeteremo questa operazione diverse volte, visto che già c'è poco da salire in generale.






Riconquistati i nostri 1500 di quota, si apre davanti a noi un rettilineo in falsopiano circondato da pianura arida: pampa. Il deserto ci riaccoglie, ma questa sabbia è diversa, è d'altura. Brilla di diverso riflesso, più limpido. In lontananza si intravedono, azzurre di azzurro più scuro rispetto al cielo, le montagne. In particolare si staglia la mole dormiente del Chachani, un vulcano la cui vetta sfiora i 6057 metri. In quechua significa "donna". Non ha ghiacciai perchè qui il clima è troppo asciutto, motivo per cui è scalato senza troppe difficoltà anche da non esperti. Il primo a conquistarne la cima è stato, pensate, un italiano, nel 1901: Celestino Usuelli




Pedaliamo spediti mentre il buon vento ancora ci accompagna e aiuta. Qui Eolo avverso sarebbe un incubo, si è completamente esposti. Il Chachani si fa più vicino: stiamo andando proprio verso di lui. Anzi, di lei.




Finisce anche il bel drittone e finiamo di nuovo in un canyon. Questo è scavato dal Vitor, che dà nome anche al paesino rurale che sorge in valle, dove tanti si dedicano ad intrecciar giunchi per creare stuoie e pareti. Scendiamo e la sabbia e le rocce sono rosate con riflessi verdi. Il volo in picchiata è un distillato di pura meraviglia. 




Gli avvoltoi girano ad ali spiegate sopra di noi e ci accompagnano per via, mentre i colori minerali si mescolano nella velocità e lasciano una scia chiara di pietra preziosa mista a tempo, ancor più prezioso, vissuto appieno.




Al fondo ci attende una breve galleria che sbuca... su un altro canyon!




Anche qui scendiamo rapidi come il vento, sapendo che presto o tardi pagheremo in sudore tutta questa grazia, e verrà tempo di risalire e salire ancora. La valle del Vitor è un sorso di linfa verdissima, ma in un soffio siamo già oltre.






Compaiono muri con propaganda elettorale di candidati dai nomi curiosi. Su tutti sta Victor Hugo. Deve avere genitori molto colti o molto ignoranti, immagino. E resta comunque un nome piuttosto impegnativo.


Eccoci, ci siamo. Inizia la risalita. Passiamo attraverso strette pareti di roccia e sabbia, pare di essere alle Termopili. Fa anche un caldo esagerato: l'aria è fresca ma ferma, immobile, non si muove un filo di brezza; er contro il sole picchia forte e brucia, ustiona, frigge. Abbiamo messo la crema solare (qui vendono quella colorata, marroncina, non quella bianca, e pare si faccia black face...) ma cambia poco.









Il paesaggio è incredibile, mi ricorda Petra. Anche qui la roccia rosa e oro si stria di bianco, anche qui le gole di pietra son strette al punto che pare quasi vogliano inghiottire la strada. Anche qui si vota per Victor Hugo!




Usciamo dall'ennesimo canyon ed eccoci nell'altopiano de La Joya, città verso qui partivano taxi e bus pubblicizzati a gran voce all'alba, a Majes. Vigneti, campi e colture di cactus da cocciniglia si aprono intorno a noi, mentre il paese ci accoglie con statue e venditori ambulanti di amache. E' comunque un settore del mercato, o no?





Il centro è affollato di negozietti e ambulanti che vendono soprattutto prodotti agricoli. Numerose botteghe vendono e comprano cocciniglia in tutte le forme: viva, secca, in polvere...



Questa cittadina prende il nome dalla fertilità del terreno, benedetto dall'acqua che fa fiorire la pampa. Inoltre non mancano i giacimenti minerari nelle alture che circondano l'area. Capitiamo qui nel giorno giusto: si celebra la festa del paese, l'anniversario della creazione del distretto. Tutti sono in piazza, dai candidati alle elezioni con i loro comitati, alla banda, dai bambini ai negozianti alle autorità. C'è musica e aria allegra di sabato di fiera in paese.








Noi ci fermiamo per una meritata pausa: siamo a metà tappa, per quanto il grosso della salita debba ancora venire.


Sullo sfondo si intravedono i quartieri poveri, con baracche costruite in legno e giunchi.



Dopo aver mangiato e bevuto, torniamo in sella per la seconda metà della giornata. La Joya ci saluta con il verdefoglia




che presto cede il passo al deserto, di nuovo.



