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Siem Reap-Angkor grand tour-Siem Reap
41km
Scrivo a sera, dopo questa incredibile, meravigliosa giornata in bici in giro per i templi di Angkor. Sono felice. Stanca. Grata. Consapevole dell'unicità irripetibile dell'esperienza vissuta, qui ed ora. Sono del tutto calata nel momento, che è benedetto, e il senso di pienezza e soddisfazione mi pervade. Quanta strada ho percorso, e non solo in questo viaggio, per far sì che il luogo, il tempo, il soggetto e il mezzo coincidessero! Io, con la mia bici, oggi, tra le rovine spettacolari di arte altissima e disfacimento al basso, giungla e statue, guglie, radici, altari... Che coincidenza incredibile, tra tutte le miliardi possibili! E non ditemi: basta volerlo. Non basta, purtroppo. Fa tanto, ma non tutto. Non siamo onnipotenti, per fortuna. E quindi eccomi qui, contenta dell'oggi, calata nella bellezza, ricca ricchissima come non mai. Ora vi racconto tutto per bene.
Anzitutto, vi dico che sto usando (con successo, almeno spero. Per ora tutto bene) il filtro LifeStraw per potabilizzare l'acqua del rubinetto. Ho comprato un oceano di acqua in bottiglia da quando sono partita, perchè sudo tanto, fa caldissimo umidissimo, bevo come una volpe cammellata e il sistema idrico qui non distribuisce acqua potabile (ma proprio no. E' molto pericolosa per batteri, spore e microorganismi patogeni). Non ne posso però più di uscire anche di notte a comprare acqua. E' una cosa incredibile per noi che non siamo abituati, e abbiamo l'agio e la fortuna di poter aprire il rubinetto e bere. Qui capita di continuo di essere in camera, a letto magari, e di dover proprio uscire, vestirsi, mettersi le scarpe e camminare 500m, 1km, per trovare acqua. Non oso immaginare cosa significhi dover fare decine di kilometri, come capita in diverse parti del mondo... In ogni caso, sta cannuccia coi filtri sembra funzionare. Se non evaporo in una scoreggia acquosa marrone entro 2-3 giorni, la diamo per approvata.
Stamattina me la prendo comoda, oggi ho poco da pedalare e tanto da godermi. La colazione inclusa nei 7 euro a notte dell'hotel è ben degna: tè, bananine e una selezione di piatti cambogiani. Opto per un riso saltato con verdure, che fa sempre la sua parte come carico di carbo.
Studio un po' le tracce, intanto, e decido di seguire quello che, informalmente, viene chiamato il Grand loop, o tour, di Angkor. E' un anello di circa 40km che parte da Siem Reap e vi ritorna, dopo aver toccato il perimetro dell'intero sito archeologico, con accesso a tutti i templi maggiori. Ho visto i principali ieri a piedi, per bene, con la guida. Oggi ne visiterò solo alcuni, mentre gli altri lascerò che mi incantino così, dallo sfondo, osservandoli mentre pedalo.
Mi porto una borsa vuota, con solo le catene per legare la bici (ci sono parcheggi custoditi dai bigliettai o dai negozianti dei baracchini di cibo e souvenir fuori da ogni tempio) e tanta acqua. Crema solare, Autan, guida e mappa. E un outfit ridicolo per pedalare, ma necessario per rispettare lo stringente dress code di Angkor: t-shirt a manica non troppo corta e pantaloni lunghi bracaloni. Passo dal caotico centro di Siem Reap e dai mercati, e pure dal monumento che ricorda la guerra contro il Vietnam.
Un dettaglio particolarmente apprezzabile di questo grand tour di Angkor è che è proprio pensato per essere fatto anche in bici, che vengono noleggiate ovunque, con tanto di guida pedalante. Ergo, la strada, comunque mai troppo trafficata, è affiancata sempre da pista ciclabile. In città è asfaltata e spesso sul marciapiede. Nel sito è a tratti sterrata, su sentiero piacevolissimo tra gli alberi della giungla. Non di rado vi si incontrano famigliole di local che fanno picnic con grandi tappeti e amache, frutta e famiglie numerosissime di bimbi.
Dopo aver raggiunto il sito e scattata la foto di rito di Rita e Signorina Felicita, costeggio i grandi fossati e i numerosi, giganteschi laghi artificiali che completano le architetture dei templi; se ne coglie la precisa, geometrica grandiosità solo vedendoli dall'alto.
Quando si raggiungo i templi, bisogna far scansionare agli addetti il QRcode del biglietto, e lasciare la bici nei luoghi indicati. Ecco il Prasat Kravan, di culto hindu, del 921, con le sue cinque torri di mattoni, con Vishnu rappresentato nel momento in cui, con tre passi, si impossessò del mondo. E' fuori mano rispetto agli altri perchè non fu commissionato dalla famiglia reale.
Poco oltre si trova il Banteay Kdei, imponente monastero buddista del XII secolo, circondato da 4 ordini di mura concentriche, ciascuno con porte dove garuda sostengono i 4 volti, motivo ornamentale amatissimo qui. La costruzione si dimostra frettolosa, ma, come il suo doppio Ta Prohm, ha il fascino unico di esser stato in parte rimangiato dalla lussureggiante vegetazione; radici e tronchi sono perfettamente fusi a portali, statue e rilievi; le pietre sparse, coperte di muschio e liane, richiamo quella contraddizione tra alto e basso, creazione fuori dal tempo e ritorno alla terra, al disfacimento, alla polvere... Da cui trae forza nuova vita nella sua forma muta, quella vegetale. Muta come la pietra, come le labbra di tutti questi dei. Ma presente e viva.
Qui arriva anche lo Sra Srang, un bacino di acqua di 800x400m riservato al re alle sue consorti. Oggi è in buona parte immerso nella giungla e ci sguazzano pacifici e timidissimi bufali d'acqua. Un po' mi stupisce che ci siano animali al pascolo qui, ma in fondo no, è normale. Compare anche un piccolo maiale nero dalle lunghissime orecchie. Normale, perfettamente normale.
