venerdì 15 luglio 2022

5-6. Paracas, Ica, Huacachina. Deserto, oceano, oasi e pinguini... Tutto insieme! La limpida meraviglia.

Mercoledì 13/7
Chincha alta - Paracas - Riserva di Paracas
85km

Oggi sono felice. Di più. Felicissima. Una volpe azzurra come il cielo. Con un senso di pienezza e sazietà dell'anima che dà senso a tutto e rende immuni alla finitudine e al trascorrere del tempo. Oggi sono come la ginestra di Leopardi: contenta dei deserti.


Perchè abbiamo attraversato la meraviglia stesa del deserto di Ica, passando nel mezzo la riserva nazionale di Paracas. E qui sì, la sabbia ha un significato. Le dune si fanno opere d'arte modellate dal vento che sale dall'oceano. La vastità prende il sopravvento, gli spazi sconfinati accolgono lo spirito e si può essere grandissimi, immensi, smisurati, ma pure microscopici e "quasinulla" come granelli di polvere. Si è tutto e nulla, e a un tempo.



I propri angusti bordi, il perimetro che ci definisce, sfumano negli spazi interminati e nei sovrumani silenzi, dove solo l'urlo del vento squarcia l'altissima luce e ride l'anima, ride la risata di Dioniso ebbra di pura vita. Siamo un niente grandioso, un pulviscolo d'oro che pulsa infinito nell'istante esatto in cui l'attimo è bruciato e non ritorna.


E poi sono felice perchè ho finalmente visto i pellicani. Pellicani veri, grandi più di quanto immaginassi, liberi, nel loro habitat naturale. I pellicani sono bellissimi!


Ma natura non facit saltus e le volpi nemmanco. Prima di raggiungere tutta questa meraviglia ne abbiam fatta, di strada!
Siamo ripartiti di buon'ora da Chincha, dopo la colazione dell'hotel a base di tè, pane, burro e uova. La città è caos allo stato puro, ma un caos vitale, che se non ammazza sotto alle ruotine di un mototaxi strombazzante è anche piacevole.



Abbiamo poi lasciato il centro abitato per uscire verso le campagne e una zona agricola ben fertile, dove si coltivano frutta, cardi e mais, ma soprattutto viti. Qui si produce il vino, oltrechè il pisco. Abbiamo anche trovato non una, ma ben due bandierine del Perù. Mi capita in ogni viaggio in bici e infatti ho iniziato a collezionarle. Lo considero un segno benaugurante e infatti così è stato.



Tornati sulla Panamericana "alta", quella che passa tra i paesi e non a ridosso della costa, non abbiamo potuto che toccar con mano il disastro lasciato dal terremoto del 2007. Macerie, ruderi e rovine si susseguono per kilometri. Come si suol dire, piove sempre sul bagnato: 500 morti, 2000 feriti e un'intera regione da ricostruire.




Mentre penso al fatto che questo disastro è avvenuto proprio nel giorno di Ferragosto, ci ritroviamo di nuovo in un'area desertica del tutto simile a quelle attraversate nei giorni scorsi. Desertica e desolata.



Non dura molto, però. Raggiungiamo infatti il distrito di san Clemente, che è un agglomerato di cose, case, anime e bestie tenute insieme dalla sabbia








E poi Pisco, prima meta della tappa di oggi. Questa vivace cittadina è stata fondata nel 1640 ed è un frizzante centro turistico nonchè di produzione vitivinicola. Purtroppo, però, il terremoto non ha risparmiato questo luogo e le cicatrici sono ancora ben visibili.
La piazza centrale è piena di cose perse e cose sopravvissute.


Le due chiese lo dimostrano: a sinistra quella storica, il cui tetto è crollato e ancora versa in condizioni pericolanti. A destra quella nuova, costruita dopo il sisma mentre i lavori di ricostruzione andavano avanti.





Al centro della piazza campeggia la statua di Josè de san Martìn, che solleva la spada quasi in segno di sfida. Era il 1820 quando l'eroe liberatore sbarcò a Paracas, dove per altro fu creata la prima bandiera del Perù ed il suo simbolo nazionale.



La piazza centrale (anche qui plaza de armas) è luogo di relax; ben più movimentate, invece, le vie e le viuzze che a ragnatela si dipartono da lì, brulicanti di negozi, botteghe, ambulanti e perros vestiti (con maglie e pantaloni -ma perchè?).




Non mancano i cambiavalute abusivi fuori dalla banca e i venditori di succo di canna da zucchero.


