venerdì 7 luglio 2023

13-15. Uxmal e Campeche. Giaguari, monsoni, danze e meraviglie dal passato. Un primo vero incontro con il Messico











4/7
Mérida-Uxmal
82km

La giornata inizia sotto ai migliori auspici: ha smesso di piovere già da ieri sera, le strade sono quasi asciutte e il sole c'è, ma velato, quindi non morde. Gigi sta meglio e vuol provare a pedalare, nonostante avessi già predisposto tutto per un suo trasferimento in bus. Insomma, sembra che la sfiga oggi voglia lasciarci in pace. Facciamo colazione in camera con tortillas spalmate di marmellata di fragola o miele, e, chiuse le borse, siamo pronti per buttarci in strada. Scendendo notiamo due cose: la prima è che mamma gatta, a bordo piscina, ha catturato un ratto gigantesco, e sta mostrando ai suoi cuccioli il da farsi. Speedy Gonzales, stavolta, è stato troppo lento.



La seconda è che sul muro della doccia della piscina, accanto al gabinetto, in bella mostra, ci sono 4 piccole lapidi scritte a mano, che ricordano qualcuno morto giovane (1 e 4 anni) e qualcuno meno giovane, negli anni '80. Gigi è convinto che sian pietre a ricordo dei gatti di casa defunti. Io non credo proprio. Son bambini e amici. Mi sembra abbastanza normale, qui, prendere la morte non poi troppo sul serio, e trattarla come si dovrebbe, ovvero come qualcosa di naturale e parte integrante della vita. Comunque è la prima volta che vedo una doccia da piscina con stele funeraria annessa.



Oggi l'assetto è anche per me quello della Ruta Maya, nel senso della rottamaia, con calzini stesi e scarpe a prender aria ed asciugare. Non oso immaginare le facce che faranno i receptionist dell'hotel dove arriveremo stasera, che è un posto un po' fighetto, un po' di lusso. Ho dovuto optare a malincuore per un alloggio del genere perchè a Uxmal non c'è un paese vero e proprio, ma solo il sito archeologico e qualche resort intorno. Il nostro sponsorizza una Spa con sauna di birra e altre boiate, cosa che mi han fatta tornare spesso a ricontrollare l'esistenza di altre strutture un po' meno trappola per turisti. Ho trovato un campeggio, proprio all'ingresso del sito. Ma non ha i servizi igienici (e Gigi non è nelle condizioni di privarsene) e, soprattutto, è riservato solo a camperisti e simili. E' vietato alle tende per la presenza di giaguari! Quindi siamo ricaduti sull'hotel fighetto, che costa come da noi un due stelle marcio, ma è il concetto che mi disturba. Va be', è il primo e spero e anche l'ultimo.


Iniziamo a pedalare e dobbiamo affrontare il traffico del centro di Mérida. Non è pericoloso, perchè la guida è tranquilla e rispettosa, ma rallenta tantissimo. Ci sono diecimila semafori e code intasate di motorini, mototaxi e tricicli cargo. In più Gigi, che è indebolito dalla malattia e dal fatto che i giorni scorsi non ha praticamente mangiato, deve spesso fermarsi a buttar giù un po' di miele. Poi, però, tutto a un tratto, le strade si fanno più larghe e il traffico si scioglie. Ci troviamo, inizialmente, sui soliti stradoni che circondano le città. Larghi, dritti, piatti, noiosetti. Qui, però, a volte si incrociano capre al pascolo nelle aiuole tra corsie.




Si pedala controvento e in un clima molto più fresco del solito, perchè il sole è velato da nuvole sempre più dense. Siamo nella stagione delle pioggie, e qui, in tarda mattina o, al più, nel primo pomeriggio, si aprono le cateratte del cielo. Puntuali, infallibili. E' il dio maya Chac, il serpente celeste, che governa la pioggia e non manca mai al suo appuntamento. Intorno la selva freme di uccelli di ogni genere e iguane, ma pure di tartarughe e altri animali che vediamo solo spiaccicati sull'asfalto (son cani? Son scimmie? Son coati? Non si capisce).


Passiamo il pueblo di Xtepén, dove tutto tace e pare quasi abbandonato, non fosse che nei cortili ci sono roghi di immondizia assolutamente salutari e non inquinanti, considerando che brucia di tutto, dai copertoni alle bottiglie di plastica. Poi ci addentriamo in Yaxcopoil alla ricerca di qualcosa di fresco da bere, ma l'unico che offre un tale servizio è un anziano che ha messo il suo vetusto e ammuffito frigorifero di casa sul marciapiede, ha scritto su un foglio "jugos" e ci si è seduto accanto, su uno sgabello. Non ce la sentiamo di chiedere a lui.