Mentre torno sui miei passi, sento delle voci familiari, e distinguo parole in italiano... Ma dai, sono Sabina e Giovanna, la coppia con cui ho affrontato la fortunuosa traversata del Tonle Sap e dei villaggi galleggianti! Mi raccontano che quel giorno, quando io poi son partita in sella, loro hanno dovuto aspettare a lungo che un fuoristrada le venisse a recuperare. L'auto poi le ha lasciate a un parcheggio di tuktuk, dove si sono caricate sull'ennesimo mezzo, pe arrivare a sera Siem Reap. In breve, ci ho messo molto meno io, pedalando nella polvere senza traccia... Bene che siam tutte sane, salve e in pieno godimento di Agnkor, comunque! Loro pure stanno facendo un giro in bici, con la guida, e stanno apprezzando molto pure il pedalare. Non me lo devono proprio spiegare, io son felice come una Pasqua!
Pedalando torno torno al sito, si ha sempre un lato rivolto all'acqua. La quantità di bacini e piscine e vasche e laghi artificiali è stupefacente! Tagliare, spostare e scolpire la pietra è complesso, ma anche governare l'acqua, e darle una forma, non è banale.
Raggiungo quindi Pre Rup, tempio-montagna in mattoni, con le sue cinque torri, probabilmente usato come crematorio reale. Pre Rup significa infatti "rotazione del corpo" e fa forse riferimento all'uso di disegnare la sagoma della salma nelle ceneri.
Poco avanti, perchè qui è tutto un fiorire di incanto e si pedala a bocca aperta, e non solo per il caldo che mi rende unta e mi fa cascare le braghe, si trova il Mebon Orientale, altro tempio induista perfettamente fuso alla natura circostante. Un tempo si trovava su un'isola nel bacino antistante, che, però, oggi viene tenuto in parte asciutto.
All'altezza del vicino Preah Neak Poan decido di fermarmi un attimo a bere qualcosa di fresco, perchè sto per collassare. Approfitto della piacioneria di una ragazza che attende i visitatori al parcheggio e invita poi al sui ristorantino in lamiera giusto difronte. Mi soffermo su un dettaglio che ho finora omesso. Ogni volta che mi fermo, anche solo per fare una foto, o passo davanti alle bancarelle, vengo, come tutti, presa un po' d'assalto dalle venditrici (quasi tutte donne), che con voce querula invitano a guardare, comprare, sedersi, consumare. A tutte risposto garbatamente e sorridendo che sono a posto, quando voglio declinare. Ma non finisce qui. Di solito segue una conversazione in khmer-english, misto a parole di altre lingue europee (spagnolo, francese) e gesti, perchè queste fanciulle sono CURIOSISSIME di capire chi io sia, cosa stia facendo. Le domande sono: da dove vieni, hai marito/famiglia/figli, perchè sei sola, che viaggio stai facendo (con annesso gran stupore alla risposta), quanto costa portare la bici in aereo, che lavoro faccia, se so riparare i guasti e sono autonoma, se non ho caldo. E si instaura sempre un curioso dialogo dove, dopo aver capito che non sono una cliente, turista pagante o cafona, gentile e anonima, divento una donna come loro, ma tanto diversa, e quindi interessante. Chiedo anche di loro, se siano di lì, se apprezzino quel lavoro, se abbiano famiglia... La risposta è sempre un triplo sì. Società tradizionalista, persone che non hanno mezzi per spostarsi da dove son nate, contente però di vivere in tempi più sereni e meno difficili del passato recente. Grandi sorrisi, un senso generale di gratitudine. Incontri preziosi: viaggiare aiuta a mettersi da parte ed evitare che il nostro punto di vista diventi misura di tutte le cose. Grazie ragazze, è stato un piacere conoscervi, anche se solo per così poco tempo!
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le figlie di una di queste signore mangiano e pasticciano un libro ("fanno i compiti") e son carinissime |
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il parcheggio |
Il Preah Neak Pean ha la particolarità di trovarsi su un'isolotto al centro di un lago artificiale, collegato con un ponte di legno; il paesaggio è incredibile, sospeso tra azzurri e verdi, in un continuo gioco di riflessi di acqua e cielo che ricordano certe scene de La città incantata. Contribuisce l'arazzo di fiori di loto e ninfee che decora la superficie placida, tra ampie foglie che si muovono al vento e punti di rosso e rosa dei fiori. Qui l'aria stessa invita a meditare e si percepisce un fluire mistico del tempo e della corrente... Che viene interrotto dai canti in coro di una classe in uscita didattica di ragazzi di 10-11 anni, tutti vestiti con una divisa sportiva rossa. Sono casinisti ma assai simpatici!
Al centro dell'isola si trova un tempio buddista del XII secolo che, per sè, ha dimensioni ridotte, ma è circondato da uno spettacolare complesso di vasche e piscine, da cui emergono statue di naga, cavalli e figure mitologiche. I cannelli da cui esce l'acqua sono a forma di testa umana, leonina, elefantina, e il luogo era deputato a riti di purificazione.
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cosa offrire sull'altare? Loto, cocco, incenso, banane, banconote, longhan e un intero pollo arrosto |
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iguana paracadutista |
Mi fermo un po', all'ombra, sulle sponde del lago, ad ammirare tutto questo splendore indicibile. E' quasi troppo, ho bisogno di un momento per respirare piano, socchiudere gli occhi e farlo sedimentare tra le costole e le ciglia.
Anche perchè ora ci si prepara al gran finale. Passerò di nuovo davanti ad Angkor Thom e Angkor Wat. Questa volta in bici, pedalandoci in mezzo.
