martedì 12 agosto 2025

43-45. Amor fati laotiano, templi khmer nella giungla, dormire in una crackhouse e riemergere alla bellezza























9/8
Champasak-Vat Phou-Pakse
36km

Durante la notte mi sveglio spesso: diluvia in modo così violento da fare un rumore assordante. In più la faccenda brutta delle carte che non funzionano e dei bancomat laotiani problematici e sempre guasti o a corto di cash, in un paese che funziona solo a contante, mi cruccia. Non che io debba spendere e spandere, sciorinare kip al volgo (come quel video tremendo di una nobile francese che getta monetine a terra, dalla finestra, per vedere i bambini vietnamiti, negli anni Trenta, accalcarsi a raccoglierle, come piccioni con il pane). Però vorrei anche evitare di fare la figura del conte Mascetti. "Io ho girato per un anno l'Europa con un orso al seguito" ma ora non posso permettermi di pagare il tuktuk. Mi alzo un po' intontita, ma la carica di adrenalina della giornata densa che mi attende va subito in circolo. Foto al Mekong fradicio di recente temporale, e colazione (inclusa nel prezzo della camera, non a scelta. Quel che stanno mangiando i figli della signora arriva anche a me). Baguette, burro, marmellata di pandan (una pianta aromatica usata per i dolci, rende tutto di colore verde), ovetti e insalatina. Caffelatte e macedonia di dragon fruit. La signora vuole farmi affrontare il mondo grande e terribile a stomaco pieno, grazie!



Siccome non ho abbastanza denaro per pagare la corsa a ritroso verso il tempio, dove ero ieri in bici, ma troppo tardi per visitarlo, e l'ingresso al sito, prima di fare la turista devo provare a prelevare. L'atm più vicino è in centro a Champasak, a 3km, e la signora è così gentile da farmi accompagnare in motorino da suo marito. Senza casco entrambi, correndo come i pazzi tra buche, capre, cani e ponti di legno con assi tutte sconnesse. E' la terza volta in questo viaggio che salgo su un motorino, e la quarta in vita mia (una in Thailandia l'anno scorso). E' la terza volta che mi cago sotto dalla paura! Una volta al bancomat (che non è collegato una banca, è una torretta isolata a bordo strada, con tettoia e scalini) provo a ritirare cifre sempre più piccole con una delle due carte, quella che uso sempre, e non va. Sudo freddo. Provo l'altra, ma siccome è nuova e non l'ho mai usata per ritirare, non ricordo il pin. Lo cerco freneticamente, ne provo di vecchi che son tutti sbagliati, devo rifare l'operazione mille volte, mentre il mio accompagnatore in motorino inizia a spazientirsi... Poi, tramite app della banca, riesco a recuperare il codice, e questa volta l'operazione riesce. Certo, il massimale è una cifra ridicola (l'equivalente di 20 euro), ma per ora basta. Altro che carpe diem. Altro che vivere un quarto di miglio alla volta. Vivo un cash withdrawal alla volta!

Altro giro altra corsa aggrappata alla sella dello scooter ed eccoci di ritorno in hotel. Quando la signora mi vede sorridente e con il pollicione alzato, capisce che è il momento di chiamare il tuktuk. Direzione: Vat Phou. Questo è il potentissimo mezzo:



Per raggiungere il sito archeologico rifacciamo all'indietro gli ultimi kilometri che ho percorso ieri dopo aver scoperto che tutte le guesthouse nei dintorni del tempio, in bassa stagione, sono chiuse e restano attive solo come ristoranti. Nella corsa, che è un lento sferragliare tra bestie girovaghe, bambini randagi e crateri nell'asfalto, noto tante pie donne con il sarong usato come gonna lunga e una fascia ornata sul petto recarsi ai templi con le offerte. Fiori, frutta, incenso...

Ma eccoci al Vat Phou, finalmente. Sono curiosissima di esplorare questa piccola e sconosciuta Angkor Wat laotiana, uno dei patrimoni Unesco più snobbati e poco considerati al mondo. L'ingresso, che si raggiunge facendo lo slalom tra bancarelle (ancora chiuse) di souvenir e ambulanti che vendono i semi del fior di loto e corone da deporre sugli altari, vende i biglietti a poco più di due euro per gli stranieri. Per i local giustamente costa meno. Appena superati i tornelli, si viene caricati su un caddy elettrico (è il terzo mezzo di trasporto in mezz'ora, oggi non ce la posso fare) che passa accanto ad un lago artificiale, già parte del complesso sacro, e porta all'inizio dell'alzato di epoca khmer. In tutto questo, sono sola.







Ma cos'è questo Vat Phou? Letteralmente, il "Tempio della montagna"; sorge infatti sulle pendici orientali del monte Kao, anche detta, in khmer, Lingaparvata, cioè montagna del linga, del fallo (sacro di Shiva). Insomma, il Monte Pisello. Pare che la vetta dovrebbe ricordarne la forma. Ora io non so come lo avessero gli khmer, ma di certo c'è voluta una bella dose di fantasia! In ogni caso, essendo il linga la forma in cui veniva solitamente adorato Shiva da quel popolo, la montagna era il luogo ideale per diventar sede di un luogo di culto. Dall'XI secolo, come già visto in tutti gli altri siti coevi, il buddismo sostituì l'induismo.
Cito Wikipedia: "La prima fonte storica a parlare del culto su questa montagna sono gli Annali della dinastia cinese Sui. Facendo riferimento ad anni anteriori al 589, l'annalista menziona un tempio sulla cima della montagna che sarebbe stato custodito da molti soldati. In effetti, sulla superficie attorno al picco sono stati trovati reperti databili ad epoca pre-angkoriana (V-VIII secolo). Il tempio, cui si accede tramite una scalinata monumentale oggi in avanzato degrado, è stato costruito a più riprese tra il VII ed il XIV secolo, sebbene la maggior parte delle strutture e dei rilievi attualmente visibili risalga al XII secolo.
Il monumento fu descritto per la prima volta da Francis Garnier, membro della Missione francese del Mekong che soggiornò a Champasak nel 1866. I primi studi archeologici si devono a Étienne Aymonier e a E. Lunet de Lajonquiére".
Dal 1990 i lavori di restauro e conservazione sono nella mani di un'equipe italiana guidata da un'archeologa che sta facendo miracoli nel recuperare un luogo che era completamente degradato.