Da qui in poi non incrociamo più paesi; ce ne sono, ma lontani dalla strada, nel folto della selva. Sono segnalati da cartelli che indicano strade sterrate che si perdono nella vegetazione, e dalle immancabili pensiline dei bus in cemento, dove c'è sempre qualcuno che aspetta. Non si sa da dove venga, quanto abbia camminato per arrivare lì, quanto aspetterà, se passerà un pullman. Non si sa nulla, se non che bisogna aver pazienza. D'un tratto il vento si fa più forte, le nubi si addensano, scure, e inizia a piovere. Lo scroscio è violentissimo, ma dura poco. Ci infradicia completamente, perchè piove a secchiate enormi, ma l'acqua è tiepida e rinfresca. Dà la sensazione di essersi fatti una doccia fresca. Peccato che poi, appena esce il sole di nuovo, ciò che asciuga, si secca in un nanosecondo. Ciò che non asciuga, come le scarpe, i calzini e il fondello dei pantaloni, diventa un brodo in cui cuocersi a bagno maria.



Dopo 65km di pedalata, per me abbastanza agile, per Gigi un po' meno, arriviamo a Muna (acqua dolce), l'unica cittadina vera e propria che incontriamo oggi. Di fondazione maya, poi spagnola, è sede, come tutti i dintorni, di allevamenti e aziende agricole. Infatti oggi è tutto un via vai di auto con carrellini con dentro maiali, vitelli magri e campesinos in transito, tutto mescolato, tutti insieme.





A Muna facciamo sosta per bere qualcosa di fresco, e chiacchieriamo con gli avventori del baretto che ci chiedono del viaggio e commentano stupiti. Tra una chiacchiera e l'altra, ci accorgiamo che il vento si sta alzando di nuovo con cattiveria e davanti a noi il cielo è livido, nero, nerissimo, da Apocalisse. Un signore con cui stiamo chiacchierando ci chiede se abbiamo visto cosa sta per succedere e se abbiamo intenzione di pedalare lo stesso. "Per me la giornata di lavoro finisce qui!" aggiunge. Quando gli diciamo che non abbiamo intenzione di fermarci, rimane abbastanza sconvolto. Ma ieri a Mérida ho notato che la gente, quando vengono giù questi acquazzoni, non si fa gran problema: ombrelli e k-way servono molto relativamente, e quindi si bagnano e basta. Tanto fa caldo e non c'è rischio di prender colpi di freddo. Noi abbiamo deciso di fare la stessa cosa. Anche perchè, se le cose vanno come abbiamo visto i giorni scorsi, il diluvio si protrae per tutto il pomeriggio. Quindi aspettare che spiova non serve. E poi, come dicono i tedeschi, non siam mica fatti di zucchero!



Ripartiamo che ha già ricominciato a piovere. Nel giro di qualche minuto si scatena l'inferno e colonne d'acqua, cascate, letteralmente, ci colpiscono con violenza, portate dal vento teso. Si vede ben poco e le strade si allagano, per cui procediamo pianissimo. Come se non bastasse, iniziano qui le prime collinette dopo settimane di pianura totale. Giustamente. Siamo al limitare della regione Puuc, che significa collina, e dà nome a una popolazione che ha dominato queste zone nel periodo classico maya, e ha sviluppato uno stile artistico e architettonico originale. Puuc, colline. Quindi salitelle. Controvento. Sotto al monsone.



Gigi inizia a essere, comprensibilmente, stanco. Per fortuna siamo arrivati. Il resort si erge, mastodontico, eccessivo, a lato strada, bianco contro il verde cupo e nebbioso della selva. E' una struttura che ha un centinaio di camere grandi come appartamenti, piscina, ristorante, sala da biliardo, bar... Una città più gande di tanti pueblos visti di questi tempi. La cosa pazzesca è che è deserto. Ci siamo noi, due coppie messicane e un gruppo di quatto francesi. C'è molto più personale di quanti non siano gli ospiti. Di che campa un posto così? Portiamo tutto in camera, anche le bici (qui non fanno mai problemi) e ci godiamo il rumore della pioggia sulle foglie e nell'acqua. Proprio dritte davanti alla finestra si vedono le rovine di Uxmal che fanno capolino sopra alle chiome degli alberi.





