Chhaeb-Stung Treng
86km
Passo la notte a combattere insetti che mi pizzicano le gambe nonostante i litri di Autan, e ragni grossi come la mia mano aperta. Non sono le tarantole, qui considerate gustosissime, ma non so se siano velenosi o meno, quindi un po' li faccio scappare fuori in corridoio, un po' li ammazzo. Lo so, non è etico. Ma sono stanca, vorrei dormire, e vedo di continuo correre cose sul muro, ombre grandi alla periferia del mio campo visivo. In più da un reel ho imparato un metodo pazzesco per affrontare questo tipo di belva: si prende una palletta di carta igienica e la si imbeve di acqua, strizzandola poco. Quella massa fradicia è un proiettile micidiale, pesante per l'acqua, che si allarga con l'impatto e spetascia chicchessia, facendone un bel decoupage misto a scultura di carta pesta. Si vede che son cresciuta con Art Attack!
A tenermi sveglia è in parte, per la verità, anche una sensazione di pesantezza. Comincio a sentire un po' la fatica del viaggio, esacerbata da queste giornate un po' monotone, in luoghi dove è difficile distrarre la mente dal vento contrario su un drittone in mezzo alle praterie che estendono per decine e decine e decine (e decine e decine) di kilometri. Non è facile neanche trovare lo svago edonistico di qualcosa da bere o mangiare particolare o semplicemente di conforto, spesso neanche trovo un posticino all'ombra per sedermi un attimo, che non su un acquitrino invaso dalle zanzare. Insomma, fatica. Mentale soprattutto. E, pianificando alla veloce il Laos, ieri, ho avuto l'impressione che anche questo Paese richiederà tanta energia, in cambio della sua bellezza. Non è un luogo sviluppato in modo diffuso, le zone turistiche sono limitate e distanti, le strade in condizioni così così... Insomma, richiede attenzione e non ci sono molti agi.
Per tutta la giornata di oggi, che corre su un famigerato drittone controvento, con la polvere che offusca l'aria, copre la strada e finisce negli e nei polmoni e un caldo maledetto, penso a quanta strada ancora mi attenda. It's a long way to Tipperery, come dice la canzone. Non dubito di farcela, questo no. Dubito di avere il giusto entusiasmo, che la bellezza equipari le difficoltà. Ma le risposte arriveranno.
Lascio la stanza marcia del MeyMey e parto. Metto un po' di musica, ascolto i grandi cantautori italiani. Nei luoghi aridi, aiutano a ritrovare la poesia nascosta nelle cose.
Come vedete dalle foto, il paesaggio è quello del nord della Cambogia, ma più desolato. Rosso di terra, verde cupo di vegetazione fitta o colture, grigiolatte il cielo e l'aria, dense di calore, umidità e polvere. Solo ogni tanto si incrocia un paese, e sembra una metropoli coloratissima. I bimbi salutano e, tra una testa di vacca intera un intestino appeso accanto a un ventilatore che dovrebbe tenere lontane le mosche, si trova anche qualcosa di fresco da bere. La strada è ondulata di minuscole gobbe e intorno si ergono, in mezzo al piano, improvvisi strilli di roccia, montagne in miniatura con le loro pareti scoscese e le piante che vi si abbarbicano tenaci.
Poco oltre la metà della tappa ho le borracce vuote. Mi fermo a un baracchino che vende principalmente attrezzatura da pesca e compro acqua e la cola locale, rigorosamente venduta in bottiglie da 0,33. Mi stupisce sempre la differenza di dimensioni nelle confezioni. Negli USA trovi le taniche di soda da 5l, qui già il mezzo litro è troppo. Le sigarette sono vendute singolarmente, come le merendine che da noi si troverebbero solo in pacchi da 6 o 8, e lo stesso vale per le caramelle, la frutta secca... In alcuni casi sono i negozianti stessi a ri-insacchettare la merce in mini porzioni. Non so se è troppo il nostro o troppo poco il loro. Probabilmente, entrambe le affermazioni sono vere.
Mi rimetto in sella e tiro diritta: mancano ormai pochi kilometri a raggiungere Sua Maestà il Mekong, che ritrovo qui dopo un paio di settimane. In questo viaggio il fiume è una sinuosa spina dorsale che sta sempre nel mezzo. Lo ho trovato in Vietnam, per risalirlo fino in Cambogia, e ora di nuovo lo seguirò a ritroso, controcorrente come sempre mi capita nella vita, per oltre 1000km, fino alla remota e scoscesa Luang Prabang. A Vientiane lo vedrò esattamente dal punto in cui lo avevo conosciuto, l'anno scorso, in Thailandia... Ma dalla sponda opposta. Mi tagliano la strada alcuni bufali d'acqua, coperti di croste di fango secco. Ribadisco: sono il mio spirito guida!
Con un lungo ponte attraverso il fiume, che riesce a riflettere l'azzurro del cielo nonostante le sue acque siano marroni caffelatte, per non dire altro. Il gioco di scintille celeste è incredibile. Ed è sconfinato che qui, che pure ancora deve raccogliere l'acqua di tanti affluenti. Sembra un mare tanto è vasto. Ciao Mekong, è bello rivederti. Che storie hai portato a valle attraverso l'Asia?
Sull'altra sponda, inizia subito la periferia di Stung Treng, l'ultima città cambogiana prima del confine. Con i suoi 25.000 abitanti, ospita il 30% della popolazione dell'omonima (vasta) provincia, il che la dice lunga sul resto del territorio. E' cresciuta perchè si trova sul fiume ed è una tappa obbligata per i viaggiatori che si muovono tra Vietnam del sud, Cambogia e Laos. E' un porto di mare, anzi, di fiume, in senso figurato e non. Dà subito l'impressione di essere città di frontiera, luogo di confine, di traffici, di spostamenti di cose e persone, magari neanche del tutto legali. E' la prima città vera e propria, con più di una via e più di 15 edifici che vedo da tre giorni a questa parte. Ci sono tanti negozi, ma sono tutti piccolissimi e polverosi e caotici come quelli dei villaggi. Mi stupisce che, in una città così, non ci siano, ad esempio, un parco pubblico o un supermercato. In compenso è tutto un brulicare di mercati, baracchini, ambulanti e bancarelle a terra sui marciapiedi e a bordo strada. Il centro è leggermente più ordinato, con la sua piazza, il municipio a forma di pagoda e la foto del re (che ha l'aria da umarell, poverino, dimesso, poco convinto di se stesso).
