Savannakhet-Thakhek
126km
Buongiorno!
Ma soprattutto: buongiorno!
Oggi mi attende una tappa piena di incognite che hanno reso ardua la scelta della traccia da disegnare. Mi spiego: sono diretta a Thakhek, una città piccola ma abbastanza vivace, sempre sul Mekong, cresciuta e in rapido sviluppo grazie all'ennesimo ponte dell'amicizia che la collega alla Thailandia. Ho anche già prenotato una camera al Mekong Hotel, un bestione brutalista, un ecomostro che non serve cercare sulla mappa: si vede da ogni lato della città. Costa poco, offre lo spettacolo del tramonto sul fiume, si paga online (rarissimo vantaggio) e sa di artificiale, perchè di polvere, capanne e baracche comincio ad essere un po' stanca e comunque mi attendono quasi due settimane di eremitaggio sui monti Annamiti, sicchè: megahotel vecchio, decadente, ma GROSSO. Per arrivare alla meta ho, sostanzialmente, due opzioni: o torno sullo stradone asfaltato, oppure tento una pista lungo il fiume. Il primo è una certezza: esiste, è scorrevole, ma è più lungo, ha più dislivello ed è più noioso. La seconda è più interessante perchè passa nella giungla e tra villaggi isolati, è più breve e sale meno, ma è accidentata (non si sa quanto) e potrebbe rivelare sorprese brutte (spoiler -prolessi, anticipazione: succederà, infatti). Su Google Maps la pista, per un tratto di 15km, neanche compare. Ma Maps qui in Laos è abbastanza inutile: ben poche cose sono mappate, Street View non è disponibile neanche nelle zone più battute, con rare eccezioni, e non ci sono foto e commenti, se non sporadici. La pista è invece brevemente descritta, con tanto di foto, e mappata, su Komoot, l'app che uso per tracciare e registrare i percorsi. Ci è passata una coppia di tedeschi lo scorso anno: è scassata, sabbiosa e ci sono guadi, ma pedalabile. Opto per questa. Che fango sia.
Bevo un caffè offerto dall'hotel, compro l'acqua alla reception e attendo che l'antipatica signorina vada a controllare che non abbia rotto o sporcato nulla in camera. Con gli occidentali sono sospettosi, ci considerano sporchi, gentaglia barbara che entra in casa con le scarpe e fa una sola doccia al giorno. Lo scorso anno ricordo un episodio fastidiosissimo in Thailandia: avevo macchiato un asciugamani con una goccia di dentifricio al carbone, che è nero. E soprattutto si lava con l'acqua in un secondo. La signora delle pulizie, corsa a controllare in che condizioni avessimo lasciato la stanza, era uscita urlando e sventolando l'asciugamano, e aveva fatto la sceneggiata di annusarlo e fare la faccia schifata come se fosse imbrattato di due kili di merda. Ovviamente non parlava inglese e pretendeva pagassimo il danno. Alzando la voce, era poi arrivata una receptionist che parlava inglese, e nemmeno lei mi credeva. Al che le avevo detto di aprire l'acqua e provare a lavare la macchia, lì in cortile. 3, 2, 1, macchia sparita. E loro zitti. La cosa allucinante è che si danno arie da grand hotel luoghi che rasentano a malapena la decenza. Per dire: dove ho dormito stanotte, in bagno, i muri erano incrostati di cacche di geco, molte belle fresche, perchè non ci sono finestre ma fessure nel muro, e quindi da fuori entra qualsiasi bestia. Ora, puoi rompermi i coglioni e vedere se ho sporcato, quando i tuoi bei muri del cesso sono intonacati di merda?
Risposta rapida: NO.
In ogni caso lascio sempre le camere come se neanche ci avessi alloggiato, sicchè tutto ok (quasi con scorno della stronza) e me ne vo. Uscire da Savannakhet è questione assai rapida. Non c'è traffico e, in 2km, sono già nella polvere e tra i mercati, e vedo anche il gran ventre e le zampe di cemento del ponte dell'amicizia di qui, che corre spedito in Thailandia.
Io, invece, costeggio il fiume, e per il primo tratto la strada resta asfaltata e collega una periferia sempre più rada, con abitazioni e bancarelle sempre più distanti tra loro, inframezzate da zone umide, campi coltivati e boschi spettinati.