La prima cosa che colpisce è la perfetta commistione tra elementi naturali e artificiali, in un tutto-sacro di pietra scolpita e radici, linfa, verde verdissimo ovunque. I monti, alle spalle, coperti di vegetazione e avvolti nelle nuvole basse, sono la scenografia perfetta e si capisce, linga o non linga, pisello o non pisello, perchè questo luogo sia stato percepito come sacro. Oltretutto, più in alto, all'altezza del tempio principale, ci sono una sorgente e una grotta, venerate già in epoca preistorica, e più avanti come sede di spiriti. Per questo si ritiene che il Vat Phou sia uno dei luoghi di culto più antichi del Sud Est asiatico.



Anche qui non rimane nulla dell'antica città; restano i bacini artificiali, le strade ornate di sculture che li costeggiano e portano ai cosiddetti templi gemelli, due palazzi ornati di bassorilievi (garude, Vishnu, divinità danzanti) la cui funzione resta tuttora oscura. Qualcuno propone la teoria che fossero luoghi di preghiera per uomini e donne separati, ma non ci sono evidenze. Resta incredibile pensare che, nel periodo di fioritura dell'impero khmer, ci fosse una strada da qui ad Angkor, che passava anche per tutti gli altri templi visti finora e giungeva anche in Vietnam.













Dalla terrazza dei templi gemelli si inerpica una scalinata di pietra ripida e scivolosissima, coperta di muschio, attorniata da alberi e protetta da naga, che conduce al livello superiore. Qui mi imbatto in alcune signore che portano pesanti pentoloni di cibo su agli altari. Lo fanno con i tradizionali vassoi tenuti da un bastone che si appoggia alle spalle. Siccome la roccia è insidiosa e le ciabattine che hanno non sono adatte, se le tolgono e salgono scalze. In tutto questo capre e polli girano liberi nel sito archeologico, e mi ricorda il Perù con i suoi alpachini a Cuzco, e pure l'orrore di Goethe durante il suo Grand Tour quando vide il bestiame pascolare al Colosseo.







A metà salita si incontrano alcune statue del Buddha e altari dove i fedeli pregano e ardono incenso profumatissimo. Dei reperti storici e dei tesori rimane poco, perchè razziati nel corso dei secoli, purtroppo.






le scale coperte di muschio













La salita è lunga e insidiosa, tra gradoni sconnessi e scivolosissimi, pozze, radici sporgenti e una pericolante signora spagnola con la sua guida che sta arrancando davanti a me. Scambiamo due chiacchiere, lei è tanto affaticata quanto estasiata. In effetti, la vista dalla terrazza più alta toglie il fiato, e non solo per il caldo umido. Davanti agli occhi si spalanca tutta la piana del Mekong, un tappeto di fronde, di chiome, di rami. Un oceano vegetale che respira umidità vivissima.



Qui si trovano anche il tempio principale, dove le immagini del linga e di Shiva sono state sostituite dai Buddha, una libreria, la grotta e la sorgente sacra. Oltre ad alcune bancarelle tenute da venditrici che stanno spaparanzate nell'erba a pisolare e ridacchiare. Propongono piccole corone di fiori e gabbie piene di uccellini da liberare a pagamento (peccato siano addestrati a tornare).



















Seguendo un accidentato sentiero, che merita anche solo per la vista sul panorama circostante e sottostante, si raggiungono due delle più misteriose sculture del sito. Uno è il masso intagliato con le fattezze di un elefante, che sta lì, silenzioso, coperto di muschio, e osserva chi arriva.





L'altra è una roccia è in cui è scavata la forma di un coccodrillo. Pare sia antecedente all'epoca khmer, cultura per la quale comunque era un animale sacro, e ci sono motivi per pensare fosse un altare per compiere sacrifici umani annuali (di solito donne giovani) in epoca pre-khmer. Ci sono dei riferimenti a questa pratica in alcuni scritti di viaggiatori cinesi del V-VI secol, e le dimensioni e la forma della sagoma coincidono con quelle di un corpo umano steso.






Dopo aver respirato a fondo tutta questa misteriosa meraviglia, che, vissuta così, nel silenzio, senza folle di visitatori, fa proprio sentire protagonisti di un'avventura nella giungla di Lara Croft o Indiana Jones, viene il momento di scendere (con grande cautela).







Per tornare all'ingresso decido di non prendere il caddy elettrico ma di camminare lungo i bacini d'acqua: voglio godermi con calma anche la vista da qui. Prima di uscire faccio anche un rapido giro nel museo del sito, dove sono conservate statue e decorazioni originali. Si entra senza scarpe e mi prendo anche una bella ramanzina perchè scatto due foto. Da nessuna parte è scritto non si possa, ma va bene, ho anche fatto finto di cancellarle. Tie'.



Senza rendermene conto, la mattina è volata. Quando esco è già quasi mezzogiorno. Per fortuna il mio fido tuktuker è lì che aspetta, stravaccato sui sedili passeggeri. Accanto sono arrivati anche un pullmino e un remork, sul quale l'autista ha montato l'amaca e sta scrollando TikTok in attesa che tornino i suoi passeggeri. Mentre ce ne andiamo, incrocio lo sguardo di due turiste che arrivano su un mezzo simile al mio, che del pari traballa nelle pozzanghere e sullo sterrato; sono divertite e terrorizzate a un tempo. Io invece mi sto godendo questo momento di vacanza, ed è una FIGATA!


amaca su remork

Tornata in hotel ho giusto il tempo di vestirmi da bici e fare check-out. Prima di mettermi in strada approfitto però del tranquillo, immenso giardino per ripulire un poco la bici e ingrassare la catena. Nonostante stanotte sia rimasta sotto al diluvio, il forcellino è un blocco unico di fango, sabbia, trito misto vegetale e lubrificante. Sembra un nido di vespe vasaio strafatte, un termitaio di fattoni. Mi chiedo come abbia fatto a non bloccarsi, ieri. Con minuzia rimuovo il grosso e lubrifico. La Signorina pare nuova! Presto, che è tardi!