Dopo le bettole dei giorni scorsi, oggi mi sono voluta viziare e ho prenotato una stanza nell'unico hotel vero e proprio della città. Quando lascio la bici nel parcheggio interno, ne noto un'altra da viaggio, Bergamont, sicuramente di un cicloviajero. Chiedo in reception e mi confermano che c'è un ragazzo che viaggia in bici, e domani raggiungerà il confine in bus. Accidenti. Speravo di poter affrontare questa traversata insieme... Ho qualche timore, non lo nego. Dopo le cose che ho letto... Vabe', intanto mi godo la stanza lussuosa e faccio anche una videochiamata con Francesco Soardi, altro folle cicloviaggiatore che ora è in Cina, ma ha pedalato proprio qui lo scorso anno. Ci raccontiamo un po' di aneddoti e di esperienze, e mi fa bene questa chiacchierata: alleggerisce ulteriormente il diaframma dai dubbi su ciò che verrà. Scarico la guida Lonely Planet in pdf, in inglese, sul telefono, e scopro 1. che si può fare ed è gratis; 2. che la guida in inglese ha un tono molto meno serioso e più simpatico e ironico rispetto a quella italiana; 3. che, tracciando piano piano, metro a metro, anche il Laos si srotola come un bel gomitolo steso di seta, e non come un'arrugginita bobina di filo spinato. Ma che bene! Ora sì, ora sì. E anche la tensione del valico di frontiera si stempera. Sono entrata e uscita da luoghi più ardui, e non parlo solo di Paesi (Iran, Turkmenistan, Israele...) ma anche di momenti e situazioni esistenziali.
Così, rasserenata, vado a fare una cosa che mi piace sempre e segna la degna conclusione di queste giornate: una passeggiata al tramonto tra i mercati. Davvero ho la sensazione che nel gran rimestare di merce, tra cumuli di zampe di pollo da ciucciare e catini pieni di insetti speziati, ci sia un losco giro di cose che entrano ed escono dal paese. Sa di zona estrema, di frontiera appunto.
Mentre il sole cala e si accendono le luci su questo avamposto caotico e rovente anche al crepuscolo, raggiungo un benedettissimo 7-11 e spendo quasi tutti i riel rimasti in generi di conforto: confezioni monodose di biscotti, cracker, caramelle, e tutte quelle cosine che rendono meno amara la stanchezza, mentre si è in sella o a sera, stesi con la schiena rotta e la pelle ustionata sotto a un ventilatore che cigola, lucidi di sudore e con il baffo umido. Con i 15 euro che spendo, compro due borsate colme di cibarie. Il rischio che mi fermino in dogana per spaccio di merendine c'è. Rientro in albergo, scopro che il cicloviaggiatore mi ha cercata, ma ora è andato a dormire, e pazienza, ci conosceremo la prossima volta.
Prima di dormire, preparo tutto il necessario per domani: fototessere (fatte in Italia alla macchinetta, che costano come qui una notte in albergo due stelle) ritagliate, 50 dollari per il visto (ne costa 40 ma non ho tagli più piccoli a sufficienza), altri 50 dollari da cambiare (di Atm dove ritirare contante non ne vedrò per un po') e alcune banconote da 1 dollaro per tangenti, creste, schiume ed estorsioni. Il confine che sto per passare è noto per queste pratiche, e, per quanto ammiri chi si oppone alle ingiustizie perpetrate dalla polizia laotiana, io non ho intenzione nè di subire minacce, nè di essere trattenuta per ore, talvolta con forte pressione psicologica (il fatto stesso di non essere in possesso del passaporto lo è) o fisica (a quanto pare esistono sgabuzzini di attesa pieni di calabroni, in cui si viene "dimenticati" fino a quando non si raggiunge il mite consiglio di sborsare la "mancia"). Ergo preparo l'olio per gli ingranaggi. Il passaporto, il foglio d'ingresso in Cambogia... Insomma, c'è tutto, e speriamo che non ci siano intoppi.
7/8
Stung Treng-Muang Khong (Laos)
98km
Scrivo da una stanza semplice, pulita, di una casa antica riadattata a guesthouse; una finestra affaccia alla pagoda bianca e oro, l'altra al fiume. Il Mekong ovviamente. E' notte. Il silenzio grandioso (incredibile come una tale massa d'acqua che scorre a pochi metri sia così impercettibile) è interrotto solo dal frinire delle cicale e da versi di animali che non so. Uccelli notturni, forse, gechi, e chissà che altro. Mi trovo a Muang Khong, sull'isola di Don Khong, la più grande e tranquilla dell'arcipelago Si Phan Don, (letteralmente "4000 isole"). E' un luogo fuori dal mondo, lontano da qualsiasi ritmo, frenetico o lento che sia. Ha un suo tempo, un suo passo. E' quello lento dei barchini a remi che risalgono le correnti del fiume. Quest'isola, 18x8km, due villaggi di pescatori, una manciata di anime e tanta giungla nel centro e intorno, ha una strada asfaltata e la corrente elettrica, un ponte che la collega alla terraferma e due porticcioli, nonchè un mercato galleggiante dove si radunano tutti i venditori dell'arcipelago, ogni mattina dalle 4 alle 8. E' così attrezzata perchè città natale di Khamtay Siphandonethe, il postino che si è fatto strada nella vita fino a diventare il presidente del Laos dal 1998 al 2006; avendo qui una casa, si è premurato di sistemare la zona, diciamo. Non pensavo di riuscire a spingermi qui, oggi. Mi incuriosiva vedere questo mondo insulare d'acqua dolce, isolato, lento lento, dove non c'è nulla da fare se non riappropriarsi del proprio tempo. Ma temevo che il passaggio dalla Cambogia al Laos mi avrebbe fatto perdere molto tempo, e sarebbe stato faticoso al punto da impormi una sosta anticipata, sulla statale, in uno dei vari motel tristi che vi si affacciano.