Prima, incappo in un gruppo di scimmie. Qui dal Covid le hanno molto allontanate, impedendo che proliferassero i venditori di frutta e snack da offrire agli animali. Il che è un bene, in primis per le simiae stesse. Infatti sono schive e vivono nel folto della giungla, dove i turisti non passano. Ma a volte qualcuno getta cibo e allora, ovviamente, si avvicinano. In questo caso è una famiglia di indonesiano su pullmino, tutto ultraislamortodossi. Lanciano frutta e pane e richiamano una decina di scimmie, tra cui diversi cuccioli. Una, che pare il capobranco, va a prendersi direttamente il cibo dalle mani (che coraggio il signore che glielo permette... Io proprio ieri ho sognato di dover interrompere il viaggio per una mano putrida post morso di gibbone... Mentre mia mamma, sempre nel sogno, sminuiva il problema invitandomi a disinfettare e proseguire... In realtà avevo solo le dita schiacciate tra il letto e il muro). E' interessante soprattutto vedere l'interazione tra scimmie e cani randagi, qui piuttosto numerosi. Si contendono il cibo ma sono le prime ad andarsene, scappando sugli alberi, intimorite da ringhi e latrati.
All'ennesimo controllo dei biglietti (quanta gente lavora, considerando che davanti a ogni tempio, e sono centinaia, ci sono 2-3 persone almeno dello staff), mi viene chiesto se la bici sia mia. Sì! E si intavola una breve discussione sulla bellezza del luogo. Ringrazio in khmer. Arkun. Grazie. E son contenti e se la ridono.
Eccoci qui, alla ciliegina sulla torta. Entrare e uscire pedalando da Angkor Tom, con le sue porte dai quattro volti, con i suoi ponti con i guerrieri e i naga. Iconica, grandiosa, simbolo di arte e avventura a un tempo. Lascio che la bici quasi si muova da sè, vado pianissimo, voglio godermi ogni centimetro di questo luogo, di questo momento surreale.
E da ultimo sua maestà l'Angkor Wat, dopo esser stata raggiunta e salutata da un ciclista local che si rifiuta di mostrare il biglietto, dicendo qualcosa tipo "abito qui". Che sia un discendente delle famiglie imperiali khmer? Che sia il figlio di Pdor?
Me ne esco così, sorridendo, e non per la foto. Non è una posa. Questo sì che è un giro in bici. Questa sensazione di pedalare nella storia unica, nella meraviglia totale, non si dimentica. Mai.
Voi direte: dunque da lì si chiude il tragitto in bellezza per tornare in hotel? Sì, e no. Perchè, di strada, c'è un'altra cosa che mi interessa, che ho preferito alle molte altre che Siem Reap offre: l'Apopo visitor center. Ho prenotato un tour mezz'ora fa, quando stavo uscendo dal complesso di Angkor, perchè bisogna scegliere lo slot orario. Si tratta di un centro di addestramenti di ratti del Gambia, quasi ciechi, ma dall'olfatto sensibilissimo, capace di individuare le mine antiuomo. Sono addestrati proprio a questo scopo, considerando che la Cambogia ha ancora ettari ed ettari di campi minati che fanno saltare gambe e braccia ad agricoltori e bambini che giocano nei boschi, quando non li ammazzano. In effetti di persone mutilate se ne vedono in giro parecchie. Nel 2020 uno dei loro ratti, ora defunto dopo onorata pensione, è stato insignito della medaglia d'oro PDSA, equivalente della Croce di San Giorgio.
Il tour, di un'ora, serve a presentare il progetto, spiegare il problema della presenza di ordigni inesplosi (motivo per cui qui è altamente sconsigliato muoversi fuori da strade e sentieri, anche di pochi metri, anche nei siti archeologici e nelle zone abitate), e come i ratti vengano addestrati e agiscano.
Ci viene proprio data una dimostrazione pratica: gli addestratori, a coppia, camminano ai porti del rettangolo di terreno da bonificare, e il ratto si muove da uno all'altro, lungo una corda cui è agganciato con una pettorina con anello. La corda è segnata come un metro, così che, quando il ratto si ferma e scava, è possibile avere il punto esatto del presunto ordigno. Quando il ratto trova l'esplosivo, viene premiato con banane e arachidi. Lavorano circa 3 ore, non oltre, e di mattina prestissimo. Vengono protetti su coda e orecchie con crema solare. Sono dolcissimi, oltrechè utilissimi!
Il punto più alto è inevitabilmente quello in cui li si può prendere in braccio... Pesano un paio di kg, si arrampicano sulle spalle e leccano le dita! Prima, però, bisogna lavarsi: soffrono se entrano in contatto con repellenti per insetti, crema solare non specifica, lozioni e profumi.
La visita prosegue con la visione di video che raccolgono le testimonianze di vittime delle mine, e di famiglie i cui campi sono invece stati bonificati. Il progetto minefields to ricefields prosegue e serviranno ancora anni per completarlo, ma è ben avviato. Il proventi dei biglietti di questo tour contribuiscono, pure perchè in parallelo ci si muove von i cani, i metal detector e altri macchinari. Davvero, anche questo tassello del grande mosaico della storia cambogiana risulta incredibilmente interessante e prezioso!
Una giornata così assoluta non può che concludersi con una bella cenetta, che acquisto sulla via del ritorno in hotel. Abbiamo: yucca e patata dolce bollite, tofu speziato, e l'hotpot autoscaldante che mi tenta da un po' (lo avevo visto in un video di Space Valley). E' un hot pot fai da te, dove l'acqua non si scalda a parte, come per i noodles istantanei, ma con una reazione chimica di uno dei molti sacchettini presenti nella confezione che, aperto e messo a contatto con l'acqua, esplode di calore. Posso dire? Grande intrattenimento e anche buono il risultato, promosso! Unica controindicazione: se avessi aperto male la confezione o letto male le istruzioni, altro che ratti di Apopo, sarebbe saltato per aria tutto!
Si chiude dunque questa giornata densissima di bellezza grande. Domani riparto. Avrò ancora tre tappe e mezza in Cambogia, tra templi remoti e campagna spalancata. Saranno giorni meno urbani, con meno comfort, e strutture al minimo, ma va benone alternare. Poi verrà il momento di entrare in Laos, attraverso quella che definiscono la frontiera più corrotta dell'Asia. Pare che gli agenti non restituiscano il passaporto se non dopo essersi fatti pagare una tangente, di solito di pochi spicci, ma non sempre. Chi si rifiuta, viene lasciato ad aspettare ore al sole, o in stanzini pieni di calabroni, viene minacciato e messo in difficoltà in tutti i modi... Anche perchè pare che la polizia sia in accordo con gli autisti degli autobus, fondamentali per chi è a piedi perchè la dogana si trova in un luogo remoto e isolato, lontano dalle città. Insomma, vedremo come va con questa tea tax, la tangente per il tè per i poveri poliziotti che si annoiano tanto in quel romito varco...