Viste le condizioni meteo non felicissime, e la stanchezza di Gigi, decidiamo di rimandare a domattina presto la visita del sito archeologico, che dista poco più di un kilometro. Approfitto del mezzo pomeriggio libero per preparare bene le tappe dei prossimi giorni. Domani ci attende una giornatona: visiteremo subito, appena apre, Uxmal. Poi, dopo 24km, quello di Kabah. E da lì pedaleremo dritti per altri 70km fino a Hopelchén. Qui c'è una struttura che affitta camere ed è di proprietà di un chiropratico, che mette a disposizione degli alloggi per i suoi clienti che lo raggiungono da lontano o devono fare trattamenti prolungati. Ma pure a chi deve essere rimesso in bolla (cosa che, comunque, male non farebbe). Lasciamo perdere il museo Choco-Story perchè sa proprio di trappola per turisti. In primis, qui in Yucatan di cioccolato ce ne è ben poco. Poi il nome in inglese la dice lunga. Ancora, nel museo ci sono animali in cattività, come scimmie e giaguari. pare si tratti di un progetto di salvaguardia delle specie, con esemplari che, per vari motivi, non possono vivere nel loro habitat. Ma chissà, la storia puzza. Come puzzano le cerimonie sciamaniche del cacao, che si concludono con degustazione e passaggio allo shop. Anche no, per noi.

Ceniamo nel ristorante dell'hotel, unico posto disponibile, e, una volta sazi, ci ritiriamo in camera. Dalla selva salgono i rumori che ci si immagina, tra gracidare di rane, canti e grida di uccelli che non conosco, e versi un po' inquietanti e per nulla riconoscibili. Insomma, si sente quel suono di bordone che si trova online in quei video tipo "10 hours relaxing jungle sounds". Solo che qui ci siamo in mezzo.



5/7
Uxmal-Kabah-Hopelchén
93km

Che tappa! Che meraviglia! Che fatica! Che spettacolo entrare così a contatto con una terra, e farsi portare dalla strada e dal vento, e combattere anche, contro quel vento e contro quella strada,e guadagnare un palmo alla volta e scoprire il tutto nuovo, quel che era lontano e straniero ed ora è qui e fa parte di noi. E' successo tutto: ha fatto caldissimo, con quel sole sacro che brucia i cieli e dissecca la terra; ha piovuto fortissimo, perchè il dio Chac ascolta le preghiere di chi chiede acqua per le radici e la gola riarsa. Ci sono state pianura e colline. Giungla, fitta, scura, grassa di linfa, ma anche campi aggiogati, coltivati a mais e piantagioni di mango. Tanti volti, tante anime. Per lo più sorridenti e curiose, ma anche intimorite o spavalde nell'approcciarsi a noi che siamo quanto di meno consueto possa transitare su certe strade. Cani buoni ed emaciati, cani emaciati e aggressivi. Gatti coccoloni e gatti schivi. Rovine archeologiche meravigliose ma pure discariche a cielo aperto a bordo strada, intorno ai paesi. Oggi penso di poter dire che tanto di questo paese ci si è fatto incontro, e c'è stato un contatto, una compenetrazione. Un reciproco riconoscimento.

Torniamo a stamattina. Sveglia all'alba, caffè e via, per essere alle 8, puntuali, ai cancelli del sito archeologico di Uxmal, che apre a quell'ora. Come i pensionati alle Poste o al supermercato, in pole position e frementi.
Già l'avvicinamento, breve, si carica di aspettative. Inoltre i cartelli ricordano che ci troviamo in una riserva della biosfera, con una fauna ben degna, tra cui i giaguari (onde il divieto di accamparsi con le tende). Che bellezza!



Arriviamo all'ingresso delle rovine e siamo gli unici. Le folle oceaniche prospettate da guida e siti proprio non ci sono, al pari di tutti gli altri luoghi finora visitati. Paghiamo i nostri due soliti biglietti (per il sito e le tasse governative) facciamo i due controlli, con tornelli e addetti posti a 5m uno dall'altro, e, dopo 3 gradini, bam! Andiamo a sbattere contro la bellezza che sorge dalla bruma della giungla in tutta la sua maestosa imponenza.


Si tratta della "Casa dell'indovino". Uxmal ("tre volte ricostruita"), fondata nel VI secolo d.C., raggiunse il suo massimo splendore nel periodo classico maya, diventando il centro cerimoniale più importante della cultura Puuc. Esercitava la sua egemonia sulle città circostanti, cui era collegata daun sistema di strade ancora oggi visibili. Intorno al X secolo la città fu abbandonata, forse per una crisi di approvvigionamento idrico dopo prolungata siccità. La giungla se la rimangiò e fu riscoperta solo a metà Ottocento grazie ad archeologi francesi e statunitensi.