Dopo una sosta, decidiamo di imboccare la via costiera per raggiungere Paracas, dove ci fermeremo questa notte dopo la visita alla riserva. L'oceano ci offre il suo volto più luminoso e, nell'odore di alga e salsedine portato dal vento, procediamo bevendo tutto questo ritrovato sole. Uccelli di ogni genere popolano la battigia, mentre molti uomini son chini a raccogliere qualcosa dai fondali (mitili ignoti?).
Incontriamo anche le prime flottiglie di pellicani ed è subito meraviglia insondabile, gioia altissima.








Pedaliamo lenti, un po' per il vento un po' per non lasciarci sfuggire nemmeno una goccia di splendore. Incrociamo spiagge, relitti di navi e barche colorate di pescatori.





il cartello indica che in questa regione è stato debellato l'analfabetismo. Hurrà! 


Superata anche una lunghissima fila di impianti di lavorazione del pesce e dei suoi derivati, che riempiono l'aria di odore greve e colloso, giungiamo all'agognata Paracas.


rischio tsunami...

Come prima cosa acquistiamo un biglietto per l'escursione in barca alle isole Ballestas, per domani. Ve ne parlerò a tempo debito. Vi dico solo, per ora: pinguini, leoni marini, delfini.
Dopodichè andiamo a portare i nostri omaggi ai fenicotteri, che vivono proprio al limitare della riserva, in una baia protetta cui è impedito l'accesso. Intorno, deserto spazato dal vento.







Viene quindi il momento tanto atteso: la visita alla riserva. Il vento teso rende difficile pedalare, ma per fortuna non solleva una tempesta di sabbia, come spesso accade qui. Spingiamo sui pedali con forza, le piste ci chiamano.





Siamo dentro finalmente. Pagato un biglietto d'ingresso, si aprono intorno sentieri e strade che uniscono le numerose calette e le spiagge. Qui avviene l'incontro impossibile: la più grande massa d'acqua, l'oceano, lambisce e abbraccia la più arida delle regioni. Due vastità infertili.  Riconosco il canto antico del deserto. La sua voce che mi chiama ogni giorno da quando, per la prima volta, ne ho attraversato uno (era il 2018, in Iran). Da qui in poi la razionalità cede il passo ad una ubriachezza da menade danzante nel vento e tra la sabbia. Perchè queste dune mi danno una tale pazza gioia? Forse perchè, come ogni orizzonte incommensurabile, sento di aver trovato il giusto spazio per il mio sentire, che è smisurato, traboccante, sempre eccessivo nella gioia e nel dolore. Qui riverberano i palpiti del mio cuore, qui il respiro si espande e trova spazio.





La riserva è tenuta in maniera impeccabile e ci sono strade, piste e sentieri ben segnalati. Seguiamo un circuito di circa 20km che tocca alcune calette e passa per scorci mozzafiato.




Qui si può "far vuoto" e lasciare che il tempo, la luce, l'aria, la vita, trascorrano senza attriti, come il fiume di Eraclito, ma meno cruento, più dolce. Qui tutto è essenziale, ridotto ai minimi termini. Nulla è di troppo, come insegnavano gli stoici. C'è quel che basta, e non oltre.






Il vento urla, la sabbia scricchiola sotto alle ruote. Sento il cuore trovare il suo ritmo, sceso finalmente dalla giostra del desiderio Non voglio altro, non mi serve altro. E' tutto qui.






Questa penisola, oltre al valore naturalistico, è importante anche dal punto di vista storico; ospita una necropoli (con 420 mummie) che testimonia la presenza della civiltà detta Paracas, che si sviluppò tra 700 a.C. e 200 d.C. e raffinò le tecniche di tessitura e di lavorazione della ceramica; praticavano anche la deformazione del cranio per distinguere le classi sociali più alte. Ci sono due musei qui nella riserva: uno dedicato a fauna e flora, uno agli scavi archeologici, benchè gran parte dei reperti siano stati trasferiti a Ica e Lima.




Proseguiamo sempre più immersi in questo luogo essenziale, sempre più mescolati, quasi fusi, senza più bordo nè confine. Avviene l'opera alchemica al bianco: dopo esserci ridotti a granello di sabbia, diventiamo uno col tutto, una parte indistinta dell'intero, che respira e vive.











qualcuno ha disegnato, con sassi e conchiglie un ENORME pene stilizzato sul fianco di una duna. Gigi ne stupisce.



Viene purtroppo il momento di andarsene. Il vento, ora a favore, ci sospinge di nuovo verso Paracas. La strada che corre nel nulla ci accoglie come un palmo aperto. Io sono ebbra di bellezza, leggera come l'azzurro di questo cielo altissimo. Noi ce ne andiamo dal deserto ma il deserto non se ne andrà mai da me.