4/8
Siem Reap-Koh Ker
100km
Pronti, con una colazione che urla colonialismo francese, tra baguette e omelette...
Partenza, con la chiusura delle borse e il carico in un caldo già feroce, al punto che una ragazza dello staff, impietosita, mi regala una bottiglietta di acqua fresca, quando viene a sapere dei miei programmi di viaggio...
E via. On the road again. In sella per le vie caotiche di Siem Reap, ma presto fuori dall'abitato, dai mercati e dai mega resort in periferia. Passo dal tempio Preah Ko, sempre del complesso di Angkor, ma il mio biglietto da 3 giorni è ormai scaduto, e quindi mi limito a sbirciarlo tra coloratissime bandiere buddiste e rami folti.
Imbocco, con un leggero, benedetto vento a favore, una costola della statale che porta all'aeroporto di Siem Reap. E' una strada ampia e nuova, liscia come l'olio, e completamente deserta. Intorno, oceanico verde e cieli immensi. I primi kilometri scorrono così in fretta sotto alle ruote, e la giornata promette bene.
Fino a 50km arrivo con la scorta di acqua della partenza, ma, quando giungo al Prasat Beng Mealea, ultimo tempio del gruppo di Angkor (fino a pochi anni fa completamente invaso dalla giungla; è del XII secolo), devo fermarmi. Fa caldissimo, mi esplode il cervello e gli occhi scoppiano come pop-corn. Mi servono liquidi e ombra. E per questo c'è il baracchino tuttivendolo fuori dal sito, che fa anche da benzinaio, con le sue belle bottiglie di miscela. L'odore è così pungente che, dopo poco, devo lasciare la panchetta accanto alla proprietaria, che sbuccia fave mentre è tutta assorbita da rumorosissimi TikTok.
Riparto sulla strada 66, la vera Route 66 cambogiana; era una antica via angkoriana che collegava i due templi incrociati oggi al Preah Vihear, altro sito sacro che si trova in linea, ma più a nord, proprio al confine con la Thailandia. Per il vero, è proprio uno dei motivi dei gran mal di pancia che gonfiano il malcontento tra i due paesi da anni, e ha condotto ai disordini alle violenze attuali. Infatti nel 2008 è stato dichiarato secondo sito Unesco di Cambogia, dopo Angkor, e, siccome la proprietà del territorio è da secoli contesa con la vicina siamese, questo riconoscimento (che porta prestigio e tanto denaro) ha esacerbato le tensioni intorno agli anni '10 del Duemila. Da allora la presenza di militari nella zona è cospicua; sarebbero stati dispiegati per proteggere i turisti, ma pare chiedessero soldi e sigarette. Non stupisce ora che di nuovo, per una serie di stupidaggini, fraintendimenti e goffe mosse politiche dei governi, la situazione sia di nuovo precipitata.
La Route 66 porta nel cuore di una delle più vaste, remote, sonnolente e povere province del Paese; quest'area è davvero fuori dal mondo anche per gli standard locali, non ultimo perchè rimasta sotto il controllo degli Khmer rossi fino al '98 e infestata, ma davvero, di campi minati (il metodo intelligentissimo usato dai Rouge per barricarsi qui e opporsi all'ingresso delle forze governative); i trasporti si sono sviluppati un po' solo in concomitanza delle prime tensioni con la Thailandia, per agevolare l'arrivo di soldati e mezzi, pensate. Che bel motivo per costruire strade! Posto che qui il paesaggio di campagna va guardato dalla strada, senza mai uscirne, se no il rischio di saltare per aria è davvero concreto, intorno si apre un panorama tanto semplice quanto maestoso: aree di giungla, campi coltivati a riso o arachidi e colline scure sullo sfondo; l'azzurro immenso e il verde sono graffiati da sottili linee rosse, i sentieri di terra e polvere che si vanno a perdere nel folto della vegetazione. I villaggi sono pochi, sparsi, e minuscoli, fatti di quattro baracche di legno e lamiera dove razzolano bimbi e pollame, mentre i cani dormono a bordo strada, tanto di veicoli non ne passano.
A un certo punto succedono due cose che mi fanno preoccupare e non poco; da un lato, convogli militari composti da una decina di mezzi, di cui solo alcuni riconoscibili come tali (ma pure sugli altri ci sono soldati) passano a tutta velocità, anticipati da una sirena, e corrono a nord, verso il confine, nella mia stessa direzione. Sono auto blindati e pick-up, jeep e normali furgoni carichi di gente in divisa e armata. Dall'altro, che muovono lentamente in direzione opposta, inizio a vedere carri di legno trainati da motozappe e trattori, stipati di gente. Non mi ci vuole molto a capire che sono famiglie sfollate dalle aree a rischio sul confine Thai.
