Pakxan-Ban Woen
105km
+
16/8
Ban Woen-Vientiane
45km
1.30 di notte, diluvia. I tuoni fanno tremare i vetri delle finestre. Fuori tutto tace. Anche le prostitute, che prima del temporale fumavano e ridevano sguiatamente in strada, se ne sono andate. Vientiane è la capitale più silenziosa e dimessa che abbia mai visto. Nella via della movida, del turismo, dei mercati e locali notturni, già da qualche ora si sente solo il rumore della pioggia, come fossimo in aperta campagna. In questo momento non ho né la bici né il grosso dei miei bagagli, e per tre giorni dovrò sperare con tanto ottimismo di rivedere la Signorina Felicita e le mie cosine essenziali per proseguire il viaggio. Qualcuno pensa che Vientiane, dove sono attualmente, sia la destinazione finale del viaggio, ma non è affatto così. Ho ancora quasi 1000km di strada da percorrere, 15.000 metri di dislivello e due settimane di tempo. Devo tornare ad Hanoi, in Vietnam, e in mezzo ci sono i Monti Annamiti, con la loro mole tanto affascinante quanto capace di intimidire anche chi non teme la fatica. Gli ultimi due giorni sono stati densi, forse anche perché pedalo senza soste da quasi due settimane, da quando ho lasciato Siem Reap, e nelle gambe ho 51 giorni di viaggio. Ho superato i 4000km, e ho bisogno di fermarmi un attimo. Torno a ieri, seguitemi.
Mi sveglio presto ma cerco di dormire ancora un po'. Impossibile. Nemmeno qui c'è l'idea di rispettare una fascia oraria di silenzio, e, in generale, di non fare casino dove si potrebbe disturbare. Chi si alza alle 5, per darsi la carica, piazza la musica a palla dallo smartphone. Chi inizia a lavorare alle 6 in albergo canta, sbatte porte, fa rumore. Gli ospiti parlano tra loro a voce alta, come fossero brilli, o scrollano video sui social a tutto volume. I bambini sono delle bertucce iperattive tra capricci e giochi, e quindi no, non riesco a dormire oltre. Non esco subito, comunque, perché oggi mi attende una tappa abbastanza breve (80-90km) e tranquilla, di asfalto e pianura. Almeno così credo, qui è impossibile fare previsioni. E se arrivassi troppo presto (dove, non si sa. Vado finché ho voglia di pedalare) mi troverei bloccata in qualche stamberga lurida in un villaggio dove le attrazioni sono: Gianfilippo lo storto che ha preso le pulci e quando si gratta fa facce buffe; Mariolina che sa decapitare i rospi con la forza delle chiappe; Carlo Usbergo che riesce a produrre il formaggio con le caccole dei piedi. Quindi meglio fare con comodo e poi arrivare a un orario di quasi cena. Ne approfitto per studiare qualche ideuzza riguardo al tatuaggio che sigilli questo viaggio. Mi piacerebbe proseguire con il Sak Yant dello scorso anno, fatto a Singapore. La mamma è estremamente preoccupata a riguardo, è l'unica raccomandazione che mi ha fatto prima di partite. Non "stai attenta", non "bon courage e torna viva e intera". Solo "non farti un tatuaggio troppo grande".
Il momento apicale e straniante del casino mattutino si raggiunge con i jingle stile Zecchino d'oro dopo abuso di LSD e il consueto messaggio del sindaco in filodiffusione. Nei paesini al mattino e alla sera non si scappa dal pistolotto, ci sono altoparlanti a ogni palo della luce. "Buongiorno cari concittadini, andate a lavorare ché dovete pagarmi lo stipendio".
Bene, dopo questa decido che è tempo di mettersi in sella. Mi muovo a rallentatore, sono abbastanza cotta e mentalmente intorpidita. Penso di avere la pressione molto molto bassa, a causa del caldo e di una mia già manifesta propensione. Con calma ma sono on the road again. Il cielo è uggioso e la strada ancora bagnata delle piogge notturne. Nelle pozzanghere si riflettono i colori, comunque coperti da uno strato di fango rosso, delle bancarelle che vendono a bordo strada pesciazzi enormi freschi, oppure secchi e stesi in croce e appesi come aquiloni. C'è anche vento, e si muovono, come se dovessero spiccare il volo da un momento all'altro.