Raggiungiamo così di nuovo la città, El Chaco, dove ci attende l'hospedaje San Gabriel (oggi pernottiamo al record di 15 euro) proprio sul lungomare, in pieno centro. Facciamo una passeggiata sul malecòn, tra ristorantini, bodeguite, cormorani che si asciugano sulle coloratissime barche dei pescatori e pellicani che galleggiano sornioni.












perrito con t-shirt dell'ente turismo peruano


Il sole tramonta e d'improvviso cala il fresco della sera. Lo sbalzo termico si fa sentire, anche perchè ci siamo cotti al sole oggi e siamo rossi come gamberoni.
Concludiamo con apertiivo a base di frutta e wafer alla lucuma, frutto locale chiamato anche "oro degli Inca" per le sue proprietà e la sua dolcezza


una jarra di limonata fresca, bevanda super tipica che accompagna le cene dei local


e un bouquet di verdure e papas di una bontà che non vi dico.



giovedì, 14/7
Paracas - Ica - Huacachina
79km

La mattina inizia sotto ai migliori auspici, tra azzurro e azzurro, in una luce pastello che sfuma i contorni e rende dolce l'aria. Le Islas Ballestas ci attendono.






Torniamo all'agenzia dove ieri abbiamo acquistato il biglietto per il tour in barca, ma non prima di aver salutato grandi pellicani e piccoli peruviano che discutono tra loro.
Una guida ci scorta al molo e qui ci imbarchiamo insieme a tanti altri turisti, tutti ordinati e infagottati nei giubbotti di salvataggio. Nella brezza limpida volano cormorani e gabbiani che, come frecce scagliate con forza, si tuffano in mare in picchiata e riemergono con un pesciolino nel becco. Si parte, finalmente. Il mare è placido e invita a levare l'ancora.
Costeggiamo la penisola che ieri abbiamo attraversato in bici e anche da qui il deserto, rosa, oro, granata e bianco, si mostra nella sua silenziosa bellezza, solleticando le onde di riflessi che ridono e guizzano e parlano di infinito.




La prima sosta è al grandioso geoglifo detto Candelabro, 150 metri per 50, scavato nella roccia che ne mantiene il segreto da secoli. Per alcuni è legato alle linee di Nazca, per altri era un segno per chi navigava in quelle acque, forse ispirato alla Croce del Sud: una sorta di bussola. Altri ancora pensano si tratti della raffigurazione di un cactus dagli effetti allucinogeni. Certo è che si tratta di un affascinante mistero che resiste al tempo.



Si prosegue verso le isole. Gigi, che non ama il mare, si fa forza ed affronta la breve traversata.


Ci appaiono davanti, improvvise, quelle che paiono arcate di un portico in marmo bianco. Sono le Ballestas, scavate dalle intemperie, erose dal sale e dal vento, mangiate dall'oceano.





Sembrano vive; brulicano di uccelli marini di ogni genere, e sono un vero e proprio santuario per le sule piediazzurri, i pellicani e i pinguini di Humboldt (quelli piccini).
Il colore chiaro è guano. Queste isole ne sono letteralmente ricoperte. E c'è poco da storcere il naso: si tratta di una risorsa preziosa, usata come fertilizzante (30 volte più efficace rispetto allo sterco di mucca, come scoperto dai botanici inglesi che, a metà Ottocento, ne studiarono dei campioni). L'Inghilterra ne importava 200.000 tonnellate l'anno, in piena seconda rivoluzione industriale. Era voce fondamentale del PIL peruviano, al punto che ne scoppiò persino una guerra. Nel 1864 la Spagna, con un moto di stizza post-coloniale, sfruttando un piccolo incidente diplomatico, occupò le isole Chincha, ricche di guano appunto. E non sia mai! La guerra navale si estese al punto da coinvolgere persino il Cile. Ancora oggi il guano viene raccolto, per quanto ciò avvenga solo ogni otto anni. La pesca intensiva (ora vietata) ha portato a una diminuzione del pesce e quindi degli uccelli che se ne nutrono, e che lo digeriscono ed espellono in forma di PIL in potenza.

pontile per la raccolta del guano

il pingue!



Abbiamo poi anche la buona sorte di incontrare leoni marini e otarie orsine, spiaggiati ad asciugare al sole, che quasi si confondo con le rocce.













Facciamo un ultimo giro intorno all'Isola Guanay (un nome, un programma) ed è già ora di tornare al porto. Raccolgo scaglie d'azzurro e luce da portare con me oggi, nel deserto, quando pedaleremo nell'arsura più disumana.