Ne vedo uno, due, dieci, centinaia... Sono un fiume ininterrotto di umanità dolente costretta a lasciare la propria casa e la propria vita in fretta e furia, e a trasferirsi a sud. Immaginetevi: domani passa un'auto dell'esercito nelle vie del vostro paese e, con un altoparlante, vi comunica che avete 3 ore per raccogliere i vostri cari e le vostre cose, solo quelle che potete trasportare in autonomia, velocemente, e lasciare la vostra abitazione. Per quanto? Non si sa. Si potrà tornare, sarà depredata, distrutta? Non si sa. Ovviamente vi viene imposto di andarvene, ma non vi viene data una alternativa decente: queste persone non hanno tende, campi profughi o strutture loro dedicate dove trasferirsi, nell'attesa. E non hanno neanche agio economico: sono pastori e contadini di una delle più povere regioni di un Paese già economicamente poco sviluppato, non possono ceto vivere in albergo per settimane. Quindi eccoli qui, con i loro carri, come fosse un esodo di secoli fa, solo che al posto del cavallo o del bue c'è la motozappa. A guidare di solito è il capofamiglia, affiancato da un fedele canetto o da una capra. Nel cassone si intravedono testoline di bambini, donne e anziani. Il carico poi è ridotto all'essenziale: una bicicletta, qualcuno addirittura il motorino. Sacchi sfilacciati di cibo, riso, verdura e frutta. Valigie, o più spesso sacchi con i vestiti e qualcosa per lavarsi. Cuscini e coperte buttati alla rinfusa, perchè sono giorni ormai che vivono così, senza un tetto sulla testa. Gli ultimi son sempre ultimi, nella storia, e han tutti lo stesso volto, pur con centomila facce diverse. Come i volti di pietra sui templi di Angkor. Questa gente però ha gli occhi aperti e, pur sorridendo e prendendo con rassegnata calma la situazione, non sono occhi felici. Si percepisce il senso di sospensione, di attesa. Tanti telefonano. Cercano forse aiuto da amici e parenti, cercano di capire che ne sarà di loro, per quanto ancora dovranno stare lontani da casa, in quella condizione allucinante, con anziani e neonati costretti ad adeguarsi.
Il fiume di sfollati che fugge in direzione opposta alla mia e i convogli militari che invece mi precedono, mi portano a pensare che sia successo qualcosa di nuovo, che mi sono persa. Magari uno scontro nella notte, magari una dichiarazione di ostilità... Fino a ieri sera tutto era in stallo: niente più colpi esplosi, ma tensione alle stelle. Cerco di capire, di chiedere a Google. Ma internet spesso non prende e intorno ho alberi muti e villaggi così piccoli che quasi non li si vede. Chiedo l'aiuto da casa, a Gigi, che mi rassicura. Certo, il fatto che io stia pedalando proprio in direzione delle zone calde non tranquillizza, ma non è successo nulla di nuovo. Queste sono le famiglie allontanate nei giorni e nelle settimane scorse.
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il banco della macelleria di un villaggio, pieno di interiora e testine di mucca, e mosche |
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IL negozio di un altro paesino |
Dopo aver superato una serie di villaggi rurali minuscoli, dove, se va bene, ci sono una manciata di abitazioni e un negozietto marcio che vende tutto, incrocio una zona boscosa dove alcune carovane di sfollati hanno trovato rifugio. Hanno parcheggiato i carri tra gli alberi o a bordo strada, e si sono accampati, a gruppi di famiglie, probabilmente coloro che vengono dallo stesso paesino. Ci sono amache appese e fornelli improvvisati dove le donne collaborano per cucinare per tutti; bambini ovunque, sorridenti, che mi salutano, forse ancora inconsapevoli di ciò che stanno subendo. Mi colpisce la scena di un gruppo di ragazze poco più che adolescenti che sta cercando di lavarsi un po' in un fiumiciattolo fangoso; magari non ne hanno avuto la possibilità per giorni e ne soffrono. Cercano di tenersi a vicenda i teli stesi per proteggersi da sguardi indiscreti, e sono tutte imbarazzate e in difficoltà, con in mano una saponetta e una spazzola. Saremmo messi tutti così, nella stessa condizione, se non peggio. Mi si stinge il cuore.
Raggiungo l'incrocio tra la 66 e questa strada rossa come il sangue
Gli sfollati scendono tutti da qui; infatti, più avanti, ne incontrerò pochissimi. Questa via arriva direttamente dalle zone degli scontri. E' la via di fuga, ma anche quella della vergogna. Con tutto quel che i cambogiani han passato nel secolo breve, che per loro è stato brevissimo ed è diventato leggermente meno feroce solo negli ultimi 20 anni, davvero suona normale voler ancora giocare alla guerra? Naturalmente non è un'accusa nei confronti di queste povere anime sbattute fuori di casa e costrette a vagare in attesa di nuovi ordini, con le loro famiglie sulle spalle. Penso piuttosto ai Governi, che sembra non si rendano conto. Si impone lo sgombero, migliaia di persone sfollate, morti, campi al macero, case depredate. "Sacrifici necessari". Vite rovinate da ricostruire per l'ennesima volta.
Ci penso, mentre la strada sale e scende tra morbide collinette verdissime, sotto alle nuvole basse. Le foglie frastagliate dei banani e l'erba spettinata dal vento alleggeriscono un po' i pensieri, che si disperdono nell'orizzonte vasto.
Incrocio una pagoda, che, prima di vedere, sento. I monaci, infatti, come capita spesso da queste parti, trasmettono in filodiffusione il loro salmodiare e dei discorsi che, credo, siano una sorta di predica. Raccontano la loro antica e alta filosofia al vento, alle radici e alla terra, perchè qui intorno, ad ascoltare, non è rimasto nessuno. E' surreale sentire queste voci nel grande silenzio, nello spazio aperto e desolato di queste campagne remote.
Nell'ultimo tratto il caldo mi mette davvero a dura prova. Ho i vestiti così roventi che, quando la pelle li sfiora, bruciano. Il coccolone è vicinissimo, ma mancano ormai pochi kilometri e voglio mettermi al fresco in una stanza. Anche perchè che la stanza ci sia è una pia speranza data da un segnalino rosa con il simbolo del letto su Google Maps. Qui certo non ci sono strutture presenti online, prenotabili, con recapiti... Sono alloggi in famiglia e case private riadattate, più o meno legalmente. Passo per campi e campi di verde bottiglia su terra rossa.
Alla fine eccomi a Srayang, il paesino moderno sorto fuori dalle antiche rovine di Koh Ker, capitale khmer dal 928 al 944 sotto la guida di un sovrano usurpatore (o, quantomeno, non riconosciuto, per quanto capace di dare grande slancio al regno e costruire qui edifici di gran pregio). Il sito, essendo in una zona baluardo degli Khmer rossi fino al '98, è rimasto inaccessibile ai turisti fino a pochi anni fa, tanto più che è in un'area ad altissima densità di mine (ancora adesso è molto pericoloso uscire dai sentieri, anche di pochi metri).