A 35km percorsi ho già finito l'acqua e quindi piego verso una stazione di benzina con annesso minimarket. Mentre appoggio la bici sento una voce maschile, dall'interno del negozio, invitarmi a entrare, in perfetto inglese. Mi affaccio, saluto e compare questo omino dal fisico asciutto, con la pelle di cuoio istoriata di tatuaggi che si intravedono a malapena. Glabro, vestito con una termica nera e jeans, non ha l'aspetto del laotiano medio. Per qualche patologia ha le iridi grigie, quasi bianche, che si confondono con la sclera. Penso ci veda a malapena, ma mi riconosce subito come europea. Azzarda: "Portoghese?" (Forse perché ho la maglia colorata con le palmette che fa un po' surfer). "Italiana". Ahhhhh. "Sono stato in Europa, 15 giorni, e in quel viaggio ho visto: Italia, Francia, Germania, Svizzera, Inghilterra e Spagna. Un po' di fretta. Sono anche stato negli USA, sono comodi e tutto è facile ma non mi sono piaciuti. Ognuno pensa per sé. Infatti stanno facendo una brutta fine". Usti, le spara alte il ragazzo! È la prima volta che trovo un laotiano abbastanza fluente in inglese da poter fare una conversazione degna di tale nome. "Eh, in effetti non è un gran periodo per gli States... Però anche nel resto del mondo non tira questa aria fresca. Tra guerre e genocidi in corso, nazionalismi galoppanti... Come la si vive qui?". "Qui la gente è ignorante. Non stiamo andando da nessuna parte. Abbiamo risorse, abbiamo una natura magnifica, potremmo avere aziende, turismo... Ma il Governo non investe nell'educazione e la gente non capisce quanto sia importante, sia per sé che per tutto il popolo. Qui pochissimi fanno l'università o prendono un master, vanno subito tutti a lavorare. E intanto la Cina ci sta comprando e manda qui i suoi ingegneri e i suoi tecnici a disporre della nostra terra e della nostra acqua. Il Vietnam ha fatto bene, invece. E infatti sta meglio. Noi e la Cambogia siamo fermi". "Sono una docente, capisco molto bene questo discorso sull'importanza dell'educazione... Comprendo anche il pessimismo, ma avete pure avuto alcuni decenni travagliati, lo scorso secolo, e magari serve solo tempo". "Sì, sei ottimista, vorrei esserlo anch'io. Ma mi guardo intorno e vedo solo scelte cieche e un Governo che non sa guidare un popolo". Eh, questa è forte, qui, in questa democrazia tra così tante virgolette da svuotarsi di significato. Sospira, fissa il vuoto, mi chiede del viaggio e resta stupito dai dettagli, dai kilometri giornalieri, dal tempo impiegato. Mi avverte che ci saranno tante salite toste, e che però le montagne qui sono bellissime. Il suo luogo del cuore, per andare in vacanza, è a 100km da lì. Indica verso le alture. "Dentro, in alto, lontano da tutto. Le città mi piacciono per starci pochi giorni, ma non sono rilassanti. Nella natura si sta bene invece. Al mattino, lì dove vado, c'è silenzio, e puoi bere un caffè al sole senza sentire caldo. L'aria è buona". Mi fa tenerezza questo omino così colto per la media locale, che ha viaggiato (cosa rara per i laotiani, che raramente possono permetterselo) e ha un pensiero critico strutturato nonostante la propaganda continua... E che si sente incastrato in una realtà ferma e deludente, e allora scappa sui monti e cerca rifugio tra i boschi. Parliamo ancora un po', sembra non voglia lasciarmi andare. Io però ho ancora parecchi kilometri davanti (che lui chiama kilos) e lo saluto. Sento che va dalla moglie (credo) che è ai fornelli alla tavola calda annessa al negozio e le racconta della nostra conversazione. Proseguo e ascolto musica per non far spegnere il serbello torpido. Oggi è Ferragosto, a casa c'è chi si starà preparando per una giornata al mare, o di grigliata in compagnia, di feste improvvisate, sudate, a petto nudo sul Ticino, o pettinate con la camicia bianca e un panama da sfoggiare insieme all'orologio buono. Io son qui in un punto imprecisato del Laos, tra fango e polvere, ad ascoltare Dylan e sentire così chiare le sue parole:
"How does it feel, how does it feel?
To be on your own, with no direction home
Like a complete unknown, like a rolling stone".
E l'eco della musica sembra risuonare ovunque, tra la giungla e il Mekong, i villaggi assopiti e le pendici dei monti.
"How does it feel, how does it feel?
To be on your own, with no direction home
Like a complete unknown, like a rolling stone"
Prima di un posto di blocco, trovo una fermata del bus con tettoia e panchina. Incredibile. Non vedo arredo urbano per appoggiare le chiappe da due settimane. Mi fermo per pubblicare sui social il nuovo post del blog, e l'operazione richiede abbastanza tempo perché io diventi la nuova attrazione del paese. Venghino siori venghino! Il circo della volpe a pedali è arrivato in città! Gli adulti lanciano continui sguardi antisgamo, finché non li incrocio e sorrido, e allora son tutti contenti di ricambiare e salutare. I bambini, invece, mi fissano proprio, ma per interi lunghi minuti. Sorridono. Ma non distolgono lo sguardo, quasi non sbattono le palpebre. Vanno via solo per chiamare i loro amici, e da due diventa tre, cinque, otto. Io li saluto tutti e dico qualcosina in inglese ma non arriva. Arriva invece un fortissimo abbiocco, ma proprio un sonno di melassa appiccicoso, invincibile. Mi si chiudono gli occhi e mi ciondola la testa ("pesi i pomm" si dice in milanese), ma la situazione impedisce il pisolino e devo svegliarmi fuori da lì. Cosa che mi costa uno sforzo di volontà che neanche vi dico. Altro che Sisifo.
Ma darmi una bella botta di adrenalina e cortisolo ci pensa la strada. Fino a Thakhek, anche la statale era un colabrodo scassatissimo. Ma da Thakhek pedalo su un asfalto nuovo, liscio, perfetto. Un rosolio.