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la clinica comune di questo gruppo di paesini |
A un certo punto la strada asfaltata piega verso le colline, e si allontana dal fiume per ricollegarsi alla statale. Io la lascio, per imboccare una sterrata rossa rossa da cui, al mio passaggio, si sollevano nuvole di polvere. Il primo paesino che incrocio è punteggiato di bandiere del Laos e del partito comunista, e ci sono pagoda e scuola elementare, oltre a un ristorante-negozietto e una decina di abitazioni in legno e lamiera. Mi colpisce come anche qui, nel negozio, vendano gli articoli in dosaggi minimi. Ad esempio i prodotti per l'igiene personale, come shampoo e sapone, sono presenti in forma di "caricatori" di campioncini, come quelli che si trovano in hotel. Non ci sono le bottiglie. E lo stesso vale per tutto. Anche il cibo viene tolto dalla confezione originaria (snack, caramelle, merendine...) e riconfezionato in modo artigianale in sacchettini piccoli piccoli, più economici e vendibili in luoghi così.
Rimane alle spalle anche il villaggetto, e si apre davanti a me una pista che diventa ben presto sentiero, e poi proprio single track. Sale e scende con tratti sabbia in cui si affonda, ghiaia, sassi, e non mancano punti in cui piccoli rivoli d'acqua costringono a brevi guadi, o trasformano tutto in una palude di fango. Vedo comunque a terra tracce fresche di ruote di bici e piedi nudi (!), il che mi fa ben sperare, come pure il vicino scampanellio di mucche o capre che, però, non riesco a vedere nella folta vegetazione. L'umidità toglie il fiato, ma si pedala (o spinge) all'ombra, ed è pazzesco pensare che questo non è il Parco del Ticino. E' la giungla del Mekong! Le farfalle grandi quanto la mia faccia e i millepiedi velenosi, i versi di uccelli che non conosco e le piante tropicali, comunque, lo ricordano con una certa evidenza. Per non parlare dei serpenti. Ce ne sono tanti! Ma si limitano a strisciare rapidi attraverso il sentiero, e sparire nel fogliame. Come i laotiani, tendenzialmente, per usare un'espressione di Oxford, si fanno i cazzi loro.
Dopo una decina di kilometri così, nel silenzio dalle cose umane più perfetto, raggiungo un altro piccolo villaggio, dove è in corso l'allestimento di una festa (pare un matrimonio, con tavoli e sedie agghindati sotto a un gazebo. Numero di invitati stimati: sei). E' tutto un gran salutarmi e penso che in fondo anche queste zone così "lontane" sono vicine, in fondo. La gente è identica a quella dello stradone, che segna un confine immaginario tra i luoghi dove il mondo arriva, e con lui quel che chiamiamo progresso, e i luoghi che invece ne restano esclusi, tagliati fuori.
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la pompa di benzina |
Saluto tutti, sorrido ai sorriso, e proseguo. Finito il paese si passa da una cava di sabbia abbandonata, con vecchi escavatori arrugginiti lasciati lì a morire in un cimitero di elefanti di ferro, e poi ci si avvicina al Mekong. Tanto. Troppo. Ci si finisce proprio dentro in pieno. Vedo che sul ramo di un albero all'inizio della discesa che porta a alla zona sprofondata è stato appeso uno straccio rosso. Serve probabilmente ad avvertire del pericolo. Lascio la bici in cima e scendo a piedi a vedere l'entità del problema. E' grande. Un grande grandissimo problema. Il ponte è distrutto e sommerso, se ne intravedono solo le sommità. L'acqua sarà alta almeno 2-3 metri, a occhio, e intorno sembrano esserci sentieri ma sono poltiglie scivolose di fango in cui affondo fino a metà polpaccio, e comunque finiscono tutti o in mezzo all'intrico di radici e rami e liane, impenetrabile, o in acqua. Per altro, nell'esplorare la zona in cerca di passaggi alternativi, non solo metto i piedi in acquitrini dove sarebbe meglio evitare, ma smuovo battaglioni di insetti di ogni genere, tutti decisamente sovradimensionati per i nostri standard, e passo sotto a rami colmi di millepiedi urticanti che riconosco da Vietnam: ce ne avevano parlato quando abbiamo visitato i tunnel dei Viet Cong. Sono anche quelli usati dagli khmer rossi per torturare. Sono grossi. Brutti. Lunghi come mezzo avambraccio. Altamente velenosi. E devo passarci sotto e accanto. Brrrrrr.