Proprio per l'apertura del sito ai visitatori, il paesino limitrofo è cresciuto tantissimo negli ultimi anni; pensate che su StreetView, non aggiornatissimo, è ancora una strada polverosa con quattro baracche e due case. Ora invece ci sono un paio di grandi resort di lusso in periferia, e un paio di guesthouse in case private, in centro. Mi affaccio alla prima di queste, dopo aver attraversato un bel cortile con piante e fiori, dove mi accolgono due bambine festanti che mi corrono incontro tra sorrisi e manine che salutano, per poi sparire tra urletti e corse dietro a lenzuola e asciugamani stesi.
La camera con ventilatore, a 8 euro, è pulita e perfetta per quel che mi serve. E ci sono pure due bottiglie di acqua fresca, la cartaigienica e lo scaldabagno! Una sciccheria, son qui 'ma 'n padraba' (come un padre abate) direbbe Gigi. Sono così brasata dal caldo che, prima della doccia, devo appoggiarmi un attimo al letto (stendendo l'asciugamano altrimenti, sporca come sono, lascio impressa la sacra sindRoMe sul lenzuolo). Il tutto si risolve in due ore di sonno profondo, con tanto di sogno horror: qualcuno è entrato nella stanza mentre io sono lì nuda... Ma è un fantasma, che infesta la guesthouse, e trasforma tutti in maschere spaventose insanguinate e deformi... E' un antico spirito, tutti, bambini in primis, ne conoscono la presenza, ma lo rispettano e venerano. Mi sveglio di soprassalto, con il cuore in gola. Capisco che era un sogno, perchè la stanza è leggermente diversa. Troppe letture e immagini sugli orrori recenti della storia locale stanno forse emergendo così, a livello inconscio. Doccia, un po' di preparazione per le prossime tappe e, prima che sia buio del tutto, esco per recarmi all'unico ristorante non baracchino-street food del paese.
Le strade non sono illuminate, ma non mi sento a disagio a muovermici da sola. L'unico rischio è quello di calpestare inavvertitamente i cani randagi che già dormono acciambellati nella polvere, o di non essere visti dai motorini che escono a bordo strada per comprare spiedini o frutta alle bancarelle. Certo è un luogo che a raccontarlo non si capisce. Camminarci così me lo fa respirare tutto. Sulla strada affacciano i negozi, non le case, che si trovano un poco più indietro. I negozi sono parallelepipedi di lamiera e legno marcio, aperti da un lato, verso la via. Per chiuderli, si tira una rete chiusa da lucchetto, o pezzi di lamiera usati come porte. La merce sta tutta alla rinfusa, impilata, accatastata. Nei pochi frigoriferi, oltre ai prodotti confezionati, ci sono pezzi di cibo, brandelli di carne, verdure appassite e contenitori che fanno puzza di marcio. I venditori si scocciano pure del mio cercare con lo sguardo e non trovare! E poi ogni cosa è coperta da polvere, terra o fango. I vestiti, gli alimenti, gli occhiali. Tutto. E per kilometri, questo è il massimo che si possa avere, per il resto è giungla o campagna. Pensate vivere qui, dove ogni mezz'ora va via la corrente per blackout generalizzati e la faccia più nuova che vedi è quella di tuo cugino porcaro che passa col furgone una volta a settimana. Pensate farlo ora, quando tutti hanno in mano uno smartphone e possono sapere come sia il mondo fuori, altrove. Certo qui non manca nulla, i bisogni essenziali sono tutti soddisfatti. Ma è un orizzonte tanto chiuso, tanto angusto... Soprattutto considerando che non so quanti, qui, abbiano i mezzi per poter decidere liberamente di andarsene, ed eventualmente, poi tornare.
Elaboro questi pensieri nei 500 metri che separano la guesthouse dal ristorante. Noto con piacere che ci sono diversi local ai tavoli, e che tanti si accostano in motorino o carretto e prendono da asporto. Mi accodo sotto lo sguardo incuriosito dei clienti, molti soli (sono contadini di ritorno dai campi o autisti di furgoni carichi di patate o sabbia; e poi c'è una signora con il camice, non se infermiera o dentista o farmacista). Guardano video sullo smartphone a tutto volume. Mi piacciono i luoghi dove culturalmente non è disdicevole uscire a cena da soli. Mi portano subito una teierona colma di tè verde freddo, da versare in un bicchiere in cui sta, solo, in piedi un blocco di ghiaccio grosso come l'iceberg del Titanic. Ho letto che il ghiaccio qui è sicuro, perchè non viene fatto con l'acqua del rubinetto, ma in fabbriche apposite, con acqua depurata, e viene venduto al kg, secondo le buone norme insegnate dai colonizzatori francesi (che all'ennesimo cagotto, si saran decisi a migliorare la situazione per tutti). Il menù è in khmer, cifre comprese, ma Google lens ormai risole tutto. Tre quarti dei piatti sono per me improponibili: carni di animali che non voglio mangiare, insetti, tartaruga... Mi risolvo con un noodles saltato con verdure. Quanddo arriva, scopro che contiene i resti di tutte le bestie del mondo, ossa e interiora comprese. Li ribattezzo "noodles all'Arca di Noè" e non ne lascio neanche una briciolina. Non sono cattivi, solo inquietanti. Spaghetto, tè e acqua mi costano ben 2,5 euro.
Rientrando, per cinquanta centesimi di euro, compro anche una borsa colma di frutta, dragon fruit e longan, che mi fanno da dolce mentre scrivo in questa postazione poderosa. Sullo sgabello di legno massiccio, che pesa una tonnellata, vedete una coperta. Ecco, è necessaria perchè, durante la visita a piedi ad Angkor Wat, sono scivolata di culo per mezzo metro, pestando l'osso sacro sulla nuda roccia. Sangue, crosta, ematoma, e dopo quasi tre giorni mi fa ancora male a star seduta. Una vera deficiente!