La città è un minuscolo agglomerato di guesthouse e templi, piccoli caffè ed edifici coloniali dal fascino decadente e trasandato. E' popolata più da cani randagi e bestiame che umani, e regna una sonnolenta tranquillità. E' difficile pensare che a breve distanza sorgesse una capitale del Regno laotiano di Lan Xang (XIV-XVIII secolo), di cui si sono intraviste evidenze solo con la ricognizione aerea. Ed è ancora più incredibile che, in questa minuscola cittadina, ci fosse il centro del potere del Regno di Champasak (1713-1946), nato da beghe e divisioni interne alla famiglia reale del Laos, divenuto poi vassallo del Siam (1778-1892) e quindi colonia francese annessa a tutte le altre province dell'Indocina. Di tutto questo resta davvero poco, e anche i templi sono per lo più moderni. Colorati, tanti.








Non me ne vado senza aver letteralmente svuotato l'atm dove stamattina sono riuscita a prelevare. Son più le commissioni che quel che mi entra nel portafogli, ma tant'è. Così è il Laos. Non funziona come vuoi tu. Funziona a modo suo. Da sempre. Se vuoi esser ospite, devi adeguarti. A questo punto riparto per la breve pedalata di oggi, neanche 40km (avendo ieri allungato, oggi è proprio una passeggiata, ma è pensata sia come giornata di visita ai vari luoghi di interesse, sia come mezza sosta, quasi esattamente a metà strada nella lunga corsa tra Siem Reap e Vientiane). La strada, asfaltata ma piena di buche e gravemente dissestata, corre tra il fiume e i monti, insinuandosi in verdi campagne punteggiate di paesini. Un tempo era a pedaggio. Restano i cartelli e i caselli, ormai cadenti. 











Le strade sono deserte anche perchè sono le ore calde (e in effetti, essendo uscito il sole, si schiatta). Incontro dei bufali d'acqua in attesa del bus alla fermata, una pletora di animali da cortile e due o tre persone. Il vento è assente, la strada piana, e in un attimo sono al ponte (oddio! Un ponte! Niente barchino! Che opera incredibile dell'alto ingegno dell'essere umano!) che porta a Pakse, la moderna città capoluogo di provincia (che pure, per ragioni storiche, mantiene il nome di Provincia di Champasak). Pakse conta 120.000 abitanti ed è la seconda città più popolosa del Laos, dopo la capitale. Il che la dice lunga su quanti abitanti conti il Paese. Sono due vie per tre, il centro si estende per nemmeno un kilometro quadrato e pare una città qualsiasi di una periferia qualsiasi, anzi, anche più scalcagnata. Ma ricordiamoci che, come diceva Terzani e mi ricorda il buon Scapitta, "Il Laos non è un luogo ma uno stato d'animo". L'aggettivo più usato nella guida della Lonely è "sleepy", per gli abitanti "chill" e "unbothered", spiegando che i laotiani non si facciano tangere da nulla mai perchè ne han passate troppe nella storia e le hanno ormai viste tutte (ricordiamoci che qui si è combattuta la cosiddetta "Guerra segreta" e che, per numero di bombe/abitante, è la Nazione più colpita. Gli USA ben sapevano che il Sentiero di Ho Chi Minh passava da qui). E vi dirò, questa sonnolenza, questa paciosità, questo non farsi tangere e sorridere al fiume di Eraclito per come arriva, non mi dispiacciono affatto. Sono molto in sintonia, di fondo, con questo modus vivendi.

Riattraverso per la quattrocentesima volta il Mekong, e alle mie spalle, sulla collina, fa capolino il moderno Big Buddha, raggiungibile tramite irta scalinata. Questo ponte, costruito con il sostegno del Giappone, permette un collegamento terrestre diretto con la Thailandia, cosa che ha fatto crescere e non di poco l'importanza economica e logistica di Pakse.






Raggiungo così una della vie centrali della città, che è deserta con la sua infilata di bandierine doppie, quella laotiana e quella del partito (repubblica popolare democratica... Monopartitica! Che belli gli ossimori). Si anima un poco solo all'altezza del mercato, che pure sa essere caotico, polveroso e incasinato ma pure tranquillo e dimesso a un tempo.




La città venne fondata solo nel 1905 come avamposto francese (infatti il mercato sorge nel vecchio acquartieramento dei militari) e ospitò gli ultimi re-marionetta del Regno di Champasak, ceduto al Siam dai francesi (come Preah Vihear, il luogo dei grandi mal di pancia tra Cambogia e Thailandia... Quindi pure quello è un pasticcio da colonialismo! Tutto si spiega). Vi risiedette anche Boun Oum, politico di spicco durante la guerra civile laotiana (1953-74); vi fece costruire un palazzo che non fu portato a termine perchè lui fuggì prima, con l'arrivo dei militari del Pathet Lao (i comunisti). Da vedere non c'è molto, anzi, ben poco. Qualche tempio moderno, il lungofiume, il mercato... I turisti passano di qui per accedere al sud del Paese, ma non si fermano per più di una notte. E lo stesso farò io.