Il sito è vasto e ben conservato. La prima cosa che salta all'occhio è, appunto, la Casa del adivino, con i suoi 35m di altezza e l'insolita pianta ovale. Si tratta della quinta ricostruzione del tempio, iniziato nel VI secolo e concluso nel X, con decorazioni chenes. Il portale forma la bocca di una gigantesca maschera del dio della pioggia Chac. Leggenda vuole che l'intero complesso sia sorto dalla terra in una sola notte grazie all'opera di un nano.



Questo tempio è così particolare e monumentale da rubare lo sguardo. Si fatica a proseguire oltre, c'è qualcosa di magnetico.



Ci fa visita anche un quetzal, l'uccello sacro per maya e aztechi. Le sue piume rosse e verdi e la lunga coda gli conferiscono, in effetti, una bellezza e un'eleganza tali da farci capire perchè fosse venerato. E' simbolo del Guatemala, che dista in effetti una manciata di km da qui. Ed è simbolo anche di libertà, perchè, a quanto pare, preferisce morire di fame che vivere in gabbia. Vedere un quetzal (in italiano detto trogone splendido, ma si può? Quanta poca poesia) è un dono che la selva ci offre. 



Dopo aver fatto un mezzo giro intorno alla casa dell'indovino, ci dirigiamo verso un'altra struttura pazzesca, il cosiddetto "quadrangulo de las monjas", il quadrilatero delle monache. Ha 74 sale e tuttora gli archeologi non concordano sulla funzione di questo maestoso complesso: accademia militare? Scuola reale? Insieme di palazzi? Non si sa con certezza.




Certo è, invece, che i quattro templi che formano il complesso sono riccamente decorati, quasi esuberanti, con influenze della cultura totonaca. Si vedono volti del dio chac, di serpenti piumati e di na (la capanna tradizionale con tetto in foglie di palma). Sulle facciate di questi edifici si legge, scritta nella pietra, la visione del cosmo che i maya avevano, e questa consapevolezza mi mette la pelle d'oca. Mi immagino questo luogo, popolato, con i fuochi accessi e le danze, la musica, le sacre premonizioni e i sacrifici. Mi immagino la grandezza, e il rapido declino. Il silenzio che cala improvviso, la giungla che fagocita tutto.










Passando per un angusto arco ci si affaccia quindi al campo da gioco della pelota, che conserva le due pareti laterali con le tribune e gli anelli in cui far passare la palla.






Da lì si passa per il cementerio e si giunge alla gran piramide, 30 metri di gradoni e, in cima, decorazioni con chac, fiori e uccelli. E' stato restaurato un solo lato, il resto è incora inglobato nella collina retrostante.




Salendo per ripidi e sconnessi gradoni, che ci rendono il passo malfermo a causa della tacche per la bici, raggiungiamo una terrazza sopraelevata. Qui si trova la casa delle tartarughe (perchè sono il fregio più evidente e particolare sul cornicione). Secondo i maya anche le tartarughe soffrivano la siccità al pari degli uomini, e quindi pregavano anche loro il dio della pioggia chac, e ad esso erano associate.


Subito accanto si trova il palazzo del governatore, con i suoi 100 metri di facciata decorata con volti di chac e motivi geometrici. Un avvoltoio si posa sulle pietre d'angolo del tetto e ci osserva, arruffato dalla brezza. Di recente, in questo edificio, sono state trovate circa 150 specie di piante officinali, cosa che fa pensare venissero qui coltivate per curare i disturbi dell'apparato digerente, i morsi de serpente e le infezioni.






Scendendo si incontra la cosiddetta Casa della vecchia, con una palapa e grandi simboli fallici. Hai capito la vecchia!






le iguane non mancano mai! Anzi, qui ce ne sono a bizzeffe, alcune enormi!

Salutiamo il simbolo indimenticabile di questo sito e siamo pronti a ripartire. Ci aspetta una tappa lunga e un altro sito da visitare a poco più di 20km da qui.