Domani supererò i 3000km, i 40 giorni dalla partenza da casa e sarà anche il penultimo giorno intero in Cambogia. E' stato un incontro breve ma ricchissimo, e quasi mi dispiace già andarmene...
Koh-Ker-Chhaeb
111km
Dormo profondamente, benissimo e mi sveglio riposata come capita di rado. Tanto è presto e sono già presente che, prima di uscire, dopo aver bevuto un caffè freddo in lattina preso ieri sera, scrivo una parte del blog. Ieri ero stanchissima e non ho finito. Poi, intorno alle 9.30, porto fuori tutti i bagagli, il cappello vietnamita (ormai la missione è riportarlo ad Hanoi e rifare una foto simile a quella della partenza, per chiudere il cerchio), l'acqua, e carico la bici, che ha passato la notte legata in un capannone nel cortile.
La tappa di oggi si racconta in fretta, perchè scorre liscia e diritta su una strada con grandi campagne, grandi foreste, una sola città e pochi paesi. Il vento a favore, inoltre, mi consente di tenere una media alta per i miei standard in viaggio a pieno carico, quindi in poco più di cinque ore, più qualche sosta, porto a casa gli oltre 110km di oggi. La strada di ieri, la 66, oggi diventa la 64, e per un tratto la 62. Se guardate la mappa, sembra una linea quasi retta che corre sull'asse est-ovest. In realtà è un serpente dalle infinite spire, curve e curvette, talmente piccole, però, che le si percepisce solo seguendola.
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una minimoschea |
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scuola-pagoda in costruzione |
Non c'è traffico, se non qualche contadino in motorino o sul carro che percorre pochi kilometri tra un sentiero e una capanna, o i bambini in bici e a piedi che sciamano fuori da scuola all'intervallo, per correre sulla strada a comprare una salsiccetta allo spiedo o un sacchettino di arachidi. Di sfollati in movimento ne vedo pochissimi. In compenso, mi imbatto in ben due campi profughi organizzati. Si trovano negli ampi cortili del tempio di due paesi limitrofi. Dentro alle mura si intravede una tendopoli improvvisata, con teli tesi tra i carri e amache appese sotto agli stessi, ombrelloni e una gran massa di gente. Fuori ci sono gazebo con militari che si annoiano al telefono, con i loro occhiali da sole specchiati e l'aria di chi sa di avere più potere degli altri. Ci sono anche punti di distribuzione del cibo. Vedo un gruppo di monaci buddhisti e suore che vanno in giro con sacchi di pane. Intravedo anche quello che ha tutta l'aria di essere un traffico losco tra un tizio che vende stecche di sigarette e un poliziotto che le rivende a pacchettini ai rifugiati; l'uomo in divisa ha un ghigno troppo largo e un gran mazzo di banconote, mentre quelli in coda per comprare un'aria eccessivamente dimessa. Chissà. Poco oltre scena simile, ma meno evidente. Ingresso al tempio, statue, portale... Mi fermo a fotografare, senza sapere che, fuori dalla vista, ci sia un campo. Sbuca fuori un agente che inizia ad urlarmi versi, forse pensa che io sia uscita da lì senza permesso... Per fortuna altri due, che mi hanno vista arrivare, gli spiegano tutto e quella brutta faccia da culo con le mostrine sparisce di nuovo nel suo gabbiotto a esercitare un potere che non dovrebbe avere (perchè i versi, a me, non li fai. Oh).
Decido di proseguire spedita per un po' e lasciare che il verde intorno, spettinato da Eolo, alleggerisca i pensieri.
Raggiungo la città di Preah Vihear, che si trova a 55km dei 110 della tappa, esattamente a metà. Dà nome all'immensa provincia rurale qui nel nord, e anche al tempio della discordia tra Cambogia e Thailandia. Per sè, è un tale buco di culo che, per trovare una panchetta all'ombra per fare una pausa, devo andare avanti quasi altri 5km, con la fretta di sedermi all'ombra a mangiare un gelato che, con il caldo che farà, di certo si starà squagliando (e invece quasi no). La location in cui trovo un posto tranquillo per fermarmi è così squallida che merita foto e approfondimento: si trova tra capannoni decrepiti, che accolgono qualche macchina agricola e spazzatura, e strade polverose e piene di immondizia incastonata nel fango (tra cui un'inquietante testa di bambola). La seggiolina con tavolo è dietro ad una vecchia pressa da street food per estrarre il succo della canna da zucchero, e penzola accanto un'amaca triste che pare un patibolo. Intorno, nell'ombra, ci sono persone che pisolano dondolando sulle loro amache, e ogni tanto passa un remork del fruttivendolo con gli altoparlanti che pubblicizzano la merce, e tutti i cani ululano e latrano. Ma l'ombra è fresca, il gelato integro e si sta bene.
Procedo spedita, e la campagna, a tratti sostituita da marcite o foresta incolte, diventa uno sfondo sfocato verde e azzurro, interrotto qua e là da un bufalo che sguazza nel fango, facendo delle gran bolle come Shrek nella sua palude.
I villaggi sono minuscoli agglomerati di casette, spesso seminascoste tra le palme e i banani. Ogni volta che passo, sento delle voci di bimbi che gridano tutti eccitati "Helloooo!". A volte li vedo correre fuori e salutare con la manina, a volte è solo un suono nel vento. Sempre rispondo, ed è proprio bello così.