Raggiungo la guesthouse, accanto allo stadio comunale, 500m fuori dal centro. Incredibilmente, le strade, appena si lascia la via centrale, sono sterrate, piene di polli che razzolano e montagnole di immondizia data alle fiamme! Pure la struttura dove alloggio è tutta un programma: un motel in un parcheggio con una tettoia e quattro sedie. Ma i gestori sono gentilissimi e una ragazza, che non so se per il makeup o qualche ritocchino pare una Bratz, mi riempie di domande sul viaggio ed è ammiratissima, tanto che traduce con enorme enfasi tutte le risposte agli altri, probabilmente genitori, fratelli, marito, nonni ecc. La stanzina pure è carina, e ne approfitto per riposare e stare con la schiena diritta e al fresco per qualche ora, cosa che non accade dal Cenozoico.





il mio coinquilino è un geco

c'è una valigetta con curiosi ninnoli

e cacca di geco dappertutto, ovviamente


Dopo aver poltrito e affinato le tracce dei prossimi giorni, essermi ammirata l'abbronzatura delicatissima e aver sentito casa, dove il mio essere in giro senza soldi, in bici, da sola, dall'altra parte del mondo, aveva destato qualche lieve allarme, decido di uscire a far spesa. Non ho ancora visto i supermercati laotiani, non ho colto come vive la gente urbana, e sono curiosa. Ma di urbano trovo ben poco, e il supermercato è solo un mercato leggermente più ordinato. Ottimo così. I prezzi, rispetto alla Cambogia, sono comunque nettamente inferiori e i prodotti quasi tutti di importazione (Thai, Indonesia, Vietnam, Cina...).


loro faranno casino TUTTA la notte!


lo stadio


Dopo aver sbrigato tutte le commissioni, faccio il punto del denaro. Ho tre milioni e mezzo di kip. Non mi si chiude il portafogli e sta per esplodere. Sono meno di 150 euro, ma basteranno, salvo emergenze, fino a Vientiane, per una settimana.




10/8
Pakse-Ban Xenouan
132km

La tappa di oggi comincia presto (e finisce tardi). Ieri ho deciso di modificare, allungando, la traccia; il motivo è deviare su Savannakhet, una città coloniale a 250km da Pakse che sta accanto allo stradone, ma in quell'accanto ci sono 50km in più ad arrivare e 20 a uscire. Ergo, oggi e domani mi attendono tappone. In particolare oggi è la giornata perfetta per mettersi alle spalle tanti kilometri: ieri ho riposato, la strada è asfaltata e abbastanza (!) piana, il meteo dice che il vento sarà a favore e non c'è nulla da vedere nè in mezzo nè alla fine, solo villaggetti. Non prestabilisco una meta. Il primo albergo a una distanza accettabile è a 115km, l'ultimo a 132. Nel mezzo ce ne sono un paio. Vado fin dove riesco. Sono sveglia, a tratti, da ore, perchè i galli del cortile accanto hanno iniziato a cantare alle 3. Alle 7 sono al banco della reception (nel parcheggio) per la colazione, che neanche mi ero accorta fosse inclusa nei ricchi 10 dollars che ho speso. Apprezzo molto questa citazione di Nietzsche, che tanto si attaglia allo spirito laotiano. Non c'è nessuno.



Torno in stanza e inizio a preparare le borse, per uscire di nuovo quando vedo arrivare la sciura con, appeso al manubrio del motorino, un sacchetto pieno di baguette. La saluto, mi siedo e arriva anche un altro ospite francese che si accomoda due tavoli in là, in attesa della fidanzata che si attarda in camera. Entrambi veniamo serviti con un bicchiere di succo di frutta e un piatto con dentro la baguette, sana, intera, nuda e asciutta com'è. Entrambi attendiamo che arrivi il companatico. Dopo un quarto d'ora, nel quale ho studiato bene il percorso (punti acqua, punti cibo ecc... Ma non ci sono problemi perchè i paesini sono frequenti, uno dopo l'altro), noto che il pane rivela un sottilissimo, quasi impercettibile taglio sul lato. Lo sollevo, è pesante. E' imbottito! Questa è la colazione per intero! Inizio a mangiare e vedo che anche il francese fa lo stesso. Che imbecilli sti europei! Non so cosa contenesse (uova, carne, spezie, verdure... Ma quali?), so che il panino mi fa compagnia in forma di rutti-spiritelli per molte ore.

Finalmente parto, e, nel kilometro e mezzo che impiego a uscire da Pakse, incrocio tutti i templi degni di nota, da quello cinese, con umarell che non si spostava e anzi sembrava volersi mettere in posa, a quelli più venerati dai local.







Un altro ponte, con bandiere e slogan e un grande "Have a good trip!", che pare un augurio per fattoni, e siamo on the road again.






Mi sono da poco lasciata alle spalle Pakse, e sto raggiungendo la velocità di crociera, quando vedo un ragazzo che mi si affianca in motorino. La cosa, sulle prime, mi mette ancora e sempre a disagio. Vedo che mi porge qualcosa, un sacchettino con una bottiglia dentro. Lo guardo, lo saluto. Lui tira su la visiera e mostra un viso sorridente e timido da adolescente; mette subito le mani avanti: "I don't speak english!". Ok, allora parliamo la non-lingua antica, quella degli esseri umani senzienti. Mi indico il petto: "Rita", lo indico e gli chiedo "What's your name?", sperando che si ricordi questa frase dalle noiose ore di inglese a scuola. "Souk! Souk!". Hello Souk! Sorride, e mi porge ancora il sacchettino. Allora mi fermo e lo accetto, vedo che dentro c'è, probabilmente, la sua colazione: una bottiglia di vetro con latte di soia e caffè, e tanto di cannuccia. Che amore! Thank you Souk! E lui si illumina e si profonde in mille accenni di inchino con le mani giunte davanti al viso. Gli chiedo un selfie, è imbarazzatissimo ma accetta. E poi scappa via sgasando. Eccolo qua, il cuore dei laotiani. Metto via nelle borse il prezioso dono, e quasi mi commuovo, soprattutto per il dettaglio della cannuccia. Era una cosa sua, e ha voluto privarsene, per darla a una mai vista e che mai rivedrà più. E' uno dei gesti più gratuiti e semplici, ma nel nostro mondo così difficile... 
Paradossalmente, ma forse neanche troppo, meno si ha più si è generosi; nei viaggi lo ho sperimentato ogni volta, ed oggi me lo insegna Souk. Grazie, è anche per imparare da te che sono qui.