Invece è andato tutto bene, anzi benissimo.
Questa sono io, stamattina, che scatto una foto davanti alla vasca dei pesci con nume tutelare dell'hotel. Penso: in caso, sarà l'ultima che troveranno nella galleria e la useranno con una musica strappalacrime nei servizi del tg. "Era una donna che amava l'avventura, la poesia, i viaggi in bici, e salutava sempre".
Esco da una Stung Treng ancora addormentata nonostante non sia prestissimo, e riattraverso il Mekong con un lungo ponte identico a quello di ieri, solo poco più a nord. Il cielo è velato e non fa nemmeno troppo caldo, ma l'atmosfera è un po' cupa. O probabilmente sto solo proiettando i miei timori sul paesaggio circostante, come ombre di una lanterna cinese.
I 62km di strada tra la città e il confine, pur non offrendo grandi scorci, scorrono lisci. Il Soardi mi aveva avvertita: asfalto distrutto, fondo orribile. Invece hanno riasfaltato di fresco, e ho un leggero vento a favore. Aggiungendo l'adrenalina, volo. Sono 4 ore di striscia grigia con intorno alberi, bananeti, marcite, risaie e minuscoli insediamenti tutti sbrindellati e polverosi. Diciamo che l'ultimo avamposto di Cambogia non è noto per la sua bellezza estetica e varietà paesaggistica. Le case sono in legno e hanno l'acqua all'esterno, da estrarre manualmente con la pompa. Di negozi non ce ne sono, e passano numerosi ambulanti con remork carichi di montagne di merce: abiti, accessori per la casa, giocattoli, cibo... Ci sono tanti bambini in giro a zonzo, che mi salutano forte. Niente scuole da queste parti.
Mentre pedalo spedita, assorta nei miei pensieri, mi si affianca un uomo in motorino. Indossa una divisa mimetica e ha un accenno di mostrine. Mi colpiscono i suoi occhi rossi rossi, la sclera completamente iniettata di sangue. Mi parla in khmer, e gli dico che non capisco. Seguita. Continua a farmi segno con il dito indice alzato, penso intenda "uno". Cioè, mi sta chiedendo se sono sola. Questa cosa davvero li ossessiona! Sorrido e fingo di non capire, e gli ripeto "Lao, Lao". Faccio il gesto della direzione con la mano, per die che sto andando alla frontiera (e non nei bricchi). Lui continua a starmi affiancato con sto dito in suso, e inizio a sentirmi a disagio. Per fortuna saluta e se ne va. Spero di non incontrarlo di nuovo, ai controlli in uscita.
Mancano ormai pochi kilometri al confine, e mi imbatto in un cippo con scritto Laos, di qua, e Cambogia, di là. In effetti, già da una decina i kilometri la strada costeggia la linea immaginaria che divide i due paesi, che passa proprio pochi metri in dentro, nel bosco. Chissà quanta gente taglia per questa scorciatoia... Ah no, è tutto minato!
Quando inizio a vedere un cimitero di camion fermi a bordo strada da entrambi i lati, dopo kilometri di nulla, capisco che ormai ci siamo. Seguo la strada, che comunque si dirama e non è facile capire quale sia il passaggio giusto. Arrivo a una sbarra molto alta, pensata per far passare le persone in motorino, ma non in auto. Indugio, mi par brutto passare sotto... Esce un poliziotto dalla guardiola accanto e mi fa segno di proseguire. Poche decine di metri avanti la strada si divide ancora; seguo quella su cui si affaccia un bar luridissimo che, sull'insegna, pubblicizza "clean toilets for tourists". Mentre leggo, un grido. Vedo un altro agente che si è sporto dai baracchini avanti e mi fa segno di andare lì. Agli ordini capo. Raggiungo gli uffici veri e propri. Le pratiche non si fanno nei gabbiotti lungo la strada ma all'interno di un vecchio edificio cadente. Lascio la bici in vista, portando dentro solo portafogli, passaporto e telefoni. Questi sono i momenti in cui a tanti viaggiatori è stata rubata la bici, e alla tensione dei controlli si aggiunge quella del timore dei furti. E' arrivato da poco un bus carico di gente, e c'è una gran confusione, ma agli sportelli "Arrival". Ai "departure", invece, nessuno. Mi affaccio e un tizio, senza neanche alzare gli occhi, mi fa segno di mettermi in coda con gli arrival. Provo al secondo sportello depature. Idem. A questo punto specifico: ma io sto uscendo dal paese, non entrando. La poliziotta, scazzata, alzo lo sguardo e mi fa segno di mettermi comunque in coda con gli arrival. Intanto, una coppia di italiani (riconosco l'accento da come parlano inglese) vivono il disagio opposto. Sono giustamente in coda agli arrivi, e vengono bruscamente dirottati alle partenze. Chissà perchè nei templi della burocrazia la divinità più venerato è la stupidità... Mentre aspetto, noto numerosi cartelli attaccati ovunque nell'edificio che recitano "Qui non devi pagare nulla". Sarà una frecciatina ai colleghi laotiani che chiedono le tangenti? In ogni caso, quando tocca a me, la pratica è rapidissima: vengono riprese le impronte digitali, scattata una foto, ritirato il foglietto di ingresso, PIM PAM il timbro e via.