Quando mancano solo una ventina di kilometri, vengo affiancata da un uomo in motorino che mi parla in un inglese un po' difficoltoso, ma comprensibile. Lui invece non capisce quasi nulla di quel che dico io. Lì per lì mi tornano i flashback del Merda in Vietnam, e resto un po' rigida, sul chi va' là, anche perchè mi pone domande sospette: dove stai andando, dove dormi, sei sola... Insomma, sembra il malintenzionato per eccellenza che sta cucinando la sua preda. Invece poi si rivela essere un bonaccione totale, nonchè collega insegnante di lingua khmer (alle elementari). Ha 27 anni anche se ne dimostra 30 in più (infatti non ci crede che io ne abbia 34), ha una moglie di 25 anni e già tre figli. Chiacchieriamo, per quanto possibile, affiancanti. Lui alza la visiera del casco e va pianino, io cerco di spingere un po' di più. Ha un grosso sacco di farina tra le gambe e con una mano lo tiene per non farlo rovesciare. Mi fa domande che noi consideriamo un po' personali, ma magari qui si usa diversamente. Dopo aver scoperto che lavoro io faccia, mi chiede quanto guadagno e gli viene un coccolone a scoprirlo... Ma gli spiego che in Italia la vita è decisamente più cara di qui, e i prof. non vivono nel lusso. Vuole sapere se sono sposata, perchè no, se non sia troppo tardi per aver figli, e continua a insistere per sapere dove mi fermerò a dormire. Gli rispondo di fantasia, tanto non capisce quasi nulla di ciò che dico. A un certo punto, non senza un poco di sollievo mio, mi saluta, ringrazia e se ne va. Ora, con tutto il bene, ho dato già con gli affiancamenti in motorino. Non mi lasciano serena, non più e non di nuovo ancora.
Arrivo così a Chhaeb, il paesino micro in cui devo fermarmi per forza: il prossimo con strutture è quasi 90km da qui, ovvero dove mi fermerò domani. L'ultima città cambogiana prima del confine, di nuovo sul Mekong.
Chhaeb ha solo due guesthouse, di cui una chiusa e fallita, l'altra che sembra sulla buona strada per far la stessa fine. Mi fermo in questa, la MeyMey. Da fuori sembra abbandonato. Speriamo di no, non ho alternative... Mi accolgono due bambini con la faccia tutta sporca di... Gelato? Frutta? Che mi danno il pugnetto come forma di saluto. Entro, e alla "reception" (un letto girato al contrario) sta un ragazzo a torso nudo, con spalmata una maschera viso verde che pare Hulk, e un pettine incastrato tra i capelli. Ma, senza fare una piega, mi dà la stanza. 5 euro e passa la paura. Mi fa anche portare la bici dentro, cosa si vuole di più?
Un problemino c'è sul fronte bagno: niente lavandino, niente sciacquone (sostituito dal buon vecchio secchio con bacinella che ci galleggia dentro). Niente acqua calda, solo uno spisciolino puzzolente dalla doccia. Niente carta igienica (ma quello si sa). Niente finestre, solo una ventola che affaccia all'esterno. Macchie, muffa, polvere, ed eserciti di insetti ovunque. Prima di poter prendere possesso della camera, devo sfrattarli a suon di ciabattate e Autan. Ma va bene così, in un paesino così sperso è già tanto e a me risolve la notte.
Dopo la doccia, prima di cena, traccio la tappa di domani, l'ultima in Cambogia, e inizio a sistemare il percorso in Laos. Il dislivello, nella seconda metà della traversata di quel Paese, impone grande attenzione. Sarà montagna, e montagna tosta. Non si possono fare errori.
Esco quindi a cenare. Anche qui c'è un solo ristorante vero e proprio, dall'altra parte dell'abitato. Lo percorro tutto, tra mucche che pascolano nel cortile della scuola e contadini che tornano a casa sui loro carretti. Fa ancora un caldo da esplodere, nonostante oggi abbia anche piovuto un po', a più riprese, nel pomeriggio.
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la farmacia |
Nel locale sono l'unica cliente, e tre signore si prendono cura di me con tutti i crismi. Mi portano un piatto enorme di riso saltato con pollo e verdure, di forma e dimensioni del tempio-montagna di Angkor. E ci aggiungono una spruzzata di salsina piccante della casa che, devo dire, fa il suo. Spero di non pentirmene amaramente, visto che finora non ho avuto problemi con infezioni e malanni... Me ne torno, poi, in guesthouse, ma solo dopo aver comprato una bella sacchettata di rambutan al mercato.
E così si chiude questo penultimo giorno cambogiano. Domani rivedrò il Mekong, e poi non lo lascerò più fino a Vientiane, anzi fino a Luang Prabang, già sui monti, per risalirne le correnti per più di 1000km.
👋👋👋👋👋
RispondiEliminaLe guerre come si vede lasciano tracce,qui in Cambogia le mine,nella testa dei sopravvissuti di tutte le guerre,gli incubi. Ora provate ad immaginare,una persona sopravvissuta alla guerra,che ritorna in famiglia, scossa impaurita, oppure nervosa e sempre in allerta , chissà cosa ha visto, chissà cosa ha dovuto fare suo malgrado? La traccia mentale lasciata dentro la memoria di una persona, diventa un comportamento strano, perché dopo un po' il lavoro di soldato ,come tutti gli altri lavori, diventa deformazione professionale. Come per uno spazzino in vacanza che capisce tante cose dai sacchi di spazzatura esposti in strada, così un soldato continua a guardare con occhi da soldato !
RispondiEliminaAvete letto che in Georgia un soldato ha sparato in una base militare? Questo succederà!
RispondiEliminaAnzi è successo,alle 11.00 in Georgia,le 13.00 in Italia. Praticamente stavo descrivendo ciò che stava accadendo. La notizia è uscita verso le 16.00, e non ho amicizie in Georgia. Come ho fatto a descrivere un soldato con problemi mentali,che fa il suo mestiere anche quando non deve?
RispondiEliminaSemplice,chi ci sta scrivendo è un malato mentale ,con tanto di certificazione,che si ricorda dello sguardo perso impaurito e nervoso di suo nonno, reduce dalla campagna di Russia !
RispondiEliminaE siccome la guerra è finita nel 1945 ,e io sono nato nel 1973 ,e quando l' ho visto in quelle condizioni,ne avrò avuti 6 ...dopo 34 anni dalla fine della guerra,un vecchio non autosufficiente ha ancora lo sguardo pieno d'odio! A malapena stava in piedi.....quindi le impronte della guerra faticano ad essere cancellate. In più,la discendenza verrà intrisa da questo odio,che prenderà diverse forme!
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