La tappa procede abbastanza agevolmente, pur su un asfalto che costringe anche le auto a procedere a 20km/h e con un continuo saliscendi di collinette minuscole, di rampe da 50m, un nulla... Ma incessante. E sulle lunghe snervante. Si susseguono paesini microscopici, a volte singole case, capanne, palafitte e baracche. Qua e là bancarelle a bordo strada che vengono frutta o lumache di terra, granchi di fiume (di fosso, di rongia) e spiedinetti misteriosi. Le scuole sono rarissime, spesso affiancate a pagode o caserme. Incontro anche le compagne mucchine, che vengono debitamente salutate.




A volte compare una cittadina di poco più grande, con un piccolo mercato. Qui è sempre un tripudio di saluti, di bambini che sventolano la mano a suon di "Hello!" e poi, quando rispondo, ridono di gusto. Anche gli adulti sono sorridenti e mi chiamano, ma senza esser caciaroni, in modo pacato e rispettoso.







A metà strada mi fermo a riempire le borracce e riposare un po' davanti all'unico negozio vero e proprio, nel senso nostro del temine, dell'intera giornata (132km). Si sta addensando un temporale nero nero davanti a me, e il vento si alzato, ed è, non serve specificarlo, contrario. Riparto in un tripudio di bancarelle di street food davanti a un mercato coperto, e appare chiaro subito che sto per prendermi una bella secchiata di pioggia sulla testa. Pazienza. Come arriva, passa. Non ho intenzione di perdere tempo: bagnarsi è un problema solo quando fa freddo, ma non è certo questo il caso. Anzi, almeno rinfresca un po'.

è Natale!

il mercato coperto







Di lì a poco, in effetti, inizia a piovere. Prima grosse gocce rade, poi il diluvio. Procedo, mi inzuppo, le strade si svuotano del tutto. Meglio, così posso fare bene lo slalom tra pozze insidiose, che potrebbero celare buche profonde, trappole esiziali. Smette dopo circa un'ora, e sono una spugna. Ma, tra il vento e la calura, tutto si asciuga in tempo record, strada compresa. C'è un piccolo problema: il temporale mi insegue! Me lo trascino dietro per kilometri, stando sull'orlo di dove arriva qualche gocciolina ma senza piovere davvero. E certo non posso accelerare per seminarlo: il vento e il saliscendi, il fondo scassato e la stanchezza crescente mi fanno procedere lenta. 


Per fortuna, a un certo punto, il grumo di nubi si scioglie e si aprono squarci di azzurro e luce (anche se alle mie spalle una massa scura incombe). I paesini sono sempre più piccoli e minimalisti: tre case di legno, una bancarella, trenta mucche, quaranta capre, un carretto e una manciata di bambini. Ovunque ci sono cartelli, anch'essi rigorosamente in legno e scritti a mano con la vernice tutti storti, che indicano che quelli sono paesi virtuosi, di agricoltura sana, di economia solidale, di buone pratiche. Mi viene da pensare che non sia una scelta: anche i servi della gleba non usavano prodotti OGM e non inquinavano, ma tant'è. Si danno questi riconoscimenti, che mi suonano pure un po' inquietanti. Sarà che arrivo fresca dalla Cambogia e l'immagine del popolo vecchio di Pol Pot e i suoi campi di lavoro mi è ancora vivida in mente. Io sono figlia del mio contesto sociale, storico e geografico nel quale sono cresciuta, e ho sicuramente una miriade di bias cognitivi. Mi chiedo però se non sia una favola bella, un'illusione comoda, quella di pensare che si viva meglio così, facendola semplice, con pochi bisogni perchè poca è l'offerta. Bisognerebbe capire in cosa consista il benessere, di quali possibilità o agi un essere umano ha bisogno per vivere nel pieno delle sue possibilità. Un supermercato, qui, farebbe la differenza? Una scuola? Una strada asfaltata? Un ospedale che sia una catapecchia arrugginita e piena di cani rognosi come son le cliniche di periferia che ho visto?

















Dopo quelle che sembrano un milione di ore in sella, supero i 100km, poi i 110... Comincio a essere molto stanca, ma voglio proseguire ancora. Oggi all'arrivo non ho che da lavarmi, mangiare, scrivere e dormire, domani, invece, potrei approfittare di una tappa leggermente più breve per visitare Savannakhet. Che fatica, però. La schiena, le spalle, il collo e le braccia sono intorpiditi e rigidi per l'asfalto dissestato, ho la gola riarsa dal caldo e dal vento, le gambe mollicce e, all'ennesimo cane che mi insegue (sì, qui ce ne sono), inizio a pensare che la dieta vietnamita abbia un senso. Proprio in questo momento di sconforto succede un altro piccolo miracolo: di nuovo mi affianca un ragazzo in motorino, e di nuovo mi porge una bottiglietta, questa volta di acqua. Mi fermo, lo ringrazio bene e mi presento. Lui pure dice di non parlare inglese. Si chiama Tenh e vive lì. Quando gli chiedo un selfie, si mostra più sbarazzino di Souk, ed eccolo qua, in tutto il suo splendore laotiano a-a-bbronzatissimo. 





Gli ultimi 15km sono una pena, ma ho deciso: voglio arrivare alla struttura più lontana, quella a 132km. Quando raggiungo il paesino in cui si trova, Ban Xenouan, sono del tutto svuotata e mi tremano gambe e braccia. Devo anche procacciarmi la cena, qui non ci sono certo ristoranti o locali, ma nemmeno negozi propri. In compenso, casette, bancarelle di cestini e gabbie per polli (cestoni al contrario) e una chiesa cattolica.





la chiesa

Proprio in centro al paese c'è un magazzino che vende di tutto, e questo tutto è sparso in mucchi disordinati e polverosi tra scaffali e pavimenti di cemento. Tutti i presenti mi osservano con sospetto, e anche il paron sembra infastidito. Credo pensino che io voglia intascarmi qualcosa, nella confusione. Per trovare una confezione di noodles, una di caffè solubile monodose, due brioscine e un sacchetto di rambutan ci metto una vita, e il tempo trascorre greve sotto gli sguardi vigili di tutti. Il proprietario, che peraltro tiene le unghie dei mignoli lunghissime e sporchissime di antico nero, mi scrive più volte sul telefono con il traduttore: "Cosa vuoi comprare?". Vorrei rispondergli "Tua madre ma in sto bordello non la trovo". Però abbozzo, acchiappo le mie cosine e me ne vado con la busta della spesa appesa al manubrio, tanto sono quasi arrivata.