Logica portava a pensare che, avvicinandosi alla capitale, le strade andassero migliorando, e che fossero state rinnovate da Vientiane verso le periferie.
E invece no.
Qui, ormai si sa, nulla è prevedibile.
Il benzinaio me lo aveva detto, ma pensavo intendesse strade brutte per il traffico. Invece intendeva proprio strade orribili per il fondo! Un metro indietro, perfetta. Un metro avanti: ghiaia, sabbia, buche, bordi franati per metri dentro a fossi profondi, gobbe. Il dramma è che, ovviamente, qui il traffico è più intenso. Non che ci siano tante auto, e i motorini son nel solito numero. Ci sono più mezzi pesanti, però. È zona di cave. E non vi dico quanta polvere alzino, passando. La visibilità è estremamente ridotta, si respira a fatica e, per di più, tutti fanno slalom assurdi per evitare le buche e quindi in entrambi i sensi di marcia i mezzi si muovono in modo imprevedibile e repentino. Io pure sono costretta a stare ora in mezzo alla strada, ora sul bordo estremo che a volte frana. L'unico lato positivo del fondo così disastroso è che, in generale, la velocità media è bassissima, quasi uguale alla mia. Infatti in bici le asperità del terreno si aggirano facilmente, mentre con un Tir su strada stretta proprio no. C'è anche un doppio rimorchio ribaltato fuori strada, in un campo più basso, che sicuramente è finito lì per manovra azzardata.
Siccome pedalare così sta diventato faticoso e la gola punge per la polvere respirata, intorno al kilometro 85 inizio a fermarmi in ogni paesino in cerca di alloggio. I villaggi si susseguono a 5-10km di distanza uno dall'altro e, sulla carta, tutti hanno più di una struttura. Alcune sono dichiaratamente case chiuse, con signorine e karaoke e alcolici, altri sembrano i classici motel per chi vuole intimità in una società dove tutta la famiglia allargata vive sotto allo stesso tetto, nella stessa stanza. Il problema è che faccio la fine di Maria la notte di Natale. Busso a porte che non si aprono. Sembra che, in bassa stagione, i proprietari approfittino della mancanza dei clienti per fare lavori di ristrutturazione, o chiudere e lasciare tutto ad ammuffire per sei mesi. Insomma, passo 5 alberghi e nessuno ha modo di ospitarmi, tranne uno che tralascio perché è una capanna in mezzo al bosco che sa di inizio di film horror.
Il sole pian piano si abbassa e, tra nuvole e polvere, pare che già stia facendo buio. Inizia a salirmi una leggera ansia, già nota da altri viaggi, ma non in questo, di non trovare un posto per la notte. Proseguo spedita, per quanto il fondo lo consenta. Invento un nuovo impropero, per quando passano i camion a filoculo sollevando terra e sassi: porco lao!
A 105km finalmente trovo un posto per fermarmi. Non è neanche un villaggio, che sta qualche kilometro oltre (Ban Woen). È un agglomerato di casette isolate. E, tra queste, la Bangone Guesthouse. Da fuori sembra chiusa e smembrata dai lavori di ristrutturazione, ma il cancello è aperto... Passo in una palude fangosa, mi affaccio, e trovo una signora e la figlia adolescente che, pur non parlando una virgola di inglese, mi fanno capire che sì, hanno una stanza e costa 4 euro. Ma top! Subito! Si tratta, per altro, di un minibungalow in muratura, con condizionare, sedie, acqua calda e letto pulito. L'unico problema sono i vicini, due operai che passano la sera a ruttare e scoreggiare e scaracchiare catarro così sonoramente da sovrastare l'audio dei video che sto guardando sul telefono. Ma pace. Faccio spesina e do fondo alle scorte di cibo che porto con me per allestire una cenetta, e quando vado a chiedere acqua bollente alla "reception" mi si apre un mondo. Non è una reception, è la casa dei proprietari, che vivono sotto alla tettoia. Padre, madre, due figli adolescenti. Al centro c'è un grande tavolo di legno grosso, con sgabelli attorno. Ai bordi i letti che fungono anche da divano, con cuscini e coperte, e tavolini con sopra la boccia dell'acqua, il bollitore, piatti sporchi pieni di insetti, utensili per la casa e la cucina, una lavatrice. I fornelli, a gas, stanno a breve distanza, sotto un'altra tettoia, dove si trova un cucinino. In questo momento. In questo momento ci sono solo i due figli. Lui è così chiuso su un gioco al telefono che neanche mi vede. Lei anche, ma, quando saluto, alza gli occhi, capisce la richiesta e si prodiga subito. Comunque non si stacca un istante dal gioco, e intanto parla in live con i suoi amici online e prosegue, facendo tutto con una sola mano. L'altra non si scolla dallo schermo. Che strano connubio, che apparente contraddizione. Questi giovani non crescono in una casa con quattro pareti, ma hanno 5G e videogiocano da professionisti come io, ad esempio, non ho mai neanche pensato di fare. Chissà se ha ragione davvero, il benzinaio, a dire che qui non stanno andando da nessuna parte, o semplicemente è una direzione diversa da quella che ci si sarebbe immaginati!