In ogni caso, nonostante i disperati tentativi, devo rassegnarmi all'evidenza: di lì non si passa. Piuttosto che disperarsi, conviene trovare una soluzione. Per fortuna il mio cervello, in questi casi, entra in modalità sopravvivenza e ho una reattività lucidissima che mi consente di ricalcolare il percorso in modo razionale. Non so se sono sempre stata così, o lo ho imparato viaggiando, e scoprendo che la realtà è fatta di un materiale molto più duro e resistente dei nostri propositi, e non si adatta nè si modifica secondo le nostre volontà. Il contrario, invece, è possibile. Mappe (offline) alla mano e si torna indietro. Risaluto tutti i saluti nel villaggio della festa, e imbocco una sterrata maledetta, accidentata come non mai, tutta buche e massi aguzzi, sabbia e salite ripide, cani randagi e polvere che acceca, che riporta su verso le colline, alla strada asfaltata che si collegava alla statale, quella che ho lasciato prima. Se tutto va bene, tornando lì, dovrei poi riuscire a proseguire. E in effetti così è. Ma devo operare un'altra scelta piena di incognite. Tornata alla strada, ho di nuovo due opzioni: o andare a prendere la statale, o tornare giù al fiume, una decina di km oltre il punto allagato, e sperare che di non presentino più problemini di quel tipo. Se vado sullo stradone, mi aspettano altri 100km mossi. Se torno al fiume, sono 80 praticamente in piano. Ne ho già pedalati più di 40. Lo stradone è intrigante, è sicuro... Ma è lungo, noioso, esposto al sole... Con un gesto quasi irrazionale, al bivio piego il manubrio giù verso il Mekong. Se ho sbagliato a scegliere, se trovo ancora zone sommerse, tornerò alla statale e chiederò un passaggio ai tanti pullmini e trabiccoli che passano, stracarichi di gente e merce, bagagli, roba.
Più scendo, più mi allontano dalla statale, più l'ansietta dello scoprire cosa mi attende sale, stemperata dalla visione idilliaca di non so che animale. Mammifero sicuro, quadrupede, lungo circa un metro coda esclusa, simile a un tasso, a un piccolo orso, ma con le zampe corte, la coda e il pelo lunghi, nero e striato di bianco. Cammina lento, ma quando mi sente, sparisce subito trai cespugli. Ciao meraviglia, chissà quale spirito della foresta sei! Di certo, uno che porta le buone nuove. Infatti da qui tutto inizia ad andare bene, a funzionare.
Trovo un villaggio dove faccio scorta di acqua. La pista non è allagata e, anzi, presto diventa asfalto. Scassatissimo e quasi peggio del sentiero, da pedalare, ma pace. E il vento, finora contrario o laterale, gira a mio favore. E ci sono frequenti paesini microscopici, uno dopo l'altro, che danno un senso di calore, di consorzio umano, di social catena leopardiana. Pedalo leggera, e i kilometri, finalmente, iniziano a scorrere sotto alle ruote verso la meta.
Tra questi paesaggi idilliaci, dove palme, banani e alberi selvatici della giungla si mescolano a capanne e risaie, e tutto scorre lento lento, insieme al sole e alle correnti dei numerosi fiumi, mi rendo conto ancora una volta di come qui la chiave di volta sia quella frase letta in guesthouse, tante volte studiata a scuola e raccontata e fatta mia come tassello del mosaico del mio dna culturale. Amor fati. Non si tratta della passiva e dimessa accettazione del destino, ovvero quel che accade e non dipende da noi, non c'è senso di impotenza, di amechania, di sopraffazione. Al contrario, è un gioioso accoglimento, un abbraccio stretto e colmo di amore nei confronti di ciò cui siamo esposti, che succede e ci tange. Nel bene e nel male. O meglio, al di là del bene e del male. La cosa incredibile è che questa concezione, che si trova così espressa in Nietzsche per descrivere l'atteggiamento dell'oltreuomo, consapevole dell'eterno ritorno, trova le sue radici nella concezione stoica classica ma è pure vicina ad alcuni pilastri filosofici del buddhismo, che nei secoli ha plasmato il modus vivendi laotiano. E qui a maggior ragione, forse per le turbolente e feroci vicissitudini storiche trascorse anche di recente, la gente attua nel quotidiano questa felice atarassia. E poi che bel bagno di umiltà è ricordarsi che il gran fiume di Eraclito scorre a modo suo, e non seguendo le anse e le ansie dei nostri desideri. Qui è così. Niente sembra funzionare, tutto va storto e però, alla fine, ogni cosa si risolve e prende la sua giusta piega. In un modo differente da quello prospettato. Perchè non possediamo nemmeno noi stessi, figuriamoci l'iter delle cose. Mi piace che tutto si tenga.
«Lo stato più alto che un filosofo possa raggiungere è la posizione dionisiaca verso l'esistenza: la mia formula perciò è amor fati» (F. Nietzsche)
Mi sento anche un po' il Sisifo di Camus, man mano che la stanchezza inizia ad affacciarsi a coscienza. Mentalmente faccio scorrere i kilometri dieci a dieci, cinque a cinque, uno a uno. Così ne ho pedalati 50, 60... "Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice."
Quando ne mancano 20, siccome inizio a cedere e barcollare, mi fermo in un paesino dei tanti a bere qualcosa di fresco. Le strade sono piene di gente intenta a sbrigare le ultime faccende prima del tramonto: i pastori recuperano bufali, capre e zebu e li riportano alle stalle, tra gridi, versi e sculacciate con canne di bambu. I contadini rincasano sui loro carretti, e si mescolano a ombrelli e sacchettini che sporgono dai tricicli degli ambulanti; sciami di motorini e biciclette ronzano tra nuvoloni di polvere che sembra quasi porpora e ora nella luce bassa del sole che scende. C'è tanta poesia in questa quotidianità così vicina alla terra.