Qui comincia la parte davvero avventurosa della giornata. Tenetevi forte perchè non siete pronti. Figuratevi quanto potessi esserlo io, bollita come ero.
Arrivo all'indirizzo della guesthouse, segnata su Maps. C'è un cartello fuori, tutto arrugginito e pericolante, che conferma. Si vede un cancello aperto, con accanto un baracchino che vende qualche bibita, e un grande edificio a due piani con tante porte numerate che si affacciano sulle lunghe verande. Un motel, a forma di motel. Entro e mi imbatto in un gruppo di ragazzi che stanno cenando a un tavolo nel cortile. Hanno l'aria strana, stavano facendo un gran chiasso (più della norma di qui) ma, appena mi vedono, ammutoliscono e mi fissano straniti. Chiedo, nel mio miglior inglese: "I'm looking for a room for tonight, can you help me?". Ridacchiano, poi tornano serissimi. "No english" dice una ragazza magra e piena di croste su tutto il corpo. "Guesthouse" indico l'edificio e faccio il gesto di dormire con la testa chinata sulle mani giunte. "No english...". Non me ne vado (dove devo andare a quest'ora, con il tramonto che incombe e il nulla risaia per kilometri davanti a me?). Alla fine si alza un ragazzo e dice: "Okok" e indica i segurlo. Va a recuperare una scatola piena di chiavi piccine. Noto intanto che le camere del piano terra sono tutte occupate... Ma da gente losca, che pare viva accampata lì, un po' dentro e un po' in cortile, con fornelli da campeggio in veranda e una sorta di tendopoli tra le camere. Il ragazzo sale le scale per andare al secondo piano, lo seguo. Dobbiamo scavalcare un fermo molto alto che impedirebbe l'accesso. E' un albergo abbandonato. Sicuro. Abbandonato e occupato abusivamente da queste persone. Comincio a pensare che forse non è il miglior posto dove passare la notte. Salendo, vedo chi sono i vicini di casa. Capre, pastori e roghi di immondizia.



dopo il 4 graino c'è la grata che sbarrerebbe l'accesso

Il ragazzo traffica con la chiave alla seconda porta del piano di sopra. La chiave non apre la porta, ma un lucchettino appeso a due viti con asola, approntato per chiudere in assenza delle chiavi vere di quelle porte. La stanza è meno sporca del previsto, le lenzuola e le federe sembrano lavate. Il problema è che non ci sono nè acqua corrente nè luce. Al secondo problema, i nostri hanno ovviato con un accrocco di fili che entrano da un buco nel muro, cui sono collegati: luce di emergenza appesa con un filo, due prese, condizionatore e ventilatore. Ovviamente non il lampadario originario e nemmeno la ventola. Per l'acqua: lavandino, doccia e sciacquone sono scollegati. C'è un tubo di gomma, collegato a una cisterna sul tetto, che entra da un foro nel muro. Asciugamani, saponette. 5 dollari. Andata. Prima di uscire, il ragazzo dà una spruzzata con un deodorante per ambienti spray. Ecco questo sì che fa la differenza.




Porto su tutti i bagagli e lego la bici in un sottoscala, levando tutto quel che potrebbe essere rubato, specchietti compresi. Mentre porto le borse in camera, noto una bella banconota da 1000 kip (il taglio più piccolo) arrotolata stretta stretta sul portasapone in bagno. Ah, che bella cannuccia per pippare! Ecco cosa fanno qui! Il quadro mi si chiarisce. A 500m c'è il confine con la Thailandia, senza valico ufficiale, ovviamente, ma con fiume e bosco. Qui spacciano, qui entra roba. In effetti lo smercio di sostanze stupefacenti tra Thailandia e Laos è florido e ben noto. Qui non solo spacciano, ma consumano e magari lasciano le stanze ai clienti o ai colleghi. E' una specie di crack house laotiana! Ottimo. Ecco perchè sono tutti strani e sospettosi, mentalmente torpidi e pieni di croste. Ed ecco il perchè del negozietto, dove ho intravisto nei frigoriferi kili di verdura marcia, con la muffa che si è espansa su tutto. Son coperture! Inizialmente queste consapevolezze crescenti mi fanno salire ansia e paura, ma poi penso: mica vorranno rogne per una turista con quattro soldi e una bici tutta sporca e usurata. Non vorranno che io chiami la polizia. Il loro, diciamo, business model funziona in altro modo. E' un po' come la corte dove vivo... Ma non è questa la sede per fare i sicofanti. Prima di salire definitivamente, prendo in prestito (mi approprio) di un bollitore elettrico, altrimenti niente noodles, ovvero niente cena. Risolvo poi l'ultimo problema: come faccio a chiudere la porta da dentro, considerando che il lucchetto si aggancia solo fuori? Idea! Esco dalla finestra, che si chiude dall'interno con il chiavistello, chiudo il lucchetto da fuori, mi tengo in tasca la chiave, rientro dalla finestra, serro la finestra. Sono in un bunker blindato! Per sicurezza, comunque, metto davanti alla porta due pesanti sgabello di legno, e alle finestre bottiglie e scarpe che, se dovessero cadere, farebbero molto rumore.