La notte passa tra zampette di insetti che mi camminano e ronzano addosso e rumori molesti dei vicini, che, se non altro, se ne vanno molto presto e molto sonoramente che è ancora buio. Mi alzo tutta storta e sonnolenta, ma non perdo tempo. Oggi si arriva a Vientiane. È il punltimo punto sulla mappa. È la porta di ingresso all'ultima grande avventura nell'avventura, le montagne. E poi non vedo l'ora di tornare in un ambiente urbano, familiare, dove riconosco ciò che vedo e non ci sono otto metri di gap socioculturale tra me e ciò che mi circonda. Non me ne abbiate, ma ogni tanto devo tornare non nel comfort, ma almeno nel comprensibile. Mi preparo, saluto, ringrazio e salto in sella senza neanche bere un caffè: me ne concederò uno appena avrò modo, ma che sia un vero caffè, in un vero locale, con le sedie e i tavoli, un tetto e una porta. La prima metà tappa, circa 20km, è sempre sulla statale, sempre disastrata e improponibile per le buche, ma meno polverosa perché questa notte ha piovuto. In compenso, è una gran fangaia. Mi stupisce vedere come interi paesini stiano proprio immersi nella palta rossa e densa, scivolosa, che si appiccica. Vedo bimbi che pescano direttamente con il filo, senza canna, nelle pozze di scolo. Adulti in camicia da ufficio, diretti in città, che cercano di camminare senza sporcarsi le scarpe. Una nonna tiene per mano il nipotino che cammina a malapena, stanno andando a far spese, e lui sguazza in una pozzanghera con l'acqua che gli arriva alla vita e pare debba affondare del tutto, mentre lei la circumnaviga incurante del fatto che il bimbo sia più infangato di un bufalo. Mi chiedo come le persone qui vivano questi disagi. Per loro sono normali e inevitabili, perché ci sono nati e sono abituati, o c'è qualcuno che magari si incazza e vorrebbe poter uscire di casa senza affondare nella melma fino al ginocchio, e magari avere una strada normale che permetta di spostarsi in sicurezza. Tanto più che qui si viaggia nei cassoni, appollaiati, stipati sui mezzi più improbabili, mica seduti bene e con le cinture allacciate...
Tra un porco lao e l'altro, arrivo al Cimitero rivoluzionario nazionale e poi al punto in cui devo lasciare lo stradone.
Ma non prima di essermi fermata a un Amazon Cafè. Oh, il mio big hot latte non me lo leva nessuno! Il locale è pienissimo e devo aspettare del buon tempo prima di far colazione, perché, venendo da fuori Vientiane, per 200km non c'è nulla fuorché baracchini improbabili, e quindi qui diventa una sorta di porto sicuro, di ultima Thule. Ma va bene, nell'attesa mi evito un temporalino passeggero.
Quando riparto, imbocco strade che mano a mano portano in centro, in una strana terra di nessuno che è ancora campagna, con le marcite e le mandrie al pascolo, ma mostra già i sintomi dell'ambiente urbano. È come se i villaggi fossero sempre più ravvicinati e grandi, e popolati, e trafficati, e poi spunta un supermercatino qui, un negozio di elettrodomestici là... È un passaggio lento di zone ibride e contraddittorie. Su una salitella vengo superata da un tuktuk scassone che trasporta due signore in sarong e fascia ricamata tradizionale, capello tinto di arancione e pelle molto scura. Mi guardano, le guardo, ci sorridiamo e SDREEEEENG! il tuktuk acchiappa una buca e va letteralmente in mille pezzi davanti ai miei occhi. Come in un cartone animato vedo saltare via molle, viti, pezzi di carrozzeria... E il povero conducente scende in gran fretta a raccattarli uno a uno dal fango. Che vita grama.
Ormai però ci siano quasi. Della campagna quasi non resta traccia, mancano pochi kilometri al centro. Passo dal Pha That Luang, luogo sacerrimo per i laotiani. Su stupa del III secolo ne fu eretta una dorata di 44m per volere del re che spostò la capitale del regno Lan Xang da Luang Prabang a qui, Settathirat I, nel 1560. Nei secoli, essendo opulento simbolo di potere politico e religioso, fu distrutto e saccheggiato più volte da eserciti birmani, cinesi e siamesi, ma eccolo ancora qua. Ogni anno migliaia fedeli si recano qui in processione a venerare le reliquie contenute nella stupa... anche se nessuno sa che reliquie siano esattamente, perché se ne è persa memoria. Ma pace, basta crederci!
Il mio focus di interesse, però, è un altro. Voglio raggiungere il cosiddetto "monumento nella vittoria", che segna l'ingresso trionfale al centro della capitale. Eccolo qua, al centro di un parco nel mezzo del vialone principale, che porta agli edifici governativi.
Si tratta di un arco, costruito tra anni '50 e '60, dedicato ai caduti nella lotta per l'indipendenza dalla Francia e, pur essendo in stile lao, assomiglia all'Arco di trionfo di Parigi... Gracia capta ferum victorem cepit? Qui mi fermo a fare qualche foto, e noto alcuni turisti occidentali, in un numero che non vedevo da settimane, e molti thailandesi e coreani. Ci sono tante trans che si fanno foto in abiti da battaglia e quello che sembra un gruppo k-pop ma poraccio, con quattro damerini vestiti da dandy seguiti da fotografi e truccatrici. Ma nessuno li caga quindi non credo siano particolarmente famosi. Noto anche che le strade sono enormi e pochissimo trafficate. Ci sono palazzoni e marciapiedi ampi, e nessuno in giro. La tranquillità è estrema, quasi straniante. Mi ricorda un po' Ashgabat, la capitale fantasma del Turkmenistan.