Attraversiamo il caotico pueblo de La Reparticion, dove si incrociano la Panamericana e la Interoceanica, e dà proprio l'idea dell'ultimo posto civilizzato per molti kilometri. C'è quella frenesia allegra e godereccia, fatta di ristoranti e localini, botteghe e bagni pubblici, che si incontra nelle oasi e nei porti.
Noi tiriamo dritti e iniziamo ad attaccare la prima salita lunga che ci porta da 1600 a 2200. I cartelli già danno il benvenuto ad Arequipa, ma ce n'è ancora di strada da fare...






Si sale nel sole rovente. La strada non è mai troppo ripida, ma abbastanza da costringere ad andature appena sufficienti a mantenersi in equilibrio sulle due ruote. A tratti è vuota, a tratti impestata di un traffico rumorosissimo di mezzi pesanti di ogni genere. Non mancano, nemmeno qui, muertitos e auto minuscole grandi carichi. Sono sacchi pieni di bottiglie di plastica, raccolte tra i rifiuti a bordo strada e poi rivendute.



Intorno sembra di essere circondati da dune, ma sono montagne e già di tutto rispetto. Compare un inatteso cartello: rispetta il ciclista. Ma quale ciclista? Da giorni vediamo solo le nostre ombre pedalare.





Continuiamo a salire, piano ma in modo costante. Ora stiamo davvero evaporando al sole, soprattutto quando passano i tir, poco più svelti di noi, ed emanano calore aggiuntivo. Komoot parla chiaro, siamo già sopra ai 2000m, anche se il paesaggio è talmente lontano dai nostri alpini da render l'idea della quota.






Passiamo anche accanto al santuario della Virgen del Chapi y la cruz de la quebrada de la gloria (c'èaltro da aggiungere? Qualche secondo nome, no?). Qui si chiedono grazie e i viaggiatori si rimettono ai santi e alla Vergine, anche perchè, dovessero basarsi esclusivamente sulle loro qualità di guidatori, finirebbero presto e male. Fanno manovre allucinanti su queste strade di montagna, e non in moto, no, con autotreni e camion enormi!




Un tornante, un altro, ed eccoci a scollinare al primo passo. Davanti a noi si stagliano, ora decisamente vicine, le due sagome imponenti del Chachani e del suo fratello vulcano, il Misti, che raggiunge i 5820m ed è attivo e fumante. Sulla sua vetta sono stati trovati resti umani e reperti incaici: era luogo, probabilmente, sacro e vi si offrivano sacrifici in anime.

a sinistra il Chachani, a destra il Misti


Scolliniamo, inizia la discesa verso la valle de Rio Chill, che ci costringerà poi all'ultima, estenuante, risalita.




Gli ultimi 20km, con ancora tanto dislivello da guadagnare, sono veramente sfibranti. Le gambe ormai risentono della due giorni da gran premio della montagna. Abbiamo dormito poco e il rumore del traffico risuona nella scatola cranica ormai vuota, perchè il cervellino si è seccato al sole come un acino di uva sultanina. E invece, entrando nell'area di Arequipa, ci sono più auto, più tir, più pullman e bus, più casino. Il fondo è tutto spaccato ed è un continuo sclacsonare e sopravvivere alla guida sconsiderata dei local. Insomma, fatica pura. Si procede lenti e sbilenchi, con frequenti soste per rifiatare e far tornare le parti del viso al loro posto (mentre pedalo, infatti, divento un Picasso: gli occhi finiscono in cima alla testa, fra i capelli, mentre il naso si scambia di posto con la bocca e le orecchie diventano gigantesche come quelle di Dumbo l'elefantino sfigato). I due vulcani giudicano in silenzio la nostra miseranda piccolezza.



Finalmente arriviamo alla seconda città del Perù, dopo Lima. Arequipa la blanca. Ne parleremo bene domani, dopo che l'avrò visitata per carpirne l'essenza.




Dopo un'ultima folle tirata nel traffico, su e giù per rampe e strade sconnesse, raggiungiamo l'hotel, una bellissima casa storica a 100 metri di plaza de armas La gentilissima proprietaria ci accoglie con calore e prendiamo possesso di quella che sarà la nostra casa per due giorni. dopo la doccia crollo in dieci minuti di sonno comatoso


Raccogliamo le forze solo per uscire a cena, e stasera riusciamo a evitare la carne, il pollo, le zampe, la gotta. Gigi va di pizza, io di insalatona con taco vegano. Tutto BUONISSIMO!




Non contenti, prima di rientrare, ci concediamo un caffelatte con dolciazzi misti in una pasticceria di fronte all'albergo. E se avessimo ancora fame? Inca kola e frutta essiccata!