Esco, rasserenata a metà. Ora arriva il bello. Saluto gli italiani, e pedalo verso un'altra sbarra abbassata, ma alta abbastanza da passarci in sella. Due turisti asiatici, che si stanno facendo foto davanti al monumento di benvenuto in Cambogia, mi tempestano di domande sul mio viaggio, e sono entusiasti. Proseguo tra file di camion parcheggiati nella polvere, sotto ai quali dondolano le amache dei camionisti, all'ombra, in attesa di chissà quali permessi. Raggiungo e supero un'altra sbarra, fotografo alla veloce la pagodina della frontiera e il "Benvenuti in Laos (PDR - repubblica popolare democratica, ma pare la sigla di un bestemmione) e mi butto di testa verso gli uffici. Qui, inizialmente, non c'è nessuno, neanche le guardie. Una ragazza che vende Sim, cibo e bibite su un tavolino, cambia valute e gestisce tutti i traffici (ma non è un funzionario statale eh, fa tutto questo in nome e per conto suo... Sarà la figlia di qualche poliziotto qui) bussa al vetro di uno sportelli e mi fa segno di affacciarmi. L'agente mi prende il passaporto e mi dà due moduli cartacei LUNGHISSIMI da compilare. Mi siedo con la ragazza tuttivendola, che mi presta una penna, e scrivo. Mento anche: mi chiedono l'indirizzo di residenza in Laos. Il nome di un contatto laotiano. Ma scusate eh... E allora fuori il primo nome di hotel dei paesini limitrofi, fuori il loro numero di telefono e via. Riconsegno i moduli e mi vengono chieste una fototessera (si può fare anche in loco per 5 dollari) e i 40 dollari di costo del visto. Ho solo un 50, e penso che i 10 di resto non li rivedrò più. Invece, dopo tante brighe, l'agente torna con il resto. Incredibile! Ma allora non sono così corrotti... Devo aspettare. Nel frattempo compro dalla ragazza una sim, di certo sovrapprezzata (10 dollari per un mese e 30GB), ma pace. Me la attiva sotto ai miei occhi, non pare una truffa. Mi faccio cambiare anche tutti i riel e 50 dollari. So che in Laos si va solo di cash, e gli sportelli dei bancomat non sono così diffusi... Mi prendo anche qualcosa da bere, perchè nel frattempo è uscito il sole e si sguascia. Arriva un bus colmo di ragazzi: uno, incuriosito, mi chiede da dove venga, dove vada. Mi spiega che lui è laotiano e sta tornando a casa per le vacanze, perchè studia all'università di Ho Chi Minh city. Fanno passare tutti davanti a me. Aspetto. Dopo una ventina i minuti mi chiamano a ritirare il passaporto. Mi fanno anche una (ulteriore) foto digitale. Sbircio dallo sportello e vedo che ci sono tre, e dico tre persone in divisa che timbrano il mio passaporto: uno tiene aperto alla pagina giusta, uno timbra, l'altro aggiunge un timbrino con la data. E riescono comunque a sbavare tutto l'inchiostro, bravi! Mi aspetto da un secondo all'altro che mi chiedano i due dollari. Invece no. Mi ridanno il prezioso documento, sorridendo. Sono così stupita che mi affaccio due volte e chiedo: "A posto così?". "Ma è a posto, posso andare?". Sì, sì. Ok!
Intanto vedo che il telefono si è collegato a internet. Mi allontano il minimo per non sembrare sospetta e comunico a casa che sono ufficialmente in Laos e non ho neanche dovuto pagare la tea tax. Assurdo! Mentre scrivo, una mucca detona in un muggito potentissimo alle mie spalle. Oh, stai calma anche tu, eh. Ora me ne vado!
Con una leggerezza che neanche vi dico, che mi permette di non sentire il caldo feroce che sta trasformando la strada in una graticola, muovo i primi colpi di pedale in questo nuovo paese, molto meno noto e visitato dei suoi grandi vicini Thailandia, Cambogia, Cina, Vietnam... La strada è una striscia di asfaltaccio scassato tra fitte pareti di giungla.
In mezzo a questo nulla, compaiono indicazioni di grandiosi cantieri per megaresort e campi da golf, casinò e alberghi di lusso. Tutto è scritto in cinese. Tutto è finanziato e di proprietà cinese. Il Laos non è nuovo a questa dinamica, già in atto da qualche tempo. Basti pensare all'enclave del gioco d'azzardo tra Vientiane e Van Vieng, tutta in mano a Pechino, o al treno ultraveloce che collega la capitale del Laos alla Cina. E intorno ci sono aziende che producono cemento e mattoni, e son cinesi. Insomma, si è capito chi porta il capitale, in questa terra ancora così poco sfruttata, che, evidentemente, ha rivelato del potenziale.
Dopo questo primo tratto disabitato, vera e propria terra di nessuno, si accede alla regione delle "4000 isole", Si Phan Don, arcipelago fluviale sul Mekong che viene in parte sommerso nella stagione delle piogge. E' una zona dedita al turismo, perchè ci sono cascatelle, laghetti interni e un clima in generale vacanziero e rilassato. Si trovano qui anche i resti della prima tratta ferroviaria del Paese, costruita dai francesi per bypassare le rapide e trasportare la merce via fiume e un tratto via terra. In ogni caso gran parte della popolazione vive ancora di agricoltura, allevamento e pesca. In effetti, dalla strada, che corre un po' distante dal fiume, si possono ammirare distese verdissime e ordinatissime di risaie, orti, laghetti colmi di loto e una quantità insensata di animali da cortile: le mucche vagano ovunque, libere, trascinandosi la corda che hanno legata al naso. I bufali d'acqua sguazzano allegri nelle pozze, tutti glassati di fango. Ci sono greggi di capre che riempiono l'aria con il loro scampanellare, e ovviamente non manca il pollame che razzola ovunque. Pare che nessuno badi al bestiame, ma la quantità di "Hello" che mi arriva dimostra il contrario. Sono soprattutto bambini. All'inizio non li vedo, mi accorgo che son quasi sempre appollaiati sugli alberi, al fresco delle fronde. "Ma hello giovani bertucce!". L'impressione generale di questa campagna, comunque, è di grane ordine, cura, e rigoglio. Dopo tutta la polvere e le marcite della Cambogia, qui quasi m stupisce che ci si prenda cura della terra e si cerchi di tenerla bene. Anche le case sembrano più a modo, molte in muratura, ma in generale ben tenute, con gli infissi verniciati e persino delle tendine... Bello Mi piace questo primo assaggio di Laos!
Raggiungo Khinak, la prima cittadina. Pensavo di fermarmi qui, avessi fatto tardi in dogana, ma è presto ancora e non sono stanca. Preferisco proseguire. Apprezzo qualche pagoda, le capre in mezzo alla strada sotto ai portici dei negozi, che cercano di rubare il cibo, e i tanti saluti entusiasti che ricevo. Gentilezza, sorrisi, good vibes e genuina curiosità sono di casa anche qui.