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queste signore ombrelline raccolgono offerte di fiori e cibo da portare in pagoda |
Dopo aver spiegato alla signora che mi vende il tè fresco che sì, il mio viaggio è tutto in bici (e lo spiego a singoli nomi di città e gesti, e lei a gesti risponde, mimando con le mani il frullio dei pedali), riparto, facendo lo slalom tra buche e mucchi di sabbia, mandrie e mezzi di ogni genere che si intravedono nel polverone. Poi, tutta di botto senza periferia, ecco la città di Thakhek. E' cresciuta in fretta dopo il 2011, anno di apertura del ponte dell'amicizia che mena in Thailandia. Da cittadina sonnolenta di pescatori ora è un bel centro economico e turistico. La presenza coloniale francese si legge negli edifici, anche qui con il loro fascino decadente, e nella composizione della popolazione; tantissimi sono infatti i vietnamiti, incoraggiati a trasferirsi qui proprio dai francesi, quando eran tutte colonie di Parigi, per ravvivare i commerci e l'industria. Avevano anche tentato di costruire una ferrovia, ma il progetto non è mai stato concluso.
Mi imbatto in due coppie di turisti occidentali, che mi guardano con tanto d'occhi, increduli, e tanti che mi paiono cinesi. D'altronde qui ci sono tutte quelle gioie dei luoghi di frontiera: vendita di alcolici e tabacco duty free, night club e karaoke dove ubriacarsi e passare le serate in compagnia prezzolata... Insomma, città di confine.
Io torno sul Mekong e raggiungo l'omonimo, mastodontico hotel, da dove si gode di una vista davvero spettacolare sul tramonto. E poi la camera è bella, pulita, ordinata... Normale! C'è persino la vasca da bagno e sì, ne approfitto. Mi ci tuffo e, con un complesso accrocco di sgabelli e cestini, creo una postazione per scrivere, perchè in questi giorni la stanchezza mi ha costretto a un poco di ritardo sul "piano editoriale" del blog. Poi mi rilasso, e mi lavo BENE. L'acqua, ed è un dettaglio splatter, alla fine è color Mekong.
Cala la sera e si allungano le ombre in Laos, mentre si accendono le tante luci colorate e ammiccanti della Thailandia, che è proprio qui a un soffio, eppure è così distante... Di là ci sono i servizi e un benessere diffuso che di qua ancora manca. Forse sta arrivando, ma molto molto lentamente.
Per cena aggiro lo street food, visto che finora son riuscita ad evitarmi problemi, e faccio una spesina al mart di quartiere. Mi regalano una borraccia della Lactasoy, gigante thai che vende latte di soia e prodotti consimili in tutto il Sud Est asiatico, e che sta sfondando i mercati lao con prepotenza. Ovunque ci sono promozioni, bancarelle dedicate, regali, campioncini e una pubblicità martellante, anche davanti alle scuole e agli ospedali. Acchiappo l'omaggio ma devo sottopormi a shooting fotografico. Mi era capitato anche lo scorso anno in Thailandia. Quando un cliente occidentale si palesa, è subito campagna marketing per attirare altri turisti e far vedere ai local che la merce è di standard che soddisfa anche i farang. White privilege all'ennesima potenza. Smile! Clic, invia al social media manager, e buonanotte.
13/8
Thakhek-Vieng Kham
104km
Passo la serata e parte delle prime ore del mattino a fare le tracce degli ultimi 800km sulle montagne, tra Luang Prabang e Hanoi. Quel tratto di viaggio, che è l'ultimo, mi attrae e spaventa. So che sarà tanto meraviglioso quanto impegnativo, sia per il dislivello sia per l'assenza di servizi diffusi. Ho anche deciso, ormai da qualche tempo, di prendere un mezzo (capiremo quale, visto che il treno non consente di caricare la bici e il bus impiega 8-9 ore, invece di 2) tra Vientiane e Luang Prabang. Quei 300km, infatti, mi costringerebbero poi a correre per tutto il resto del tempo a mia disposizione per non perdere l'aereo. Ma, come potete immaginare, con una bici carica e già un mese e mezzo di viaggio alle spalle, e quasi 20.000m di dislivello, la cosa che meno di tutte di può fare è correre.