Questi 20km si rivelano piuttosto impegnativi per la natura del territorio, che è collinare di colline basse basse (mai oltre i 100m) ma anche piccole piccole, motivo per cui sono tantissime e si susseguono una dopo l'altra come gobbette, come grinze infinite. Brevi salitelle ripide, brevi discese, non sufficienti a far prendere velocità. E' come sgranare un rosario, ma sotto ad un sole già feroce di prima mattina. Intorno la selva fitta che brulica di fruscii e schiamazzi di animali, ronzare d'insetti e scalpiccio di uccelli e iguane. L'umidità è alle stelle, e l'aria si beve, non si respira. Su e giù. Su è giù. Su piano con il cambio morbido, giù a cannone per qualche istante. Di nuovo su, di nuovo giù. Ogni pochi metri.




Passiamo dal pueblo di Santa Elena senza entrarci. Ci sarebbe un piccolo museo con delle mummie di bambini del XVIII secolo, ma abbiamo già tante cose da vedere, per oggi, e una scelta si impone. E' interessante leggere che questa cittadina, prima maya poi spagnola, fu rasa al suolo e data alle fiamme durante la guerra delle caste. Si chiama Nohcacab. Ele-na in lingua maya significa "case bruciate". Quindi i ribelli si riferivano a questo luogo come la località dell'incendio vendicatore. Poi un governatore messicano ebbe la brillante trovata pubblicitaria di denominare il pueblo Santa Elena, per raffreddare gli animi e mettere una pietra (tombale) sopra a quanto successo negli anni delle ribellioni degli indigeni.






Arriviamo, pagando in sudore e fatica, finalmente, dopo tante gobbette della strada, a Kabah ("signore dalla mano poderosa". Si tratta del secondo sito più importante, dopo Uxmal, della regione Puuc e relativa cultura indigena. Nemmeno qui ci sono altri visitatori. Solo due custodi, il bigliettaio e la ragazza del negozio dei souvenir. E molti operai al lavoro, perchè il sito è solo parzialmente scavato e dalla giungla e dalle colline intorno stanno emergendo nuovi edifici. Ci sono anche diversi cani pulciosetti e un gatto maya dal miagolio roco.



Quest'area, abitata già dal III secolo a.C., fiorì poi tra VII e XI secolo d.C.; i conquistadores la trovarono già abbandonata da tempo, forse anche qui per problemi di approvvigionamento idrico (non ci sono sorgenti d'acqua nè fiumi intorno; si usavano cisterne per raccogliere l'acqua piovana). In maya si chiama anche Dzalkabilkik, cioè luogo dalle mani di sangue, perchè sugli edifici ci sono pitture di mani rosse.


L'edificio più significativo è il cosiddetto Codz poop (stuoia arrotolata), anche detto tempio de los mascarones perchè la sua ampia facciata è completamente ricoperta di volti (quasi 300) del dio chac, con tanto di nasi sporgenti e proboscidali. In terra, tutto attorno, sono ammonticchiate alla rinfusa pietre incise con glifi.







Sulla facciata opposta ci sono due "atlanti", due figure strutture architettoniche a forma di figura maschile, una acefala e l'altra con maschera di giaguaro (un sovrano?). Solo pochi siti maya hanno conservato figure umane tridimensionali.






Dopo aver superato una piramide e altri edifici ridotti a rudere, si incrocia El palacio, detto anche Teocalli, con diversi portali e colonne, esempio di architettura Puuc.





Finita la visita, torno a recuperare Gigi che è rimasto all'ingresso a riposare in compagnia del custode e dei suoi canetti. Ora ci aspettano 30km di sola selva, quindi facciamo scorta d'acqua, un bel sospiro e partiamo ad affrontare le colline (Puuc, appunto).


In breve raggiungiamo il confine tra gli stato di Yucatan, ormai alle spalle, e Campeche, che ci attende per i prossimi giorni con le sue perle nascoste tra oceano e giungla. Dobbiamo rallentare per un posto di blocco di militari armati fino ai denti, ma ci lasciano andare senza troppe storie. L'arco segna il passaggio in una nuova regione.


Ma il paesaggio, ovviamente, resta immutato: selva e collinette. Collinette e selva. Un caldo devastante, gran fatica. Poi si alza il vento, il cielo si incupisce e l'aria rinfresca. Tutto in pochi attimi. Lampi, tuoni da incrinare la volta del cielo e inizia a diluviare. Chac è puntuale anche oggi e non manca di infradiciarci completamente, cosa che, tuttavia, non è così spiacevole: abbassa la temperatura da cottura a fuoco lento in cui pedalavamo. 