Certo i paesini sono proprio minuscoli e quasi non li si distingue dalle aree rurali circostanti... Ho anche la riprova che, effettivamente, gli Atm danno problemi: di due che ne incrocio, due mi sputano indietro la carta e non ne cavo nulla. Vabe', ci penseremo a Pakse, tra tre giorni, che è una città grande. Tanto per questo tempo i 50 dollari che ho cambiato bastano e avanzano.
Passato l'ultimo motel che avevo individuato su Maps, e che non mi convince perchè è isolato e fuori dai paesi, decido di fare una deviazione non programmata. Perchè non andare sull'isola? Perchè non vederne almeno una di queste 4000, e domani risalire il Mekong dell'altra sponda, e non da qui, dallo stradone? Imposto sul navigatore la città più grande delle due che si trovano sulla più grande delle isole. Don Khong. E' la più attrezzata per quella faccenda che raccontavo prima, del presidente, e ha diverse strutture. Seguo dunque una stradella lungo il Mekong e poi raggiungo un ponte (l'unico in questo arcipelago, per il resto ci si muove con i traghetti e i barchini) che mi porta sull'isola. Et voilà, così semplice che pare io ci abbia messo la testa per giorni e non sia una cosa decisa due minuti fa.
L'isola si presenta subito come un'oasi di pace, un mondo a parte. E' verdissima di campi e selva, e lungo la strada si affacciano graziose casette da presepe. Ci sono mucche e capre ovunque, pochissime moto, quasi nessuna auto, e i bambini vanno in giro a bande, in bici o a piedi, con le canne da pesca e i secchielli.
Il paese più grande è comunque una singola via di circa 1km. Inizia con la pagoda e finisce con il mercato mattutino del pesce. In questo kilometro ci sono qualcosa come 5 guesthouse che, online, hanno prezzi gonfiati. Vado nella prima, e infatti i 19 euro di booking sono, in loco, 7. L'albergo è una casa tradizionale con veranda sul fiume, pulitissima e tenuta perfettamente. Dall'altro lato della strada, la stessa famiglia gestisce un bar-ristorante a palafitta, anche perchè qui di negozi o altri luoghi dove reperire cibo non ce n'è. Mi accolgono due signore attempate. Una sta ronfando su una panchina all'ingresso, l'altra pratica lo sport nazionale, la corsa in ciabatte, per raggiungermi, temendo me ne vada. Non sa che non ho intenzione di fare un metro di più. La bella addormentata si desta. Una parla francese, l'altra inglese. Io faccio la splendida e rispondo in entrambe le lingue a entrambe, che non si pensi che son caprona! Sono molto flemmatiche, ma hanno tutte le risposte. Arriva anche una donna più giovane, sarà la figlia, con la nipotina di circa 4 anni che sta incollata allo smartphone e vede video rumorosissimi. In ogni caso, prendo la stanza e sono in pace col mondo.
Come spesso accade in questo viaggio, sarà il caldo, sarà la stanchezza di tappe quasi senza pause, appena sfioro il letto, ancor prima di farmi la doccia, sprofondo in un sonno nero e denso. Mi sveglia lo scampanellio di una mandria di mucche che si è fermata a brucare sotto alla mia finestra. Con una flemma degna del quasi mese e mezzo in sella in climi tropicali, mi risolvo a far la doccia e, mentre mi lavo, sento un gran vociare. Parole italiane. Ma dai, il caso ha voluto che gli unici altri turisti dell'isola decidessero di alloggiare qui, e fossero pure del Bel Paese? Non posso non affacciarmi, con la scusa di qualche foto al Mekong con la luce del tramonto. In effetti sono due coppie, circa miei coetanei, in viaggio dalla Cambogia a qui con i mezzi. Nasce subito un bel feeling, come accade tra compatrioti spiantati e nostalgici, e così il pomeriggio e la sera trascorrono tra fiumi di chiacchiere. Parliamo di viaggi, di lavoro, di avventure sportive... Uno di loro è un ex pro di enduro, quindi di bici si intende. Mi mostrano i segni dei morsi di sanguisuga, problemino che hanno riscontrato in un trekking in salsa khmer due giorni fa. Ceniamo insieme al ristorantino dell'hotel, dove la signora ci sta aspettando da tempo sotto a un lumino nel buio del paese deserto. Ordino riso e verdure con curry, e gli altri mi seguono a ruota. Il marito della cuoca deve correre in motorino da qualche parte, e torna con un sacchetto di verdure. Taglia, spadella, e questa delizia ci arriva in tavola. Veramente buonissima! Un solo appunto al riso glutinoso (sticky rice) che è l'alimento base della dieta di qui (ne mangiano 180kg l'anno a testa!). E', appunto, appiccicoso, ma tanto. Fa la mappazza. E' facile da raccogliere anche con le bacchette, ma difficile da mescolare ai condimenti e difficilissimo da deglutire!
La serata trascorre così serena, e ho modo di chiedere ai proprietari della guesthouse se è vero che, dall'altra parte dell'isola, dove si trova l'altra, più piccola cittadina, sia possibile prendere un traghetto per raggiungere l'altra sponda del fiume, visto che non c'è alcun ponte. Per me sarebbe ideale per tre motivi. Anzitutto, non devo ripercorrere la strada di ieri, allungando la traccia; poi ho modo di evitare il noioso stradone statale che scende sulla riva sinistra del Mekong, vedendo invece i villaggi più isolati. Terzo, comunque un traghetto domani dovrei prenderlo, perchè ho intenzione di visitare, dopodomani mattina, il Vat Phou, una sorta di piccola Angkor Wat laotiana, sito khmer coevo, induista, e forse con tracce antichissime, tanto che si sospetta sia il più antico luogo di culto del Sud Est asiatico. Barca per barca, tanto vale prenderla subito e levarsi il pensiero. Il problema è che, ogni volta che chiedo, ricevo una risposta diversa: il traghetto c'è, o non c'è. Per arrivarci deve attraversare la montagna. La selva. Ellamaddona. Vabe', ci dormo su e domani tiro la monetina. Testa vado a prendere il traghetto, croce vado, non trovo il traghetto, incrino le volte celesti a bestemmie e torno indietro.