Dovrei essere riuscita a dividere il percorso in segmenti affrontabili, in un equilibrio inversamente proporzionale tra distanze e salita. Dovrei anche riuscire ad arrivare sempre in un paesino, o almeno in una delle numerose homestay, alloggi in famiglia, che si trovano sul percorso. C'è in mezzo anche un confine di Stato, che è piuttosto remoto e si trova proprio sul cocuzzolo di una montagna; per arrivarci bisogna affrontare 30km di muro verticale (per poi ridiscendere in Vietnam a Bien Dien Phu, teatro dell'omonima, sanguinosa e lunga battaglia -con assedi- che, nel '54, vide i Viet Minh sconfiggere i francesi e costringerli, in generale, alla resa, ponendo fine al loro dominio coloniale e alla Prima Guerra di Indocina).
Come sempre il dislivello da Google Maps è molto ottimista, mentre Komoot rivela una realtà più impegnativa. Vedremo, in ogni caso, giorno per giorno. Certo è che ora inizio a desiderare ardentemente una pausa, a Vientiane, perchè pedalo incessantemente da 10 giorni, ce ne sono ancora 3 da affrontare e i kilometri percorsi superano abbondantemente i 1000, e con tanti imprevisti. Insomma, un attimo di riposo non mi fa male a questo punto, prima di arrampicarmi sui Monti Annamiti.
Sapendo che, almeno in teoria, la tappa di oggi è tranquilla (asfalto, poco più di 100km, dislivello minimo) parto con calma, godendomi la bella camera del Mekong Hotel, con le mappe squadernate davanti ai miei occhi. Quando finisco di brigare, mi preparo e iniziano tutte le operazioni pre-partenza, ormai diventate automatiche, un rito quotidiano. Chiudere le borse in un certo ordine in base a quel che serve per ultimo, portare tutto alla bici, slegarla, caricare i bagagli, il cappello, azzerare il contakm, far partire la registrazione... Insomma si va. Thakhek rimane ben presto alle mie spalle, e ancora i mercati sono chiusi e non ci sono che zebu e capre in giro. Dal lungofiume risalgo qualche versante di collina per salire alla statale, che seguirò praticamente fino alla capitale. Qui di alternative non ce ne sono più, perchè la sottile strisciolina di pianura si assottiglia, stretta tra il Mekong e le alture. Mi stupisce in positivo la qualità dell'asfalto: nuovo, integro, senza buche esplose, senza ghiaioni nel mezzo... E c'è pure la segnaletica orizzontale, le righe a dividere le corsie! La civiltà! Il traffico resta pressochè assente, se non in concomitanza di cave di sabbia attorno a cui si muovono mezzi pesanti al lavoro, sollevando polveroni incredibili. Ma dura poco, mentre i giorni scorsi era la prassi.
L'unico dettaglio negativo è il vento, sempre contrario. Non è teso, ma è costante impiccio che rallenta in discesa, e non permette di smettere del tutto di pedalare, e rende le salitelle ancora più noiose; potrebbero essere affrontate, per come sono brevi e poco ripide, con la velocità della discesa precedente, visto che sono continue e contigue, e invece no, tocca alzarsi sui pedali e sculettare con le chiappe larghe delle borse per qualche decina di metri. La prendo come un ulteriore allenamento per le montagne, via.
Per l'intera tappa incontro pochi paesi, ma l'impressione è che siano molto più curati e "moderni", qualsiasi cosa significhi, rispetto ai villaggi, pur affacciati alla statale, del sud del Paese. Le case non sono circondate da cortili-discarica, non ci sono bestie e bambini e bancarelle e fango tutti mescolati in un unico luogo, e i pochi negozietti hanno un aspetto più pulito e ordinato, con la merce sugli scaffalo o su tavoli e non buttata a terra e in giro alla rinfusa. La gente resta cordiale e allegra, e saluta e sventola manine, soprattutto i bambini. Che però, qui, sembrano meno numerosi. O quantomeno non trascorrono la loro giornata sulla strada!
A metà tappa mi fermo a riempire le borracce in uno dei tanti negozietti, con vista su big Buddha on the top of the hill.
Riparto poi in aree sempre meno abitate e più coperte di fitta foresta verdissima che allunga le sue dita di foglia su qualsiasi cosa: crescono piante sulla strada, sui pali della luce e sui cavi della corrente, sulle case, sui tetti e le colonne delle pagode. Dà l'impressione che se ci si siede un attimo al limitare di quel verde oceanico, si venga ricoperti e fagocitati da quei rampicanti e dal muschio come le statue di Angkor Wat. Nel continuo saliscendi si intravedono ora le azzurre sagome dei Monti Annamiti, tutti a cocuzzoli, con forme diverse dalle nostre montagne, che alternano pareti di roccia nuda e altre completamente coperte di vegetazione spessa e densa.
In primo piano, in sfumatura con le tonalità delle alture, piantagioni estese di albero della gomma, tabacco, frutteti e alcune risaie.