Scattata qualche bella foto ricordo, dopo aver risposto alle molte domande dei molti zii cinesi che sono incuriositi dalla bici, raggiungo l'hotel. Qui comincia un vortice di improvvisazione logistica talmente intricato che ve lo racconto a punti se no ci cadiamo dentro tutti.
1. In hotel una signora mi dice che da loro stanno facendo i lavori e quindi le camere sono nell'albergo accanto, a 10m di distanza, stesso prezzo (13 euro), stesse condizioni (colazione inclusa, check in anticipato). È un boutique hotel molto carino. La camera è ottima. Va bene così
![]() |
orecchie di maiale croccanti per gradir |
2. Chiedo al receptionist, che parla abbastanza inglese, informazioni sui trasporti per Luang Prabang (dista 300km). Fino a lì devo per forza arrivare coi mezzi, altrimenti non ho abbastanza tempo per affrontare le montagne ed essere ad Hanoi per quando parte l'aereo. In realtà so già tutto, ma voglio conferme. Le ricevo: da qui a Luang Prabang si può andare in treno (veloce o normale, circa 2h, 20$), in minivan condiviso (9 ore, 15$) o in auto privata (7 ore ma con costi pazzi, tipo 500$). Nessuna delle tre opzioni permette di trasportare la bici e neanche tutto il bagaglio che ho. Non ho menzionato l'aereo perché troppo dispendioso in termini di tempo di preparazione scatoloni ecc.
3. La soluzione, quindi, è una sola. Spedire la bici. Ho letto che alcuni cicloviaggiatori hanno fatto questa esperienza e si sono trovati bene. Qui, siccome i servizi di trasporti sono così malridotti e hanno tutte queste restrizioni, sono diffusissimo i corrieri privati che trasportano merce in tutto il paese in tempi rapidi. Ho letto recensioni positive di ciclisti soprattutto su Hal Express. Porto i vestiti lerci in lavanderia e poi mi precipito nel più vicino ufficio di questa azienda. Il gentilissimo ragazzo che ci lavora, mentre consegna pacchi e imbusta cose, mi spiega che sì, possono spedirmi bici e borse in 2-3 giorni lavorativi a Luang Prabang. Rischio di partire in ritardo rispetto ai programmi già tirati, ma non ho alternative. Ok!
4. Corro in lavanderia, sposto i panni dalla lavatrice all'asciugatrice, e poi in hotel. Posso tenere una sola borsa grande e il borsino manubrio. Metto nelle altre tre borse, da spedire, tutto quello che non mi serve e gli oggetti proibiti a bordo del treno (coltelli, cacciaviti...). Monto le tre borse sulla bici e vado all'ufficio spedizioni. Il ragazzo misura e pesa tutto, e mi dice che il costo è di neanche 6€. Allibisco, speriamo non mi perdano o spacchino nulla!
5. Devo decidere in quale sede farmi mandare le cose. Il patema di non vederle arrivare per tempo e di partire in ritardo da Luang Prabang mi porta ad aprire un minuscolo spiraglio di memoria. Ma dopo Luang Prabang, prima di entrare in Cina, il treno non fa un'altra fermata in Laos? Sì, a Muang Xay! Controllo la mia traccia e anch'io passo da Muang Xay, distante 2 giorni in bici da Luang Prabang. "Spedite a Muang Xay?" "Sì certo!" "E quanto ci vuole?" "Sempre 2-3 giorni". Allora mandali là. Mi fa scegliere il punto di ritiro, e ne indico uno in centro al paesello, in un centro massaggi. "Ok la tua bici e le borse arriveranno a Muang Xay tra 2-3 giorni, questa è la ricevuta da mostrare. Quando arriva tutto, ti mando un messaggio su WhatsApp". Benissimo! Ciao Singorina Felicita, fai un buon viaggio!
6. Ritiro i vestiti asciutto e torno in hotel. Mi sento quasi nuda, svuotata. Sono qui senza pressoché nulla, ho solo i vestiti, il pc, i telefoni, i documenti e il portafogli, beauty, scarpe e ciabatte. Fine. Come una turista normale che viaggia anche leggera. Speriamo di rivedere le mie cose...
7. Elaboro il piano definitivo. Domani visito Vientiane e ci dormo. Dopodomani mattina prendo il treno e vado a Luang Prabang, la visito e ci dormo. Il giorno dopo ancora, il 19, prendo il treno e vado a Muang Xay, che dista un'oretta. Se le mie cose arrivano in giornata, riparto pedalando il 20. Altrimenti il 21. Così non solo vedo tutto quel che mi interessa, ma non spreco giorni, anzi, ne guadagno uno o due che male non fanno, visto che le tappe di montagna sono molto tirate e un piccolo inconveniente potrebbe far saltare tutto.
8. Fino a che non rivedo bici e bagagli integri non canto vittoria. Potrebbe succedere di tutto. Ma devo essere ottimista.