Ceno, mentre gli ultimi camion passano in strada e i miei "ospiti" ascoltano musica ad alto volume in cortile. Poi si fa silenzio, e si sentono le capre belare che paion bambini che piangono, i loro campanelli, e il soffitto che fa un rumore di crollo imminente. Riesco anche a lavarmi, con il tubo dell'acqua che, scaldata dal sole di oggi, è persino calda. Ma chi m'ammazza? Comunque, domani, ho intenzione di andarmene MOLTO presto. In questa situazione, apprezzo la differente reazione a casa quando do la notizia del mio alloggio: mia mamma si stupisce di come io sia fin troppo tranquilla, Gigi vuole vedere in videochiamata se ho chiuso bene porta e finestre, Franco commenta che pare la location di un film di Van Damme in pieno stile anni '90, dove lui dà quattro mazzate per sgominare una banda di narcotrafficanti asiatici. Accuratissimo! Scrivo, e scrivere distrae e consola, finchè non crollo dal sonno. Mi butto nel letto e, nonostante la testa cerchi di tenere vigile l'attenzione ad ogni rumore, dopo poco mi addormento

11/8
Ban Xenouan-Savannakhet
116km

Alle 5 mi sveglio per lo scampanellio e i belati delle capre, ma pure un certo chiacchiericcio e il casino dei piccioni nel sottotetto, che scricchiola con il primo sole. Non perdo tempo, ho ancora tantissimo sonno e sento di non aver recuperato la fatica di ieri, ma voglio andarmene. Chiudo le borse, mi vesto, esco dalla finestra, apro la porta, scavalco il fermo sulle scale, slego la bici, carico tutto. Ma non ho acqua, e ho una sete enorme da ieri notte. Noto che il negozietto accanto alla "guesthouse" è aperto, e la ragazza crostolosa è lì a presidiarlo, con lo sguardo assente e un continuo grattarsi a sangue. Compro una bottiglia d'acqua e mi accorgo che non mi ha riconosciuta... Mamma mia, è proprio fritta!
Parto con le borracce piene, la luce del primo sole alle spalle, la sensazione di essere lurida e viva. 


Noto che la gente è già sveglia; i pastori portano mucche e capre al pascolo, i negozianti espongono la merce sulle bancarelle e gli ambulanti danno gas a motorini e carretti, carichi di roba da vender per via; anche i meccanici di auto sono aperti, e sembrano robivecchi. Molti tengono la musica a palla. Ci sono persino già in giro i bambini salutini! Mi stranisce questa vita che già brulica all'alba, e mi ricorda il Sud America. Come là, anche qui ci si alza presto e si va a dormire tardi, salvo poi stare svaccati tutto il giorno sulle amache. Diciamo che gli orari consentono una siesta di 15 ore!





Il traffico è quasi inesistente, cosa perfetta per fare lo slalom tra buche e avvallamenti o protuberanze dell'asfalto, nonchè tratti del tutto sterrati riempiti di ghiaia o sabbia. Qua e là incontro una pagoda o un piccolo mercato che colorano il panorama altrimenti un poco cupo, ma fresco, per le nuvole sparse.





L'unica cittadina che attraverso è la polverosissima Somboon Pakxong, che si sviluppa tutta attorno a un incrocio, cui affaccia un mercato. La condizione delle strade fa sì che ci siano fango e pulviscolo ovunque, sui mezzi, sulle persone e sulle cose. Anche la visibilità è molto ridotta e pare spesso ci sia nebbia, ma son nuvole di polverone che si sollevano quando passano camion o motorini. Io me la respiro, mangio, mi entra negli occhi e sulla pelle ho sempre uno strato di impanatura croccante mista sudore, insetti appiccicati, solare, autan e sporco misto.





A poco meno di 50km sento il bisogno urgente di rifare una mezza colazione, e mi fermo ad una stazione di benzina con caffetteria Amazon, la Starbucks thai. E' una catena fighetta e non economica, ma per oggi me la concedo, così approfitto anche di bagni puliti e acqua per riempire le borracce. Mi godo un thai tea che dall'anno scorso mi manca, e, mamma mia, quanto è buono! Sulle aiuole fuori dal locale trovo poi una gigantesca farfalla che prendo come segno di buon auspicio. Anche perchè non ho riposato e la stanchezza di ieri chiede il conto, ed ance oggi ci sono vento, salite e un fondo che mette a dura prova i miei braccini bionici.



Riparto un poco rinfrancata, ma l'effetto benefico della sosta dura poco. Da qui ci sono 35km dritti a nord sullo stradone, e altri 35 su una diramazione che porta a Savannakhet, dove ho prenotato un alberghino a modo, in centro. Questi 70km si fanno confusi, come se il mio campo visivo si restringesse mano a mano sempre più intorno al mio corpo, alle gambe sfibrate, alle contratture alla schiena e alle spalle per i contraccolpi delle buche. Sull'orlo del campo visivo, come macchie di colore, scorono pagode rosse e oro, distese di alberi e campi, verde verde verde in scia, statue del Buddha in cima alle colline, paesini minuscoli, un'infinità di bestiame che invade la strada. Mi risveglio dal torpore solo in tre occasioni.






La prima e più frequente è quando mi inseguono i cani. Qui capita. Escono di corsa in due o tre dalle capanne, a volte abbaiano, altre me ne accorgo dal ticchettio delle zampe e li vedo negli specchietti. Tiro giù dei moccoli urlati che li fan desistere, e le poche volte che non basta, parte qualche sassata volutamente non a segno. La seconda è quando ci sono i posti di blocco della polizia. Sono frequentissimi e fermano tutti i mezzi per controllare i bagagli. Auto, bus, moto... Si vede che la vicinanza con il confine thailandese crea qualche traffico, eh. Io vengo fermata solo una volta, ma mi lasciano subito andare senza neanche chiedere i documenti. Forse puzzo troppo e creo disagio, chissà. La terza, è quando vedo un gruppetto di tizi (tizi generico, non militari, non persone in uniforme, niente) che sfrecciano su motorini scassoni, in abiti da lavoro tutti infangati, con dei mitra a tracolla. Ma chi sono questi? Signori della droga? Mi rimane il dubbio.