La visita alle isole ci lascia un senso di pace e di pienezza che ci accompagna per tutta la lunga giornata. Torniamo in hotel, salutiamo il gentilissimo gestore e partiamo di nuovo, questa volta in sella.


Lasciamo El Chaco e pedaliamo verso l'entroterra, per imboccare nuovamente la Panamericana. La strada di raccordo si tuffa immediatamente nel cuore di sabbia della regione, dove i pochi muri sopravvissuti al terremoto portano nomi e slogan della campagna elettorale in corso.

el comunismo mata el turismo

Poi ricompare il nulla vasto. Dune e cielo. Permane anche qui la curiosa tendenza a recintare ettari ed ettari di polvere, completamente vuoti. Minacciosi cartelli proibiscono l'ingresso, ribadiscono la proprietà privata e affermano: non in vendita!
Mannaggia, che disdetta.






La strada corre larga e stesa. Non c'è veramente nulla, neanche un baracchino miserando presso cui fermarsi. Tiriamo dritti. Il sole brucia sulla pelle e in faccia, ma l'aria resta fresca.
Poi, pian piano, compaiono punte di verde. Prima piante isolate, poi aziende e campi veri e propri, e pure molto estesi.




un Cristo a bordo strada, perchè non si sa mai







Sporadici centri abitati iniziano a comparire tra una tenuta e l'altra, fin quando facciamo il nostro ingresso a Ica. La città è centro vitivinicolo d'eccellenza, un miracolo degno d'Israele per la produzione di frutta, ortaggi e cotone in mezzo al deserto. Il primissimo impatto non è neanche così terribile. Ci fermiamo a mangiare un gelato in un tranquillo quartiere periferico, dove passeggiano coppie, anziani e mamme con passeggini.



Poi inizia il delirio. I 12km che ci separano dal centro si rivelano tra i più pericolosi mai pedalati. La strada si fa stretta e piena di buche, ostacoli e mucchi di sabbia o immondizia. Le auto, i camion, i mototaxi, le birocie e i più curiosi mezzi sfrecciano impazziti in un coro stridulo di sclacsonate che non tace mai. Si aggiungono perri vaganti e pedoni imprevedibili. Insomma, pedalare è leggermente stressante e si percepisce la morte a ogni sorpasso e a ogni incrocio.






E dire che sarebbe pure una città interessante, non fosse invivibile per il caos indomabile; fondata nel 1563 dal conquistador spagnolo Geronimo Luis de Cabrera con il nome di Villa de Valverde, vanta un importante passato storico, dal momento che i primi coloni risalgono a più di 10.000 anni fa. La città è stata sede di molte culture pre-incaiche come i Paracas, Wari, Ica e Nasca. Purtroppo, negli ultimi 20 anni, ha sofferto per terremoti e alluvioni, che hanno lasciato tracce evidenti negli edifici e per le strade.






Approfittiamo della presenza di negozi di bici per far registrare il cambio di Gigi, che ha qualche problema. L'officina del meccanico è blindata con saracinesca cui si accede tramite una minuscola porticina che costringe ad inchinarsi. Ed il negozio si trova dentro ad un altro negozio (di vestiti e scarpe contraffatte), attraverso cui si vede passare per accedere dalla strada al ciclista.



Il giovanissimo meccanico, dopo aver sistemato alla bell'e meglio la bici di Gigi a gratis, si offre anche di accompagnarci sia in centro, a Plaza de Armas (aridaje) sia poi a Huacachina, dove abbiamo deciso di pernottare (Ica è veramente troppo incasinata e rumorosa). Lo seguiamo. Lui sfreccia nel traffico, munito di campanello che fa rumore di sirena dei pompieri.


Passiamo così dal centro, con il municipio e l'obelisco doppio che rappresenta le culture Paracas e Nazca, ma pure dal museo archeologico e dalla cattedrale, ancora semidistrutta dal sisma.. Ci sono residenze spagnole seicentesche e su tutto domina il color giallo senape della città che definisce "del sole eterno".






Poi, finalmente, ci lasciamo alle spalle il delirio a motore e muoviamo verso Huacachina, oasi circondata da dune altissime color oro e granata, appena fuori Ica.







Al centro di questa corona di dune il miracolo: acqua.






Qui si respira un'atmosfera rilassata e festaiola, esce musica dai locali e i turisti sono la maggioranza. Siamo nel pieno del Gringo trail.







Ma ne vale comunque la pena: i colori qui sono preziosi come pietre rare e il tramonto brucia l'azurro steso come un incendio...



E poi, quant'è buona l'insalata con avocado e papaya, verdura e salsine piccanti à la precolombiana?











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