Queste sono le brighe brigone volpeggianti che mi assorbono per l'intero pomeriggio. Rientro in hotel esausta ed esco solo per procurarmi la cena, facendo un giro nel vicino night market. È popolato, ma non incasinato. La gente in giro è davvero poca, pochissimi i turisti occidentali. Vedo tante prostitute, tante trans, ragazze che sfoggiano pigiamini kawaii, altre in cosplay... E mentre la carne sfrigola sulle griglie e il profumo misto di fritto e salsa piccante, durian e pesce si mescolano nell'aria densa, penso che forse anche qui l'umanità è varia come ovunque, ognuno va per la sua via diritta o storta, nel gran fluire delle cose.
Vientiane
pedibus calcantibus 10km circa
Cominciamo dalle cose importanti e gratuìte.
Perchè oggi mi attendono tutte le bellezze di Vientiane da scoprire e poi voglio godermi un po' questo clima urbano prima di tornare into the wild. Che wild non è, ma ci siamo capiti. Io mi sono capita perfettamente. Prima di uscire acquisto il biglietto del treno per domattina, direzione Luang Prabang. Lo faccio attraverso l'hotel perchè hanno poi un servizio di trasporto alla stazione a prezzi convenienti, ieri ho controllato. La cosa allucinante è che le stazioni dei treni, sia qui sia a Luang, sono fuori città, ma proprio a 20km e passa! Si vede che non sono state pensate per i local, ma per trasportare orde di cinesi da su a giù e viceversa... Una volta finalizzato l'acquisto (per il quale serve foto del passaporto, pure!), esco in un'aria che non è più calda rovente ma piacevolmente più fresca. Sarà per le piogge notturne, sarà per la vicinanza ai monti...
La prima impressione è quella di ieri: non c'è nessuno in giro, ci sono strade vuote e un gran silenzio. E non è presto! I negozi sono aperti, ma sembra tutto fermo, sospeso. Ashgabat vibes (se avete letto "Una bici per cammello", sapete di cosa sto parlando). Sarà che non arriva al milione di abitanti, pur essendo la città più popolosa del Paese... Il centro è molto raccolto e facile da girare a piedi, e offre per lo più templi, edifici governativi e monumenti celebrativi, e qualche bell'esempio di architettura coloniale. Dei mercati neanche vi dico, siamo nel Sud est asiatico, è implicito.
Il mito di fondazione della città, tramandato nei poemi epici, vuole che un principe del primo regno mitico del Laos, diseredato in favore del fratello, se ne andò a fondare Udon Thani, in Thailandia (ci sono stata l'anno scorso), sempre sul Mekong, ma un naga serpone dalle sette teste, uscito dal fiume, gli consigliò di fondare una città anche sull'altra sponda, ed ecco Vientiane, che inizialmente si chiamava "la bellissima città del naga dalle sette teste". Un nome descrittivo. Effettivamente qui, dall'VIII secolo, esisteva già una città-stato mon con importanza di capitale, pur sottomessa a vicine più potenti, come Thakhek e Savannakhet. Nell'XI secolo arrivarono gli Khmer, poi, con le migrazioni dalla Cina, si formarono due principati lao, unificati nel 1354 dal re Fa Ngum. Nasceva il Regno di Lan Xang. La capitale era Luang Prabang, ma venne spostata a Vientiane nel 1560 perchè più facile da difendere dall'espansione birmana in corso. Lotte tra aristocratici, nel Settecento, portarono allo smembramento del regno, che si divise in territori piccoli e deboli, presto sottomessi dai siamesi. Nel 1829 proprio i thai rasero al suolo Vientiane, il cui re aveva tentato di ribellarsi al loro dominio. I sopravvissuti laotiani furono deportati nell'Isan. Nel 1893 il potere passò ai francesi, che fecero di Vientiane di nuovo la capitale della colonia. Durante la guerra civile e la "guerra segreta" la città fu risparmiata dai bombardamenti americani perchè il Governo li aiutava a combattere i comunisti del Pathet Lao. Ma furono loro a prendere la città nel '75 e a far abdicare l'ultimo re, per dichiarare la repubblica. La città visse momenti di difficoltà con l'embargo e la crisi degli alleati sovietici, ma dagli anni Novanta, con l'apertura all'economia di mercato, è cresciuta rapidamente.
La mia visita comincia dai templi. Prima il Wat Inpeng, del XVI secolo, distrutto dai siamesi nel 1827 e poi ricostruito. E' noto per i suoi affreschi e i suoi stucchi, e le numerose statue che ne impreziosiscono il fresco cortile.
Mi trovo davanti un'infilata di sportelli atm e mi sovviene la necessità di ritirare contanti, perchè poi, nei prossimi giorni, si dovrà andare di puro cash. Vedete tutti questi terminali?
Nemmeno uno accetta la mia carta, funziona o ha denaro a sufficienza. Per fortuna, dopo la solita ansietta, riesco a concludere l'operazione in un altro sportello.
Mi sposto quindi al Wat Ong Teu, costruito nel XVI secolo per volere del re che spostò qui la capitale. Lo stile è quello di Luang Prabang. Anche questo è stato distrutto e ricostruito, ed è sede di una prestigiosissima e antichissima scuola per monaci che seguono il buddhismo Theravada.