Raggiungiamo la nostra tappa di metà giornata, Bolonchen de Rejon. La prima parte del nome significa "nove pozzi" in maya, la seconda ricorda l'avvocato e padre costituente Manuel Crescencio Rejon, nato qui nel 1799). Il paese sorge vicino alle rovine maya dell'insediamento originario, anche se molte sono state abbattute per riutilizzarne le pietre come materiale edile, tra XVI e XIX secolo. Ci sono anche dei cenotes e alcune grotte sacre, nei dintorni. Oggi si tratta di un paese sonnolento e un po' lercio, con la sua bella discarica a cielo aperto a bordo strada, i perri marci ovunque (per lo più intimoriti dall'uso a prender legnate, e troppo deboli per poter correre... Ma uno no, uno insegue Gigi e quasi lo azzanna al polpaccio) e un'umanità più o meno dolente, più o meno indaffarata. Passano anche tanti uomini in motorino amati di fucile. Per la caccia. Ai gringos. Noi ci fermiamo in un negozietto a prendere da bere e veniamo attorniati da cani e canetti malaticci, che fanno grande tristezza, e tenerezza, e un po' schifo perchè basta guardarli per prendere due diversi tipi di micosi aggressiva.  Certo che la gente potrebbe aver un pochino più cura... Ma come, poi? Il veterinario costa.








Ripartiamo, e mancano ancora 35km. Che non sono tanti, ma sembrano lunghissimi, perchè siamo stanchi e accaldati e la giornata è stata così lunga e piena da sembrare in corso da 47 ore. Ci lasciamo le collinette gobbette alle spalle, pe avventurarci in una zona di alture più significative separate da valloni degni di tale nome. Qui è tutto un fiorire di aziende agricole, campi coltivati a mais e frutta e silos di stoccaggio cereali. Si vedono contadini curvi a lavorare, perchè la terra è bassa dappertutto, ma qui forse un po' di più. Si vedono trattori e macchinari, e cartelli che pubblicizzano le sementi. C'è anche un campo mennonita. Qui in Messico ci sono nutrite comunità fedeli a questa confessione. Dalla Russia giunsero in Canada a fine '800, e dal Canada a qui, nei primi decenni del '900, a coltivare questa terra rossa rossa come il sangue.

Prima di arrivare Gigi deve fermarsi per urgenze fisiologiche. Sceglie con cura una zona in mezzo agli alberi, a ridosso di un tunnel di scolo che passa sotto alla strada e offre grande privacy. Io lo aspetto a bordo carreggiata, qualche metro avanti. Dopo un istante lo sento gridare: "Pipistrelli! Un sacco! Escono!" e fare un balzo indietro, ignudo e disarmato. Il tunnel di cui sopra è la tana di una nutrita colonia di murcielagos, disturbata da Gigi. Anche oggi una cosa l'abbiamo imparata: mai, e dico MAI, fare la cacca nei tunnel nella giungla. Qualcuno ci vive!


Quando stanno per esplodermi gli occhi come popcorn dal caldo, e i piedi sono salamelle bollite, arriva un provvidenziale scroscio di pioggia e rinfrescarci. E così arriviamo a Hopelchén, la meta di oggi. Possiamo scegliere tra diverse strutture, e alla fine optiamo per quella più in centro, che affaccia proprio sulla piazza della chiesa. C'è un clima rilassato ma vivace: si vedono negozi aperti, gente a passeggio e nei tavolini delle taquerie, la musica scivola fuori dalle finestre e inonda la strada. Bello, mi piace, è il posto giusto per noi, stasera.



Prendiamo una stanza a Los Arcos, hotel che sembra decente da fuori, terribile alla reception (che sta in un portico condiviso con un ristorantino sporchino) e più che passabile nelle camere. Certo le pareti sono decorate con disegni e macchie di ogni colore e forma...


Ma la stanza è spaziosa, fresca, con poche, grosse e ragionevoli cucarachas e al pian terreno. Entriamo in bici, quasi pedalando fino al letto. Ci godiamo il ventilatore e la penombra, dopo la doccia, per poi percorrere i ben 20 metri che ci separano da due supermercati, dove compriamo la cena. Stiamo evitando di mangiar fuori quando i locali non sono proprio lindi e scintillanti, perchè Gigi non si è ripreso del tutto. Intanto, nel pomeriggio e nella sera, organizzo tappe. Trovo esperienze che non vedo l'ora di vivere. Mi lascio trascinare dal viaggio, nel viaggio. 




i corridoi dell'hotel in stile Shining

6/7
Hopelchén-San Francisco de Campeche
87km

Buongiorno! La tappona di ieri ci ha lasciati un po' rotti, un po' sfibrati, e quindi cerchiamo di ripigliarci con una bella colazione. Ma non con il burrito El cazo, deh. Mi sono svegliata presto e, frugando online, ho scoperto una nutrita comunità di indigeni di diversi pueblos, in Campeche, che offrono servizi di ecoturismo vero. Sicuramente faremo tappa presso una di queste, nella giungla della riserva di Calakmul, tra qualche giorno, e vedremo come vivono questi custodi della tradizione e della foresta. Ho iniziato anche a prendere qualche contatto per poter visitare un villaggio zapatista, in Chiapas. Non voglio negarmi la possibilità di conoscere meglio questa realtà, per quanto abbastanza fuori dalle rotte del turismo di massa e non facilmente raggiungibile.