8/8
Muang Khong-Champasak
103km
Che tappa, oggi! Che fatica, che meraviglia! E' uno di quei giorni nei quali si può dire che tutto è andato come doveva anche se niente è andato come doveva, ed è bellissimo così.
Mi sveglio presto e ben riposata, per ammirare dalla veranda il cielo basso del mattino sul fiume. Qui tutto è sempre uguale, ma cambiano i riflessi, i colori, i giochi di luce. In fondo, se il tempo è misura del movimento, qui lo si può cogliere nel diverso rincorrersi di acqua, cielo e nuvole. Incrocio gli italiani di rientro dalla visita al mercato mattutino. Quando sentono che ho ordinato un caffè, si fermano per berne uno anche loro, pima di noleggiare le bici e fare un giro tra i piccoli templi dei dintorni, in attesa dell'autobus notturno per Vientiane.
Finalmente la prova sensibile che il caffelatte e il Mekong hanno lo stesso identico colore!
Riguardo ad oggi, ancora non sono del tutto certa della bontà del mio piano, perchè il rischio di attraversare l'isola (montagna, selva erano le parole usate dalla signora) e non trovare il traghetto c'è, e comporterebbe poi un tappone molto molto lungo. Però poi salgo in camera e di pancia ho la sensazione che la barca ci sia. Altrimenti come fa la gente del posto? Per percorrere magari 10km, ne deve fare 90 per andare su al ponte e tornar giù all'altro ponte? Non ha senso... E se mi sbaglio, come si suol dire... "Chi non ha testa abbia gambe".
Parto senza traccia, perchè nè Komoot nè Maps sanno che di là c'è, o dovrebbe esserci, il barchino. Mi fanno entrambi prendere i ponti. Tra una città e l'altra, sui due versanti dell'isola, ci sono 13km, di cui 10 lungo le rive del fiume e 3 che tagliano nel mezzo. I primi sono piacevolissimi, in quel clima rilassato già sentito ieri. Passano pochissimi veicoli a motore e le strade son tutte per mucche, capre e bambini al pascolo. Non i dico gli "Hello" che si inseguono di via in via, e di casetta in casetta quando esco dall'abitato e iniziano i campi.
Arriva il momento di lasciare la sponda per tagliare nel mezzo l'isola, e qui mi aspetto la selva e la montagna. In realtà è una stradina sterrata ma pedalabile, con... A esagerare 50m di dislivello, in mezzo ad alberi del tutto identici agli altri che ci sono ovunque. Selva e montagna.
Quando scendo dall'altra parte noto subito una pagoda. Prendo la prima strada che arriva al fiume (è sempre il Mekong, che si divide intorno all'isola) e noto che ci sono dei piccoli attracchi in legno marcescenti. Di certo non c'è un porto, ma neanche un molo. Inizio a preoccuparmi.
Ci sono persone sia nei cortili delle case, sia all'ombra degli alberi. Chiedo. La faccio semplice: "Boat, boat" e con la mano indico una linea immaginaria perpendicolare al fiume. A seconda del gruppetto di persone cui chiedo, mi sento dire: sì, no, forse, non ho capito. Mannaggia a loro... Poi arriva lui, un ragazzetto che avrà 15 anni al massimo ed è talmente preso dallo snocciolare una specie di enorme carruba e fa fatica a parlarmi, pur volendo dirmi qualcosa. Non è proprio tutto lui, eh, ma mi fa segno di seguirlo. Ripete: "Boat". Mi fido, anche perchè non ho tante alternative. Mi porta poco oltre la prima curva della strada, dalla quale intravedo una rampa che scende in acqua. Ecco, quello pare un punto sensato per attraccare! Il fanciullo delle carrube sparisce. Chiedo ad altri suoi coetanei che stanno bivaccando nel prato, e mi dicono "nonono no boat". Ah. Poi mi rivolgo a un anziano sdraiato con la schiena sulla sella del motorino e le gambe sul manubrio, e lui dice invece "sìssìsì". Ed ecco là che, in lontananza, si intravede sospeso sull'acqua un microscopico barchino.
Ricompare il ragazzo, e mi fa segno di andare con lui verso la rampa. Cammina tutto storto e continua a sgranocchiare, è incredibile! Ma ha ragione su tutta la linea. Il barchino, che è un secchiello di legno col motore, arriva, attracca (cioè si fa trascinare dal giovanotto con un bastone di bambù) e cala pure una rampa per fa scendere una passeggera. Poi tocca a me salire. Isso la Signorina dal culo pesante, mi carico io, pago la corsa (0.5 euro, un furto!) e si parte. A bordo ci siamo solo io e il capitano. Il fiume, pure essendo solo un ramo, è ENORME, e il lieve legno su cui navighiamo minuscolo e instabile. Devo stare in piedi al sole tutto il tempo (che non è così breve perchè andiamo pianissimo, soprattutto nel tratto controcorrente) per tenere la bici, e pure ben salda a gamba larga, perchè tra vibrazioni e onde il rischio di finire in acqua è alto. Però che vista sul Mekong! Ormai è il mio gioco preferito: attraversarlo più volte possibile, su mezzi sempre più improbabili e pericolosi.
Una volta di là sbarco in mezzo al fango, al punto che temo, poi di essermi riempita anch'io di sanguisughe perchè sento pungere nelle scarpe. Ma no, son solo tutti gli altri parassiti e le funeste acque di uno dei fiumi più inquinati al mondo, niente di grave!
Inizia qui una strada ALLUCINANTE, non tanto da pedalare, anzi, per quello pure molto bella, anche se faticosa. Allucinante nel suo concetto. Dunque, fatevi l'immagine. Fiume. Sponda sinistra, villaggi, paesi, strada asfaltata che li collega. Sponda destra, villaggi, paesi. A collegarli una pista infame, di fango molle quando piove (e per sei mesi all'anno piove tanto), sabbia e polvere quando è asciutta. Buche enormi, tolon onuleé, avvallamenti, voragini, paludi nel mezzo. Ecco, questa è la strada. Quasi 90km così. Chi vive da questo lato del Mekong, se usa un mezzo a motore, non può pensare di spostarsi a più di 10-12km/h. In bici supero tutti, motorini, furgoni, le rare auto, i vari trabiccoli e tricicli... Perchè in bici si fanno manovre più fini, si è più agili, e nelle buche grandi si scende e risale come da un cratere. Invece i mezzi fan saltare raggi e sospensioni e perdono merce... Insomma, tutti coloro che abitano qui, se vogliono spostarsi non a piedi, devono considerare di andare pianissimo. Per 50km sono almeno 4 ore di percorrenza. Altro modo di intendere il tempo!