![]() |
il Buddha di bronzo, o "Buddha pesante" che dà nome al tempio |
Mentre passeggio, mi rendo conto che la città è tutta un cantiere aperto e fervono i lavori di rifacimento delle strade, delle fognature, dei marciapiedi, della rete elettrica... Ovunque ci sono operai, buche, deviazioni e strade chiuse e sventrate. Bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi! Eccomi ora al Wat Haisoke, con il suo tetto a cinque livelli che neanche gli strati di una torta di matrimonio! Mi colpiscono i naga che han le squame fatte con conchiglie (giustamente, sono serpenti d'acqua) e il cane che prima mi fa le feste poi si appisola in pagoda, mentre un Buddha sdraiato dorme in cortile. Un monaco scrive, e intanto arrivano furgoni carichi di decorazioni per gli altari, si prepara una festa.
Il Wat Mixai, uno dei templi più antichi (seconda metà del Cinquecento), in stile siamese, è in piena ristrutturazione purtroppo, e inagibile.
Proseguo nella mia passeggiata, tra edifici nuovissimi, al punto che sono ancora vuoti e un po' spettrali, e altri, invece, con un fascino decadente e stanco. Nella sede della polizia, che non va confusa con il museo ad essa dedicato, ci sono striscioni contro il traffico di esseri umani, che qui è ancora un bel problema. Che brividi...
Arrivo proprio nel centro geografico della città, sulle sponde del Mekong, dove si erge la mole grigia e oro del palazzo presidenziale. Sembra vuoto, non ci sono guardie, nemmeno telecamere... Anche gli enormi vialoni sono deserti.
Proprio dall'altro lato della strada si trova il Wat Sisaket, unico tempio con biglietto d'ingresso (poco più di un euro per gli stranieri, si può fare). Risale al 1820 e fu fatto costruire accanto al palazzo reale dall'ultimo re del Laos. E' uno dei pochi edifici risparmiati dalla devastazione dei siamesi, quindi è originale e non ricostruito o rimaneggiato di recente. Inoltre il chiostro è stato trasformato in un museo che ospita oltre 10.000 statue del Buddha, le più antiche del XVI secolo.
Dopo aver respirato questo luogo dall'aura profondamente sacra, che in qualche modo trasmette una gran pace, proseguo verso l'ambasciata statunitense, tutta presidiata ma ben decorata, dove mi imbatto in una gattella loquace e coccolosa... Quanto mi mancano i miei mici! Per fortuna se ne sta occupando Gigi con cura infinita, e ogni giorno mi manda un bollettino con tanto di foto e video.
Qui si trova That Dam Stupa, che sembra, in inglese "that damn stupa!", quella dannata stupa! E mi fa molto ridere. In realtà vuol dire "stupa nera" perchè i mattoni si sono scuriti e ricoperti di vegetazione. E' forse l'edificio sacro più antico di Vientiane, e non si sa se contenga reliquie o resti di sovrani, o se fosse parte di un complesso più ampio. Una leggenda vuole che sia la tana del naga dalle sette teste che fece fondare la città e poi ne protesse gli abitanti durante guerre e invasioni, altri dicono che fosse ricoperta d'oro, poi saccheggiato dai siamesi. Fatto è che, mentre mi siedo su una panchina a godermi il luogo, vengo raggiunta da uno strano individuo, che sembra un mix tra un senzatetto, Zucchero Fornaciari con il cilindro e gli occhialetti tondi neri e un tossico. Spero non venga da me, e invece viene proprio da me. Però subito mi saluta in inglese e mi stringe la mano, poi anche l'altra. "Double friendship!". Ha le unghie lunghe lunghe, e dei guantini neri a mezze dita, un cappotto nero che scende ai piedi, stivali di pelle, capello e barba canuti e sciolti in ciocche che arrivano al sedere, e gli accessori di Sugar. E una pipetta da crack al collo. Mi dice di essere thailandese, e di venire qui in vacanza perchè le cose costano meno. Non so perchè, ma riesco a immaginare perfettamente cosa siano queste "cose". Chiede di me, ed è stranito non tanto dal viaggio in bici, quanto dalla durata del volo tra Hanoi e Milano. Sostiene di avere una amica che vive a Milano, ma potrei essere io, potrebbe essersi confuso, in fondo mi sono presentata ben due minuti fa. Come è venuto, se ne va.
Io pure torno sui miei passi e, siccome è presto, ne approfitto per visitare il Talat Sao, il mercato diurno, in parte coperto in parte con bancherelle all'aperto. In realtà è molto ordinato e tranquillo, e ci sono in vendita per lo più prodotti di uso quotidiano per chi vive qui, dai vestiti ai casalinghi, dai piccoli elettrodomestici ai cosmetici. Le zone più periferiche sono interessanti perchè ci sono bancarelle dedicate alla medicina tradizionale, con erbe, funghi, ossa e zampetti di animali vari. E amuleti. Oh boy, quanti amuleti.