Prendiamo il largo pedalando già dal corridoio, e in breve siamo fuori dalla città. Ci imbattiamo in alcune rovine inattese: si tratta del piccolo sito di Tohcok, deserto e ancora chiuso, ma popolato da iguane giganti che si bevono il sole goccia a goccia.



Imbocchiamo poi la lunghissima e drittissima strada che, senza mai uscirne, ci porterà nella capitale dello stato. Qui si susseguono pueblos abbastanza vivaci a breve distanza uno dall'altro, e la terra, sempre rossa rossa, è coltivata a mais e mango, peperoncino e agave.



A Santa Fe Dos assistiamo a una lezione di educazione fisica all'aperto, che consiste in esercizi a corpo libero, in divisa, di adolescenti schiamazzanti, sotto al grande campo coperto di lamiera che si trova in centro al paese. Sotto ai portici del palazzo comunale, di fronte, è in corso una riunione molto partecipata. Ad ascoltare uno che parla, su sedie di plastica bianca, ci sono solo uomini. Le donne sono tutte inchiodate alle bancarelle e dietro ai banconi dei negozi, con i bambini.




Attraversiamo villaggi dai nomi decisamente non spagnoli: Ich Ek, Suc-Tuc, Oxà, San Antonio Xkix, Tikinmul. Sono un curioso mix di degrado e sporcizia, in alcune zone, e strutture ben tenute, funzionali e abbastanza nuove, in altre. Le case sono spesso malridotte, capanne con tetto di foglie o lamiera, cumuli di mattoni accomodati in qualche modo tra fango e spazzatura. Però poi, magari, c'è una casetta dell'acqua appena costruita, un parco con tanto di giochi per bambini...





I primi 40km scivolano veloci sotto alle ruote, ma poi arriva il caldo, ed oggi è davvero devastante. I movimenti rallentano, ogni sforzo si fa sovrumano. Continuiamo a svuotare le borracce e a fermarci per riempirle con qualcosa di fresco. Ci bagnano la testa e l'acqua evapora in un istante... Insomma, proseguire diventa difficile. Per fortuna il vento è dalla nostra parte e la strada corre prevalentemente in piano, salvo qualche collinetta sparsa.



Da oggi, oltretutto, stiamo sperimentando queste polverine magiche per rendere meno vomitevole l'acqua calda come brodo che ci troviamo a bere. Non sono male, per quanto abbiano tutta l'aria di fare abbastanza male.


chihuahua!

Passiamo altri pueblos, sempre più piano, sempre più sciolti dal caldo. Uno si chiama "La divina providencia" e, per quanto paia ironico, non lo è affatto.




mucche magre alla cui ombra trovano frescura le garzette


L'altra cittadina, l'ultima prima di Campeche, è Castamay (lascyvasempre), nata dalle terre e dai lavoratori di una grande hacienda che sorgeva qui. Tutti ci fissano e ci salutano con "Hey mister! Ok ok, mister!" e immagino che se abbiamo la faccia da gringos non c'è cartello che tenga. Mannaggia. Tuttavia non percepisco vibrazioni negative, anzi. Solo grande curiosità e, al massimo, qualche sincera risata mista a stupore, e tanti sorrisoni (spesso sdentati), tutti ricambiati.



Cotti e derelitti entriamo finalmente in Campeche, dove dobbiamo affrontare il traffico cittadino e i primi tratti di strada completamente esplosi, pieni di buche, di tombini aperti, di dossi, di asfalto scrostato a pezzettoni. Ma ormai ci siamo. Il nostro ospite, con cui ho chattato ieri sera, ci sta aspettando. Siamo a casa sua, in una stanza privata, con un cucinino in comune, in centro, sopra al mercato, appena al di fuori delle mura.