Non che da questo lato ci siano metropoli o chissà che, ovviamente. Ci sono case sparse e qualche villaggio. Però ci vive gente, e non poca, nell'insieme. Solo molto sparpagliata su una pianura fertile, che gode della massiccia presenza di acqua. La pista, rossa rossa, è una linea che segue il corso del fiume, se ne allontana un poco e poi torna a ridosso. Intorno, vegetazione rigogliosa, risaie verdissime anche nei giardini delle case e una quantità di mucche, capre, bufali, galline e cani da non crederci. Fa un caldo micidiale, naturalmente, ma questo ormai s'è capito.
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ma i cavi elettrici tenuti su con pericolanti bastoni di bambù? |
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le vacche sacre |
Al primo paesino, se così possiamo chiamarlo, approfitto dell'unico negozio per far scorta di acqua. Non ho ancora svuotato le borracce, ma pedalo pianissimo, a causa del fondo estremamente dissestato, e non so nè quanto ci metterò nè quando avrò di nuovo modo di trovare da bere. La mia presenza desta curiosità generale. Il proprietario, un signore dai tatuaggi sbiaditi, un po' da galera, un po' simili ai miei, mi parla tantissimo in laotiano, o meglio, probabilmente nel suo dialetto. Piccola parentesi. Il Laos ci sono tantissime etnie, decine, e a gruppi parlano lingue o dialetti diversi, che è il sistema con cui vengono poi divise e classificate. Non tutti i laotiani parlano, leggono e scrivono la lingua nazionale, anzi, son più quelli che si servono quasi esclusivamente del loro idioma. Quindi ciao proprio, a capirsi. In ogni caso lui parla, vuole vedere la bici, le borse, il navigatore... Poi arriva la moglie che mi sfodera tutto l'arsenale di merendine, brioscine, patatine e cibarie che hanno in vendita nel loro negozio-cubo di lamiera affacciato al nulla polvere. Sono prodotti esposti da così tanto tempo che le confezioni sono sbiadite e quasi illeggibili. Mi limito all'acqua. Lui poi mi fa vedere che ha un gonfiore sulla mano, non so se è una ciste o un tumore... Non oso immaginare cosa significhi avere un problema di salute in posto così isolato. Mi dispiace davvero per lui, cerco di comunicarglielo. Indica le mie cicatrici sui gomiti, e annuisco. Non so cosa volesse dire, forse che dovrebbe essere operato... Nel frattempo arrivano i figli, chiamati dalla moglie per salutarmi. Sono tutti adolescenti e un po' timidi, e li vedo accalcarsi uno sull'altro e far ciao con la mano.
Riparto e incrocio ben due kilometri di asfalto, forse in concomitanza di un approdo sul fiume. Ovunque io guardi, ci sono animali al pascolo. E' pazzesco! E vanno in giro così, soli e liberi, nessuno li controlla. La cosa buffa è che, mentre i cani a volte (raramente) sono un po' territoriali e mi inseguono, ma basta un NO ad alta voce per fermarli, le mucche hanno paurissima della bici, e i bufali paurissimissima. Scappano terrorizzati, alla rinfusa, nel panico proprio. E si accorgono di me quano ormai sono molto vicina, quindi mi spavento anch'io perchè non so esattamente da quale parte intendano scappare... Son riuscita finora a non farmi investire, devo essere acciaccata da uno zebù? L'altra cosa strana è il verso che fanno i bufali d'acqua. Non muggiscono. Fanno un mormorio che pare la lallazione dei bambini. Acuto, piccolo. Del tutto in contrasto con la mole di questi animali, le loro ampie corna e le croste di fango che si portano addosso! Le più tranquille sono le capre. A loro non interessa nulla, stanno lì, in mezzo alla strada. Se le schivi, bene. Altrimenti, ti fai male anche tu.
Come si può intuire da quest'ultima foto, il cielo, fino a un attimo prima terso di azzurro steso e luce rovente, si annuvola. Ma nel modo preoccupante che a volte accade qui. Un muro nero. Tuoni, forti, vicini. Lampi. Vento teso. Ci siamo. Nel giro di poco, inizia a diluviare. E io sono nel mezzo del nulla. Nessun riparo, non una tettoia, niente. Decido di proseguire, mentre la strada diventa una zuppa di fango scivolosissima, che si mangia le ruote. Vedo lampi correre vicini e in orizzontale. A quanto pare qui sono un bel problema, ammazzano un sacco di persone ogni anno e sono proprio un fattore di rischio cui la popolazione viene educata. Non so perchè, ma da quando ho scoperto questo dettaglio, ad ogni temporale sento puzza di bruciato.
Per fortuna, dopo un'oretta di pioggia violenta, come è cominciato, smette. Nel giro di un attimo torna il sole e asciuga tutto, me, la bici, che è sporchissima di sabbia e fango e cigola in modo pietoso, e la strada. Restano solo grandi pozze allagate e rivoli d'acqua fangosa che scivolano verso i campi. Evviva, anche oggi non sono stata incenerita dal fulmine!
A circa 15km dall'arrivo un grande portale con cartello segnala l'inizio dell'asfalto. Sembra l'arrivo di una gara... Ma che mi significa? In ogni caso, bene così: schiena e braccia cominciavano a soffrire.
Al primo paese, questo sì, degno di tale nome, mi fermo un attico a scrostarmi un po' di fango di dosso (mi sto trasformando in un bufalo d'acqua!) e bere una CocaCola fresca. Mentre mi riposo, noto che il cielo si sta di nuovo imbronciando, e la gente si carica in gran fretta su carri e carretti per tornare a casa. Ma uffa!