Nel primo pomeriggio la stanchezza bussa alla coscienza e mi tengo reattiva ascoltando musica, senza cuffie, che quando passo paio anch'io un ambulante strillone, e mi consolano i cippi che dimostrano che Vientiane è sempre più vicina, ormai quasi si intravede!
Ogni tanto il tappeto di linfa e rami si interrompe e lascia spazio a un paesino, dove le attività procedono tra bufali da riportare al recinto, dentisti che operano in gabbiotti aperti dove entrano cani e polli e bancarelle di legno a palafitta dove si vendono soprattutto patate dolci e carne essiccata, funghi e lumache di terra (al mattino vedo spesso i ragazzini raccoglierle nell'erba alta, armati di bastone con estremità a cucchiaio e cestino di vimini a tracolla).
Appena finisce l'abitato, la foresta torna a crescere ed espandersi e fiorire e porre radici. Se la si lasciasse fare, nel giro di pochi mesi inghiottirebbe tutto.
Dopo aver attraversato alcuni paeselli che hanno il sapore dei nostri valligiani, ai piedi di roccioni spettacolari che son le frange della gonna degli Annamiti,
raggiungo Vieng Kham, la meta di oggi. E' un centro abitato piccolo ma non minuscolo, che si sviluppa intorno all'incrocio tra la statale lungo il Mekong e una strada che va nei monti. Ha un numero insensato di strutture ricettive, per quel che è, qualcosa come 7, tutte una accanto all'altra. Io scelgo quella che dà l'impressione di essere più curata, e, in effetti, metà è in ristrutturazione, l'altra metà è nuovissima e pulitissima. Ci sono acqua calda, doccia separata con un vetro dal resto del bagno, una sedia e un tavolo, e persino il bollitore! Niente insetti, niente cacca di geco ovunque. Ottimo!
Dopo la doccia, esco per procurarmi la cena. Qui non ci sono negozi o mart, quindi mi dirigo al mercato, coperto e non, con bancarelle in una piazza di terra battuta. Il paese è davvero fatiscente e malandato, pieno di cani randagi spelacchiati. Uno, che randagio non è, abbaia e ringhia e guaisce perchè è legato con una catena arrugginita che si è incastrata tra alcune assi di legno di lui non riesce più a muoversi. Per fortuna poco dopo arriva il padrone. Nell'aria c'è quella che io identifico come puzza di fogna/porcile, e magari lo è, ma voglio illudermi che si tratti delle lavorazioni dell'albero della gomma, che hanno un odore simile, quando marciscono. In ogni caso, al mercato desto non poco stupore nei venditori, che forse non hanno mai avuto una volpe bionda e con la pelle strisce. Quando compro i longhan mi fotografano, e il fruttivendolo va a chiamare moglie e figlie, che stanno scaricando angurie dal camion, per presentarci. Fa strano, è piacevole ma pure imbarazzante. Fossi stata italiana ma di origini asiatiche, identica a come sono con gli occhi a mandorla, forse non mi avrebbero cagata di striscio. E questo giudicare le apparenze, anche quando per me è in positivo, non mi fa volare. Però li capisco anche, e sospendo l'analisi.
Mentre ceno in camera e mi gusto questi deliziosi panini dolci al taro, sento in strada partire una musichina fastidiosissima, tipo sigla da cartone animato, con voce super acuta di bambina, e poi un discorso tenuto da voce maschile che pare una predica. Mi affaccio: non è un ambulante e nemmeno un negozio con la cassa dritta, ma questo fiume di parole viene trasmesso dagli altoparlanti della filodiffusione, presenti sui pali della luce in tutto il paese. Chissà chi è, che dice. A naso sembra un polpettone da sindaco: "Cari concittadini, grazie per aver lavorato per il nostro bel borgo, anche oggi mi avete pagato lo stipendio, buonanotte".
14/8
Vieng Kham-Pakxan
90km
Nonostante la stanchezza profonda, questa notte mi sveglio spesso a causa del rumore della pioggia sulle tettoie. Diluvia con violenza, ininterrottamente. Quando mi sveglio, poco prima delle 8, non ha ancora smesso. Siccome oggi non ho una tappa lunga nè (in teoria) impegnativa in alcun modo, decido di prendermela comoda e aspettare. Torno un po' nel lettone a godermi la comodità, poi mi faccio un tè, scrivo, controllo la strada per oggi... Insomma, cazzeggio, guardando spesso fuori dalla finestra. Nulla, non accenna a smettere. La strada è fradicia, ci sono pozzanghere grosse come laghi e rivoli che scorrono ai bordi. Per fortuna non devo far sterrato! Intorno alle 10, quando ormai mi sto rassegnando all'idea di infilare il k-way e patire lo stesso, il ritmo delle gocce si fa più rado, e poi smette del tutto. Ma che culo! Vado a riconsegnare la chiave, e trovo il receptionist addormentato sulla sua brandina (qui gli alberghi garantiscono front desk 24/7, ma così) e, siccome sta passando una signore che fa le pulizie, do a lei la chiave e i soldi per una bottiglia grande di acqua che ho preso dal frigorifero. Lei prende tutto, mi sorride e saluta, poi va dal bell'addormentato e lo sveglia a urlate di rimprovero. A naso, direi che è sua mamma.