Ci riposiamo e lasciamo spiovere, mentre Gigi impazzisce causa Inps, banca e altri infernali labirinti. Poi, finalmente, riusciamo a uscire per una prima passeggiata in questa città coloniale fortificata. Domani visiteremo per bene il centro storico (patrimonio UNESCO) con le sue ville e i suoi palazzi color pastello. Per ora ci diamo una misura dell'ampiezza del mercato, che, essendo tardo pomeriggio sta chiudendo, e delle mura difensive con i loro baluardi, costruiti per difendere questo ricco porto commerciale dalle incursioni di pirati e soprattutto corsari (che non solo derubavano, ma massacravano e incendiavano).





Percorriamo i viali e notiamo subito un'atmosfera piacevolissima, vacanziera. Sarà che siamo tornati sul mare, sarà che ci sono tanti negozi ma non turistici, e la gente del luogo passeggia tranquilla tra musica e strade addobbate con festoni, baracchini dei gelati e delle marqusitas... Sarà la luce del tramonto che rende tutto più dolce e morbido, fatto è che ci sentiamo subito immersi in un piacevole torpore dei sensi.  







Raggiungiamo il malecon, il lungomare, al momento perfetto, nella golden hour più grandiosa degli ultimi tempi. Il temporale è appena passato, e ora sta rovesciando colonne d'acqua al largo, in mare. Dentro alle colonne corrono fulmini lunghissimi. Ma il sole non è coperto, ed è libero di sciogliere tutta la sua luce di miele e caramello in cielo e sulla superficie calmissima dell'oceano. Svetta su tutto la colonna in cima alla quale si trova il cosiddetto "angelo maya" (la scultura si chiama "Incontro tra due mondi"). Molti sono qui a godersi lo spettacolo, e pochissimi son stranieri. C'è una gran pace, ed una brezza fresca invita a restare. Non decliniamo.










Aspettiamo che il sole scompaia completamente di là dall'orizzonte, e solo a quel punto lasciamo, un po' a malincuore, il lungomare, per tornare verso il centro storico. Ci imbattiamo in aree pubbliche e strutture nuove e belle, cosa che segna in modo netto la differenza tra città e villaggi. Avevo già notato questa cosa in Perù. Nascere, vivere in una città come questa significa nascere e vivere in un altro mondo rispetto ai pueblos, dove a malapena ci sono luce e acqua corrente (e non sempre). 



il palazzo del governo dello stato di Campeche




Riattraversiamo le mura e i bastioni e ci dirigiamo verso la piazza centrale, dove ci sono bancarelle di ogni genere, una vista incredibile sulle ville circostanti e sulla cattedrale e, soprattutto, una esibizione del centro diurno anziani, che stasera danza in abiti tradizionali. E vogliamo perdercelo? Non sia mai!












Finito lo spettacolo, facciamo una capatina nella cattedrale, che è aperta perchè c'è una funzione in corso. Ne parleremo domani, come di tutta la storia di questo luogo incredibile. Ci avviamo verso la casa di questi due giorni, e intanto facciamo spesa grande per la cena: stasera abbiamo una cucina degna di tale nome e possiamo sbizzarrirci! La zona del mercato, ormai chiusa, ha un che di mesto e a tratti spettrale, con i lavoratori distrutti, buttati sui banconi e sulle pile di cassette a riposare, e con alcuni ambigui personaggi che, con il buio, compaiono ai crocicchi. 





Mentre cucino la basta a Gigi, e lui smadonna fortissimo contro Inps e sistema, conosco due ragazzi inglesi che sono in viaggio da un anno. Sono partiti dalla Patagonia, dopo aver comprato due bici scassone che poi, a una certa, han venduto per proseguire e piedi e con i mezzi. Ora hanno deciso di provare ad iniziare a correre, cosa che non hanno mai fatto, per partecipare alla maratona di Città del Messico che si svolgerà a fine agosto. Poi torneranno a casa. Sono due ragazzi simpatici, entusiasti ma non ingenui, biondi e abbronzati. Ci chiacchiero volentieri. Quando rientro in camera e riferisco a Gigi, che è ancora incazzato per le sue beghe, commenta secco: ma la gente non lavora mai? Si placa poi con l'ottima pasta al formaggio che gli ho preparato, e così finisce la giornata. Domani staremo qui a San Francisco de Campeche, a visitare e sistemare la logistica dei prossimi giorni. Poi torneremo a tuffarci nella giungla, in direzione Calakmul!

2 commenti:

  1. In questo post il fatto piu bello e' vedere Gigi che sta tornando in forma.

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  2. E il fatto piu' simpatico e' stato l incontro tra gigi e I parenti di batman,ahahhahah

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