![]() |
ombrellini e modello con sarong e cappello di Babbo Natale |
Mi dirigo verso il Cope, di cui vi parlo tra un attimo, e casualmente mi imbatto nella cosiddetta stazione degli autobus. Gli autobus non sono autobus, per lo più, ma furgoni con il cassone aperto e due panche parallele alla strada su cui sedersi. Oppure tuktuk e remork. Sono servizi privati che sopperiscono alla mancanza di trasporti pubblici. L'umanità che ronza intorno a questa zona è, diciamo, molto variegata. E' la Molino Dorino di Vientiane. "Se non sono gigli son pur sempre figli/ vittime di questo mondo" avrebbe detto Faber.
Proseguendo, attraverso la zona forse più straniante. E' un quartiere dove stanno costruendo enormi, ma davvero giganteschi centri commerciali di lusso. Ma non uno. Nemmeno due. Una fila continua. Molti devono ancora essere completati. Quelli già aperti, hanno pochi negozi al loro interno, solo al pian terreno, mentre ai livelli superiori tutto è vuoto e abbandonato. Sono servizi palesemente sovradimensionati per questa città, e anche per un target che non sono certo i laotiani del ceto medio. Probabilmente sono pensati per i turisti, in particolare cinesi e thai. Forse qui i brand di lusso potrebbero vendere a prezzi più convenienti, attirando clienti. Un giro comunque tossico. Sembra già un cimitero di elefanti, e ancora non è nato. Da fuori sembra tutto perfetto, ma sono gusci vuoti!
Arrivo finalmente alla mia destinazione, il Cope (Cooperative Orthotic & Prosthetic Enterprise). Premessa. Il Laos formalmente non è mai stato in guerra contro gli USA, ma, durante la guerra civile tra nord e sud, cioè tra Pathet Lao, comunisti vicini a Ho Chi Minh e Governo filo-occidentale, in concomitanza con la Guerra del Vietnam, anche il Lao fu coinvolto in devastanti azioni militari. Si calcola che gli USA abbiano sganciato più di 2,5 milioni di tonnellate di ordigni, più di tutti quelli usati nella Seconda guerra mondiale messi insieme, cosa che fa del Laos il paese più bombardato al mondo. Il problema è che queste armi continuano a mietere vittime anche a conflitto finito. Infatti gli ordigni inesplosi, hanno falciato 50.000 vite, di cui metà dopo il '73. Per lo più contadini ignari e bambini. E ancora oggi il problema resta, considerando che di quel quantitativo mostruoso di bombe, il 30% non è esploso ed è lì ancora quiescente. Ogni giorno circa 3000 agenti specializzati, con i metal detector, passano in rassegna le aree più colpite. Si è stimato che ci vorranno 150 anni per bonificare tutto il Laos. Servirebbero i ratti cambogiani di Apopo!
Nel frattempo, ci si occupa di chi ha perso un arto e magari vive sotto la soglia di povertà e non avrebbe modo di accedere a cure, protesi e fisioterapia. Il Cope fa questo. fornisce arti prostetici e assiste in tutto l'iter. Ma ha anche progetti dedicati allo sport, con tanto di palazzetto per atleti con disabilità, nonchè laboratori e un centro medico.
![]() |
per imparare a muovere le braccia con un arto prostetico si usa una scatola chiusa con specchio |
![]() |
idem per le gambe |
![]() |
ci sono diversi oggetti di uso quotidiano riadattati per essere usati anche da chi ha subito mutilazioni |
![]() |
i volontari sensibilizzano soprattutto i bambini nel non toccare oggetti che potrebbero essere ordigni inesplosi. Lo fanno anche attraverso spettacoli di marionette |
Questo centro non è paragonabile ad un museo che spiega per filo e per segno la Guerra segreta (tenuta nascosta dalla Cia fino al 1991), ma permette di vedere da vicino la tragedia quotidiana vissuta dai laotiani anche a distanza di 50 anni. Questo viaggio mi sta facendo sbattere il muso contro realtà durissima di anni feroci e disumani, che anche qui hanno lasciato una cicatrice insanabile. Si va avanti, ma con quale fardello! Lascio un'offerta, il progetto davvero merita. Per altro, qui, mi imbatto in un loquace ragazzo coreano che mi racconta tutto d'un fiato che è stato in Vietnam, poi qui, e ora va in Italia, a Matera e Palermo, e poi in Egitto. Si lamenta del caldo e va via. Ok!
Per me viene il momento di tornare. Ho visto abbastanza, per oggi, e ho l'anima sazia di bellezza e consapevolezza cruda. Tornando, butto uno sguardo nei centri commerciali e mi vengono le vertigini, poi i brividi. L'unica cosa un po' sensata per i local è una fiera dello street food thailanedese.
![]() |
la carne essiccata è pelosissima! |
![]() |
gli italian brainrot sono arrivati anche qui |
![]() |
l'opulento centro culturale che si trova accanto all'hotel dove alloggio |
Torno in camera e mi godo la luce che man mano cala, e si fa più rossa, e poi oro e rame. Prenoto l'alloggio per domani, preparo la borsa (al singolare, che strano! Chissà dov'è ora la Signorina Felicita... Sarà già partita?), e riposo pure, che anche girare per ore a zonzo in questo clima comporta la sua fatica. Tutto è pronto. Domattina, alle 7, si riparte. Direzione: Luang Prabang, il "gioiello della corona" del Laos!
Nessun commento:
Posta un commento