Parto in un'aria ancora gonfia di pioggia, che presto diventerà rovente umidità da togliere il fiato. La strada è liscia come una tavola da biliardo, il vento ovviamente contrario, ma non teso, e oggi le colline restano più distanti, quindi la sensazione di esser sempre in salita o in discesa è meno marcata. Insomma, si pedala bene, senza traffico, su una strada sinuosa come un naga perchè segue a breve passo le anse del Mekong
Di villaggi ne incontro pochi e sono simili a quelli di ieri, ordinati e pulitini, con diverse case in legno o muratura davvero ben tenute e curate, Ogni volta è un coro di hello e manine, mentre gli adulti vanno di pollicioni e frasi che suonano come bonari incitamenti. Si è generosi di sorrisi, loro ed io, e c'è un bel clima disteso. Anche in questo mercato, dove vendono strumentopoli come coltelli, zappe, asce, machete, vanghe affilate, lame generiche. Sono strumenti da lavoro, mi ripeto. Ma dopo aver visto i campi di sterminio degli Khmer rossi, non riesco a non immaginarli per uso diverso da aprire teste, sfondare crani, fracassare cervella.
Il paesaggio intorno oggi è davvero sublime. L'aria lavata dalla pioggia e la luce (che mi ustiona le già abbronzatissime braccia nei 15 minuti che passano tra quando esce il sole e quando mi fermo a spalmarmi la protezione solare) fanno risplendere tutti i verdi e gli azzurri di questa natura grandiosa e semplice. Le nuvole basse indugiano ancora sui fianchi dei mondi, e sembrano gli ultimi strascichi di sogno che abbandonano la memoria di questa roccia, mano a mano che il giorno avanza.
I laghetti, gli acquitrini e i molti fiumi di queste terre basse e spesso allagate ripetono il gioco dei riflessi, e lo moltiplicano in bellezza.La strada serpeggia tra alture coperte di giungla e immissari del Mekong, che da questo si distinguono per il colore (sono azzurri e non maròn). Ogni tanto, nella vegetazione, si intravede una statua di Buddha, o il tetto aguzzo di una pagoda, ora su smeraldo. E tante sono le abitazioni nascoste tra i banani e il fiume.
Qui sulla statale i ponti ci sono, quindi niente barchini (quasi mi dispiace!). E' un continuo passare da sponda a sponda di corsi d'acqua differenti. Credo di avene attraversati almeno una ventina solo oggi, in 90km.
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in certi tratti la corsia per mezzi lenti è quasi più larga di quella per le auto e i camion... E comunque le strade sono davvero deserte |
Quando mancano 25km mi fermo a bere qualcosa di fresco al chiosco di una stazione di benzina, cui vengo attratta per la presenza di alcuni gattini minuscoli (che però son timidissimi e riesco giusto a intravederli). Mentre sorseggio la mia LaoCola, noto che anche qui, come in certe zone del Vietnam particolarmente colpite dalla guerra, si usano come decorazioni le ogive dei missili. Tra il 1964 e il 1973 gli USA sganciarono 2,5 milioni (!) di tonnellate di esplosivi su questa Nazione, in oltre 580.000 operazioni di bombardamento a tappeto. La cosiddetta "Guerra segreta" vide infatti il Vietnam del Nord e gli Stati Uniti contendersi il controllo del Laos, territorio strategicamente importante per i destini della Seconda guerra di Indocina. Anche il Laos, vacillando il potere francese, si trovò infatti diviso in due: il nord vicino ai Viet Minh comunisti, antifrancesi, e ad Ho Chi Minh; il sud filo-occidentale (guidato dall'imperatore vietnamita sulle prime). E anche qui giù di guerra civile, e poi di guerra contro gli States. Che però, ufficialmente negarono qualsiasi coinvolgimento nel conflitto in Laos. Onde: guerra segreta.