Mi rimetto in sella, visto che non comincia a piovere e magari riesco ad arrivare prima. In relatà poi si vedranno colonne d'acqua tutto intorno, ma qui solo qualche goccia. Da qui in avanti la strada resta asfaltata, anche se devastata di buche, avvallamenti, pezzi esplosi e qualsiasi genere di ammaloramento vi venga in mente. Incrocio il primo mercato coperto laotiano, che, così di sfuggita, mi pare decisamente più roncio, caotico, marcescente e problematico di quelli visti finora. Sarà da approfondire, la faccenda! All'esterno ci sono i carri con il bestiame che pascola intorno, e anche i banchi dei macellai. Penso siano prodotti a km0 proprio.
Per il resto son casette e piccoli negozi che litigano con le capre per non farsi rubare gli snack, case tradizionali in legno e tantissimi furgoni con i cassoni stracarichi di bambini. Non vi dico gli "Hello!". Comunque anche qui son tutti sorridenti e salutosi, grandi e piccoli.
Arrivo finalmente in vista della catena del Monte Kao, all'ombra della quale sorge il complesso khmer del Vat Phou, che visiterò domani. Vat Phou significa letteralmente "tempio della montagna", considerata sacra perchè ricorda la forma del lingam, il fallo sacro venerato nei culti induisti e soprattutto dagli khmer. Questo tempio viene chiamato "la piccola Angkor" e, per quanto non paragonabile, è comunque una testimonianza importantissima della storia locale, dell'arte khmer e anche delle civiltà precedenti, che già qui avevano costruito dei luoghi di culto, addirittura nel V secolo.
Insomma, ecco la montagna del santo pisnélo.La mia intenzione, per oggi, sarebbe stata quella di fermarmi presso la Davone (o Daon) guesthouse, una struttura con ristorante proprio sull'incrocio tra la strada dove sto pedalando e quella che svolta al sito archeologico, che dista solo 1.5km. Ideale, no? Ora arrivo, mangio, dormo e domattina, prima di rimettermi in sella, visito il tempio. Tanto mi son ritagliata una tappa corta, di 40km, e posso anche vedere Champasak, cittadine coloniale a 10km, e Pakse, quarta città del Laos per popolazione, dove farò sosta. Peccato che la Davone guesthouse sia chiusa. E anche le altre numerose strutture nei dintorni. Bassa stagione, sito Unesco tra i meno visitati al mondo (il biglietto costa 2 euro), giornata di pioggia... Insomma, nulla. Tutto chiuso. Guardo Maps, Champasak, la città, dista 10km. In periferia ci sono delle strutture, vorrà dire spingersi un po' oltre e tornare indietro domani di qualche km. Pace. Ne vale sicuramente la pena. Individuo il "The view" come il più vicino e il più economico, perchè in città i prezzi sono più tarati sui turisti. Sembra un bel posticino proprio sul fiume...
Arrivando in loco, mi imbatto anche in un piccolo tempietto con statue e alberi festonati... Bello! Che sia un buon segno, visto che oggi sta succedendo un po' di tutto e, a quest'ora, vorrei smettere di gestire imprevisti.
In effetti tutto va come deve, qui. Vengo accolta da una ragazza gentilissima che parla inglese, mi dà la stanza e mi mostra il bel cortile lambito dalle correnti del Mekong. Siccome siamo in periferia di una piccola cittadina, c'è anche il servizio ristorante e bar (con colazione inclusa), perchè intorno son solo bananeti e risaie.
Naturalmente ne approfitto, visto che non mangio nulla da ieri sera, ad eccezione di un caffè e due barrette. Vado di pallotta di riso glutinoso morte-per-asfissia con verdure saltate (spezie e salsine sono da leccarsi i baffi!) e azzardo anche un'insalata di papaya, che è un piatto tipico laotiano. Qui è tutto pulito e vedo che preparano le pietanze al momento, quindi mi fido. L'insalata di papaya è inaspettatamente piccantissima, ma squisita, perchè l'aspro di papaya acerba e lime si combina al peperoncino, al sapido della salsa di pesce e al dolce dello zucchero di palma. Anche le consistenze sono equilibrate: verdure morbide e arachidi croccanti. Davvero una prelibatezza!
L'unica cosa con cui sto ancora avendo problemi sono i soldi: sembra che le mie carte non piacciano agli Atm e ai Pos di qui. La ragazza dell'albergo mi ha proposto di portarmi in motorino in centro per provare a ritirare presso una banca vera e propria, speriamo bene! Per fortuna domani ho tempo: in sella mi aspettano meno di 40km, mentre avrò modo di visitare il Vat Phou, Champasak e Pakse. Un'infilata di meraviglia!
Avete notato che la volpe i primi giorni si è tagliata i capelli?
RispondiEliminaA me è venuto in mente Gianni Morandi:
C'era una volpe che come me
Amava la bici e il cicloturismo
Girava il mondo,veniva da
S.pietro all' Olmo
Era bella e accanto a sé
aveva mille genti se
Diceva i'm teacher
I'm cycle tourist
I'm lady fox
From yesterday.
Si godeva, la libertà
Ma ricevette una lettera
I suoi racconti mi regalò
Fu richiamata in Italia
Stop con felicita
Stop col cicloturismo
Mi han detto era in Vietnam a studiare i vietcong
Tatatatatatatatatata
C'era una volpe che come me
Amava la bici e il cicloturismo
Girava il mondo ma poi fini'
anche un giretto in Vietnam.
Capelli lunghi non porta più
Non suona la chitarra...ma
Una bicicletta che sempre da
La stessa nota il pedalar
Ha sempre più amici
E sempre più fans
Vede tanta gente
E anche di più
Nel suo paese ritornerà
La preside l'aspetta già
Stop con felicita
Stop col cicloturismo
Nella pelle cute più non ha
Ma 2 tatuaggi o 3
TATATATTATATATATATATATA
Naturalmente la lettera che la Volpe 🦊 riceverà, sarà quella elettronica,una E~MAIL che le ricorderà di tornare a scuola, e poi perché la preside l'aspetta?
RispondiEliminaPerché la volpe ogni anno da 2 anni,sta organizzando nella scuola dove insegna, passeggiate in bicicletta da circa40 km per gli alunni, è un' evento che sicuramente la preside vorrà replicare e continuare!