Domani facciamo i turisti e ci riposiamo, oltre a sistemare le tappe dei prossimi giorni. In nemmeno 80km di strada, raggiungeremo i 4000... E saremo veramente in autonomia, per un po' di giorni senza strutture e senza città. Non bisogna farsi prendere alla sprovvista dalla Cordigliera!


Domenica, 24/7
Arequipa
pedalati 0km, camminati... Un bel po'! Strana sensazione quella di tornar bipedi con stazione eretta

Oggi abbiamo esplorato Arequipa, che oltre a essere una città grande, popolosa e ricca, offre agli appassionati storia e storie, cultura e folklore autentici. Ho due considerazioni da fare SUBITO. La prima: questa città mi è piaciuta tantissimo, è viva, fresca, ma con radici profonde che affondano nella pietra bianca dei vulcani (il sillar). La seconda: sembra letteralmente un altro mondo rispetto ai pueblos rurali incrociati nella pampa e nel deserto. A Lima mi aveva colpito la differenza tra quartieri benestanti e poveri. Qui mi sono resa finalmente conto della differenza abissale tra chi nasce in città e chi nei villaggi; qui c'è tutto, in primis l'acqua corrente, là c'è la polvere. Qui i bambini vanno a scuola e ci sono pure prestigiose università, là... I bambini razzolano con i cani e i polli fin quando son grandi abbastanza per lavorare. Qui l'economia si muove, là si aspetta di vendere una mela o una bottiglia d'acqua a un sol ai rari passanti e tutto ristagna in un'attesa atemporale. Insomma, il divario è più profondo di tutti i canyon del Perù messi insieme, al punto che città e pueblos rurali paiono appartenere a due distinte nazioni.

Fatte queste precisazioni, lasciatemi raccontare la meraviglia di questa città che splende nel sole, vegliata dalla mole dei grandi vulcani alle sue spalle.
L'appellativo di Ciudad Blanca deriva dal colore della pietra con la quale sono stati costruiti tutti gli edifici principali del centro storico che, nel 2000, è stato dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Si tratta di edifici coloniali costruiti a partire dal 1540, anno della fondazione da parte dello spagnolo Garcí Manuel de Carbajal, che la chiamò La Villa Hermosa de Arequipa.
Passeggiare nel centro è uno spettacolo ad ogni muro, ad ogni portone e ogni androne dei palazzi che hanno resistito ai frequentissimi terremoti e alle catastrofi naturali che, negli ultimi 400 anni, hanno colpito l'area.








Gli spagnoli non sono stati certo i primi ad abitare questa valle feconda. Secondo la tradizione, il nome di Arequipa deriva dalla lingua quechua. Quando i sudditi dell'Inca Mayta Cápac, meravigliati dalla bellezza della valle del Chili, gli chiesero il permesso di fermarsi e costruire una città, egli rispose Ari qhipay, cioè sì, fermatevi qui.
Un'altra versione fa risalire il nome della città all'espressione nella lingua degli indigeni Aymara: ari qhipaya, che significa al di là della vetta. L'espressione fa riferimento alla migrazione degli indigeni dagli altopiani, a cui la città appariva dopo aver superato la vetta del vulcano Misti.





La nostra visita inizia da Plaza de Armas, incontaminato museo all’aperto dell’architettura in sillar: bianca, imponente e unica dal punto di vista estetico. Su tre lati della piazza corre un colonnato con balconi, mentre il quarto è interamente occupato dalla cattedrale più grande del Perú, un edificio colossale con due campanili slanciati. Nonostante le proporzioni maestose, la chiesa scompare davanti alla mole delle due sentinelle, i vulcani, che si intravedono azzurrognoli e incappucciati di neve nella luce fredda del mattino.




La Catedral è GRANDE. Come una fenice è rinata più volta dalle proprie ceneri, al pari di questa città.  La struttura originale, costruita nel 1656, è stata distrutta da un incendio nel 1844. Ricostruita, la chiesa è stata nuovamente danneggiata da un terremoto nel 1868, e gran parte di ciò che si vede oggi risale alla ricostruzione successiva a questa data. Il sisma del 2001 ha provocato il crollo di uno dei giganteschi campanili, lasciando l’altro in un equilibrio piuttosto precario, anche se entro la fine dell’anno successivo la cattedrale aveva riacquistato ancora una volta il suo aspetto originario.
L'interno, a tre navate, è lineare, sobrio e arioso. I marmi sono italiani, l'altare spagnolo, il pulpito francese. L'organi pure viene da oltreocano, dal Belgio per la precisione. Dal 1870 e per oltre un secolo gli arequipeni, però, sono stati costretti a sopportare le stonature dello strumento, danneggiatosi durante il trasporto in nave.