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a furia di tagliar frutta con il coltellaccio, ogni sera, distrattamente, mentre scrivo o leggo, ho il pollice sinistro a fette! |
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i figli del proprietario della stazione di benzina sono in vacanza quindi lavorano. Il più grande non si scolla dallo smartphone, il più piccolo ronfa sulla sedia di plastica nella calura meridiana |
Riparto per gli ultimi kilometri, e il caldo umido ora si fa sentire davvero in tutta la sua prepotenza. Manca il fiato! Assisto però a una scena meravigliosa: su una bancarella sono esposti, a seccare, pesce (sul tavolo) e sottili striscioline di carne di manzo. E' il Sien Savanh, uno dei piatti tipici del Laos: carne marinata ed essiccata, poi servita con riso glutinoso e salse. Una gallina è volata sul banchetto, e, camminando e cagando sul pesce, si sta ingozzando di carne, con grandi beccate ingorde. E' nel Paese di Cuccagna, nel paradiso del bengodi. Almeno fino a quando la proprietaria non se ne accorge e la scaccia a urla e manate. Che meraviglia questi piccoli dinosauri piumati! E che giro di giostra, questo street food di domani che mangia lo street food di oggi!
Gli ultimi kilometri scorrono un poco annebbiati dal caldo che mi rende stupida. Arrivo a Pakxan, meta di oggi (non c'è nulla, ma spezza i kilometri. Ormai per arrivare a Vientiane ne mancano solo 150). Entro nel primo hotel che ho individuato su Maps, un mega albergo che pare di lusso ma ha camere a 8 euro a notte, e vengo rimbalzata fortissimo. Ci sono un uomo e una donna alla reception, e nessun ospite. Il parcheggio esterno, enorme, è vuoto. Chiedo la camera, recupero i soldi, loro confabulano un po' e poi mi dicono, con il traduttore: "Scusa ci siamo dimenticati che è tutto pieno non abbiamo camere disponibili". Ma dai, fammi il piacere. Una struttura che avrà almeno 50 camere, nel buco di culo più piccino della regione, in un giorno qualsiasi non di festa nè di eventi, non ha un letto? Gli scoppio a ridere in faccia, poi torno seria e mi abbasso gli occhiali da sole per fulminarli con il mio più boombastic crminal offensive side eye. Hanno l'aria un po' imbarazzata, hanno capito che ho capito che semplicemente, per qualche ragione, non mi vogliono punto e basta. Per fortuna questa cittadina ha altre strutture (perchè qui parte e arriva il traghetto per le auto che collega la Thailandia), e basta proseguire di un kilometro soltanto per trovarne un'altra simile, solo un po' più vecchiotta (ma con noodles istantanei gratis e colazione inclusa, per il medesimo prezzo).
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l'hotel del gran rifiuto |
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l'hotel dell'accoglienza |
Dopo essermi lavata e sistemata, esco a far la spesa in un luridissimo negozietto cinese con gli scaffali tutti vuoti e impolverati. Alla cassa, davanti a me, trovo un ragazzo tutto macilento e storto, senza denti, con gravi problemi di deambulazione, vestito da presentatore del circo. Ha un completo con il frac tutto nero e rosso paillettato, il papillon, un cilindro e una pentolina infilata nella cintura, sulla schiena. Ma gli abiti sono strappati, sgualciti, scoloriti e sporchi, e si vede che lui è lì a contare i soldini piccoli per arrivare all'equivalente di mezzo euro per una bevanda energetica che si sta comprando. Mi pare il minimo dire alla commessa di lasciarlo stare, che gliela offro io, e le allungo una banconota che anticipa per lui e servirà per me. Lui si illumina ed è preso da una contentezza che gli fa tornare un barlume di lucidità negli occhi, e se la ride con i suoi tre denti e mi stringe la mano forte, e non la lascia. E' un attimo, ma un attimo felice. Non so chi sia. Un senzatetto (sarebbe il primo che vedo, qui)? Un artista di strada che tira a campare? Un tossico? Sicuramente, una persona che ora si sta bevendo la sua bibita fresca a cui stava per rinunciare. E già non deve avere una vita di gioie, eh.
Me ne torno in hotel, ceno, e vedo che ormai quasi ci siamo a Vientiane. Individuo delle strutture, domani prenoterò le due notti nella capitale. Incredibile: due notti. Son quasi due settimane che cambio casa ogni giorno. Domani pedalerò fin che ho voglia, non ho una meta. In questi 150km ci sono guesthouse e motel abbastanza frequenti, quindi sarà la strada a decidere.
👋👋👋👋👋
RispondiEliminaCome si vede nel petto,un cuore ha,ma pure 2 tatuaggi simili, più un altro che fa 3? E vi giuro che non avevo mai visto quei tatuaggi! Io ho abbracciato la volpe l'ho incontrata nelle serate che durante l'anno programma in Lombardia ,ma non avevo visto mai i 2 dragoni! E soprattutto, uno dei 2 dragoni ,il bianco non tocca il tatuaggio similpiramide! Come nel cerchio magico fatto con le dita amiche,dove il cavaliere bianco non tocca col dito il cavaliere nero.
RispondiEliminaMi si permetta la battuta:" la volpe con la vita sana che fà, anche a 105 anni potrà donare gli organi,la pelle verrà sistemata in un museo,da decifrare come le grotte del Paleolitico!"