Ormai in condizione estatica (cioè di permanenza fuori da me, come se coscienza e carne si fossero scollegate) prendo la deviazione per Savannakhet, che, per gli standard laotiani, è una città grande. Penso che di quei 35km, almeno gli ultimi 15 siano già urbani. Invece no. Mi sbaglio. Sono colline verdissime con i microvillaggi, le capanne  scassate e le casine di lamiera, i cani a zonzo con le vacche e le capre, la polvere, l'assenza di qualsiasi servizio. Qui le città son talmente piccole che non hanno periferia. Iniziano di colpo e all'improvviso dopo distese di aree rurali. Un metro indietro sei nel fango della risaia, un metro avanti tra musei, baretti pettinati e i monumenti sul lungofiume. 







E infatti SBAM, eccomi in centro quando un secondo fa ero in aperta campagna. Savannakhet si gioca il secondo posto con Pakse come città più popolosa dopo la capitale, con i suoi 125.000 abitanti. Cito il bel sito tuttolaos.com: "Sebbene non si trovi nel mezzo esatto del Laos, la città di Savannakhet ha una posizione assolutamente centrale, nodo nevralgico delle comunicazioni tra est ed ovest (Thilandia – Vietnam) nonché tra nord e sud (Vientiane – Pakse). 
Savannakhet, che nella lingua pali significa “terra d’oro”, è, dopo Vientiane, la seconda città più abitata del paese, mentre l’omonima provincia è la più estesa dell’intero Laos. Spesso i turisti usano Savannakhet come tappa di passaggio verso altre mete, tuttavia questa bella ed antica città merita una sosta di qualche giorno per essere apprezzata come merita.




La posizione geografica di Savannakhet si riflette anche nella sua storia. Sotto il regno di Champa (oggi in Vietnam) dal VII al X secolo, appartenuta poi all’impero Khmer fino al XIII secolo come ricordato dal Heun Hin, la “casa di pietra” sita lungo il Mekong, e da alcuni ornamenti del That Ing Hang, il più importante sito religioso della provincia, ricostruito nel XVI secolo dal re Saysethathirath.
Savannakhet entrò in seguito a far parte del regno di Lane Xang, progenitore del moderno Laos e divenne importante centro coloniale quando i francesi acquisirono la sponda orientale del Mekong, nel 1893. Le differenti anime di Savannakhet si riscontrano nella sua composizione etnica estremamente varia, che influenza anche la cucina della provincia. Uno dei piatti più tipici del Laos, il sinsavanh (carne secca dolce di manzo, dalla forma piatta e guarnita con semi di sesamo) è originario proprio di Savannakhet. Di grande importanza è la tradizione locale dei filati di seta e cotone, in particolare nei villaggi dell’etnia Phouthai e della musica popolare, molto nota quella dell’etnia Katang.





Savannakhet acquisì una certa importanza durante l’epoca coloniale, per poi decadere. Oggi è in corso uno sviluppo commerciale, soprattutto nella zona nord, in gran parte dovuto agli effetti della crescita economica della confinante Thailandia. In particolare dopo l’apertura del Secondo ponte dell’amicizia, nel 2007, che la congiunge alla provincia thailandese di Mukdahan. Una città quindi dove passato e presente convivono, pur in un’atmosfera rilassata e piacevole, dove si può ancora passeggiare per raggiungere tutte i luoghi più interessanti della città, alla scoperta di un Laos che affascina."

Già in bici percorro le vie del centro e noto questi edifici coloniali cadenti ma belli nella loro quieta fatiscenza, il museo locale e quello dei dinosauri (sono stati trovati molti fossi in zona, infatti nelle pagode, accanto a statue brutte e mal colorate di tigri, elefanti e galli, son comparsi da un po' anche i brontosauri). C'è pure una chiesa cattolica, intitolata a Santa Teresa, ed un tempio cinese si erge poco lontano.




Raggiungo l'hotel, provo a pagare con la carta ma ovviamente non funziona e si va di cash. Ma poco male: ho proprio voglia di farmi una doccia come si deve e buttarmi in un letto pulito. E finalmente sono in una città-città, con edifici accanto ad altri edifici, senza mucche a giro e baracche marce piene di merce marcia. Oltre a me stessa, lavo anche i guanti, gli occhiali e il casco, che puzza di carogna per il sudore e i frequenti acquazzoni che lo inzuppano. Oh, che meraviglia! Ora sì! Sbrigate queste faccende, crollo mezzora nel letto sotto al ventilatore.



Prima di procurarmi la cena, visto che è presto e questa città mi sta piacendo molto, faccio un giretto a piedi tra scuole e un tempio gigantesco e particolarmente venerato, tanto che tutti vogliono farcisi seppellire ed è anche un piccolo cimitero. Ci sono monaci intenti a ramazzare il cortile e stendere tuniche color zafferano, e il sole si riflette sulle tessere specchiate dei tetti e dei fregi, dei naga e delle statue del Buddha. I coloro sono così accesi che pare debbano prendere fuoco, ed è una gioia vera per gli occhi, dopo tanta polvere. 









un Buddha velato







il liceo interno alla pagoda

Il pezzo forte, però, è fuori dalle mura, sul lungofiume, e comincia dalla coda.







In una sorta di estensione del tempio, sul lungofiume, rivolto alle acque e alla Thailandia, un enorme naga, circondato da statue più piccole, si staglia sinuoso in un continuo fumo di incenso e via vai di fedeli che portano offerte (in vendita nelle bancarelle di fiori e frutta intorno) e pregano. Le bandiere e i nastri rossi che sventolano nella luce sempre più bassa conferiscono al luogo un'atmosfera davvero mistica e sacra, e per la prima volta intravedo qualcosa di esteticamente bello, creato dall'uomo, qui in Laos. Mi incanto a respirare quella meraviglia. Mi era mancata. La creazione artistica, la ricerca del bello che perduri nel tempo. L'uomo sa fare anche cose belle.














1 commento:

  1. Non ho ancora letto il post,ma questo ritardo,mi stava facendo pentire di aver tramutato la canzone di Morandi! Comunque avete visto che il cavaliere nero a fianco della volpe aveva la bocca chiusa,e non rideva molto! La volpe sta andando in giro con 20 euro!

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