La piazza inizia ad animarsi e compaiono ambulanti e "buttadentro" di locali e ristoranti, oltre a innumerevoli agenzie che vendono tour più o meno avventurosi tra monti, canyon e fiumi impetuosi: mtb, rafting, trekking ed escursioni varie sono tra le attività più gettonate.




In un angolo della piazza sonnecchia la, purtroppo chiusa, Chiesa della Compagnia di Gesù, costruita nel 1595 e poi di nuovo nel 1698. La facciata in tufo chiaro è un esempio eccellente di barocco andino.



Torniamo in piazza e ne assaporiamo la grandiosa tranquillità passeggiando sotto ai portici. Siamo diretti al luogo forse più interessante dell'intera città.







Il museo Santuarios andinos, gestito dall'Università cattolica del Perù. Non si possono scattare foto all'interno, quindi ne uso qualcuna di repertorio. In breve questa esposizione è la raccolta di quanto trovato sulla cima del Nevado Ampato nel 1995: una ragazzina offerta come sacrificio umano dagli inca, intorno al 1450, perfettamente mummificata e conservata per le basse temperature dei 6290m del vulcano.




Oltre ai resti mummificati di Juanita, la vergine dei ghiacci, ci sono tutti gli abiti, le offerte e gli oggetti rituali trovati nel sito archeologico. La visita si apre con un filmato che mostra le fasi salienti della spedizione per recuperare questi tesori, che fa venir voglia di diventare subito degli Indiana Jones d'altura. E poi spiega come gli Inca (e anche i campesinos di questi luoghi) considerassero le montagne come esseri viventi, capaci di portare morte e distruzione con eruzioni, frane, terremoti... E l'unico modo per placare queste divinità capricciose era offrire anime, meglio se di bambini, anzi, di bambine. Juanita, come la sua compagna Sarita trovata poco distante, è stata offerta in dono dopo un'estenuante cammino fino in vetta. Vestita con gli abiti cerimoniali, stordita dalla chicha (birra di mais fermentato) è stata ammazzata con un colo secco in testa, visibile solo con una TAC. Poi è stata bendata, nelle mani statuette in oro (il sole, maschio) e argento (la luna, femmina), posta in posizione fetale e orientata ad est, in attesa della vita dopo l'esistenza terrena. E' conservata in un'apposita cella refrigerata, ed è stata portata giù dalla sua tomba di ghiaccio in un freezer con gli alimenti surgelati dell'archeologo... Insomma, forse si aspettava di più come forma di immortalità, ma tant'è. Ironia della sorte il suo popolo, per il quale è stata sacrificata, è stato spazzato via neanche un secolo più tardi.


Finita la visita del museo, davvero emozionante, ci dirigiamo verso la seconda attrazione più interessante di Arequipa, sempre passando da Plaza de Armas che è imposssibile non fotografare ancora e ancora, tanto è splendida nel sole.




Eccoci al famoso monastero di Santa Catalina, una città nella città. Sono oltre 20.000 metri quadrati di edifici, vie, piazze, chiostri, tutti isolati dal mondo esterno attraverso spesse mura di pietra.








Edificato a partire dal 1579 per volere di Maria de Guzmán, una ricca signora del posto, è considerato il più grande convento del mondo e il maggior complesso religioso del Perù. Le celle delle monache, a volte piccole e spartane a volte dei veri e propri appartamenti con più locali e terrazze private, affacciano agli spazi comuni: la chiesa, una grande cucina, un refettorio, due orti, un lavatoio a conche e un cimitero. Vi entravano le secondogenite delle famiglie spagnole. Da novizie seguivano un percorso di formazione di quattro anni (che costava 100 monete d'oro in dote al monastero per ogni anno di noviziato) e, presi i voti, vi uscivano solo alla loro morte. Nel 1960 il monastero è stato danneggiato da un terremoto e il 15 agosto 1970 ha smesso di essere un centro di clausura assoluta, per essere aperto al pubblico. Alcune suore vivono ancora qui.








Ciò che colpisce, oltre all'immensità tortuosa dell'insieme di edifici e alla tranquillità che vi regna, sono i colori: rosso, azzurro, bianco e giallo accendono i muri di luce viva e rendono questo luogo uno spettacolo continuamente rinnovato ad ogni angolo che si svolta.



















Per visitare il mastodontico complesso ci mettiamo un paio d'ore, che volano tra storie di monache, sante, mistiche e peccatrici. Questi muri hanno tanto da raccontare perchè tante cose han visto, pur nel silenzio assoluto che regnava per voto a Dio.
Usciamo in preda alla debolezza: gli scorsi giorni di pedalata si fanno sentire. Passeggiamo in cerca di qualcosa da metter sotto ai denti e assaggiamo il queso helado tipico del posto. Non c'entra col formaggio: è normale gelato al latte addolcito con latte condensato, cannella, cocco... E risale alla conquista spagnola del Perù, con l'introduzione dell'allevamento di mucche. Un luogo storico dove si prepara da secoli il queso helado è proprio il monastero (che vendeva anche ostie a tutto il paese). Arequipa è una capitale gastronomica, ma per davvero!


Ci fermiamo a pranzo in una tavernetta marcia con perro incappottato (anche i randagi son tutti così vestiti, e a volte hanno pure i pantaloni).
Assaggiamo le papas a la huancaina (bollite e servite con salsa di peperoncino giallo, olive e uovo sodo) e le frittelle di broccoli. Tutto per 9 soles (1.5 euro)


Poi ci concediamo un momento proprio da turisti: una visita a Mundo Alpaca. Viene venduto come museo gratuito dedicato all'allevamento dei camelidi andini e all'uso della loro pelliccia per la produzione tessile. Si tratta invero di un grande negozio che vende maglioni e poncho, ma lo sappiamo e non ci aspettiamo altro. Però voglio vedere le bestioline, che qui sono tenute in perfetto ordine, nutrite, pettinate e coccolate, da esibizione. Ci sono lama e alpaca e si può dar loro da mangiare, mentre un addetto spiega le differenze tra i vari tipi di animali. Se tutto va bene, ne vedremo parecchi, in libertà, nei prossimi giorni.








E' comunque interessante approfondire la lavorazione della lana, e ci sono anche delle donne che mostrano i metodi tradizionali di tessitura (e ricevono monetine in cambio di foto, perchè la linea tra esaltazione della cultura locale e vendere il culo al primo mondo perchè se no si muore di fame è sottile).




Torniamo sui nostri passi, sempre rapiti dalla meraviglia degli edifici in sillar e dai personaggi che popolano le piazze.






L'ultima tappa è la casa museo dove è nato, nel 1936, lo scrittore e premio nobel Mario Vargas Llosa.


Per tornare in hotel prendiamo una via parallela a quella bianca e silenziosa di pietra antica fatta all'andata. Prendiamo la via dei mercati, e l'atmosfera cambia immediatamente e torna quella vita forte e disperata e coloratissima vista qui in ogni città. Sono i due volti di un popolo fiero che si arrangia in mille difficoltà.







Ci riposiamo e studiamo bene le tappe dei prossimi giorni. Non vi svelo nulla, solo che saremo oltre i 4000, in autonomia, in tenda. E chi vuole intendere...
Per cena scegliamo anche stasera un ristorante fighetto e vegano (pure ieri), per disintossicarci un po' da tutta la carne unta mangiata i giorni scorsi, e per far girare l'economia peruana.



Oltre alle insalatone miste di frutta e verdura di bontà ineffabile (io) e alla pasta (Gigi) ci concediamo anche dei dolci fatti in casa quasi al momento, sempre vegan, mentre osservo i parafernalia venduti oltre al cibo (libri, quadri, unguenti miracolosi, olii essenziali e via). Nonostante l'espressione di Gigi, sempre poco convinta, è tutto strepitoso e le papille gustative cantano dopo giorni e giorni di riso e pollo e patatine cotte in olio motore.






Facciamo due passi ancora fino alla cattedrale, per vederla illuminata, e respiriamo la vita notturna del centro, dove si affollano venditori di cibo di strada, venditori di vestiti nuovi e usati, di gadget, di giochi e scommesse e prove di abilità e mira, di cazzatine, di tutto. Non manco, come mi ero ripromessa giorni fa, di assaggiare i popcorn giganti fatti con mais gigante, venduti in strada per un sol al sacchetto. Da urlo, leggermente dolci, leggeri, buoni e basta.







Rientriamo. Domattina dobbiamo far spesa: a Gigi serve qualcosa di più caldo da indossare (di notte in altura in tenda saremo intorno e sotto agli zero gradi). A me serve il gas per il fornello da campeggio. Un po' di cibo di emergenza c'è: noodles liofilizzati, cracker, cioccolato, tonno in scatola. Domani faremo tappa di avvicinamento: solo 30km e altri 400m di dislivello fino a Yura, dove ci sono le terme con le acque calde dei vulcani. E poi sarà quota, quella seria.

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