martedì 25 luglio 2023

31-33. Oceano. Pedalare fino a Puerto Escondido e liberare tartarughe marine tra paradisi tropicali










22/7
Tehuantepec - El Coyul
111km

Quella che sto per raccontare è la storia breve di una lunga tappa faticosa, ma faticosa per davvero, di quelle che si arriva a sera ed ogni volta che ci si siede o alza (il meno possibile, invero) ci si fa forza con un oppalà! Oh iiissa! Mentre tutte le giunture cigolano e i muscoli si sfilacciano. Il problema principale resta la caldazza umida che ucciderebbe anche un toro, grigliandolo vivo, se lasciato al sole per il numero di ore nelle quali noi ci siam rimasti. A questo si aggiungano salitelle continue, durante le quali il corpo arriva a temperature da fusione nucleare, vento contrario, le poche volte che si fa sentire, e ampi tratti di costa selvaggi, per cui bisogna essere autonomi con l'acqua (perchè si beve tanto, e si suda tantissimo).

Con ordine: stanotte ho dormito poco e male. Anche qui a causa del caldo. Abbiamo aperto tutte le finestre, consapevoli che sarebbe entrato uno zoo in camera, ma, nonostante questo, e nonostante il ventilatore, è stato come giacere su una graticola. Con tanti squittii delle famiglie di Speedy Gonzales.
Per cui ci alziamo presto, e portare giù per due piani di scale le borse e le bici ci fa squagliare. Le temperature sono già insoffribili di prima mattina, che pignarculo.

La città sta cominciando a mettersi in moto e le bancarelle più esterne dei mercati, quelle degli ambulanti a bordo strada, vendono, friggono, spadellano, in un richiamo continuo tra urla di tamalestamalestamales e eloteeloteelote. Che voglia.


Ci mettiamo in strada e tra furgoni pieni di bestie, merci e persone, passiamo accanto alla famosa statua della Tehuana, la donna di Tehuantapec in abiti tradizionali, che custodisce l'ingresso alla città. C'è anche un'enorme statua di iguana, ma non faccio in tempo a fotografarla. Da notare, invece, i cartelli che pubblicizzano il "servizio" dei mariachi, che qui vanno fortissimo! 




I primi 20km sono un sogno: strada dritta, leggermente in discesa, con il vento a favore, poco traffico. Arriviamo in breve, così, a Salina Cruz. Si tratta di una città di quasi 80.000 abitanti, la quarta dello stato, ed ospita un grande porto commerciale, che si è sviluppato dal XIX secolo con la costruzione della ferrovia trans-istmica. Qui non c'erano insediamenti preispanici importanti, e la città è stata fondata nel 1522 alla foce del fiume, dove già c'era una salina (che esiste tuttora). Oggi, però, a dominare l'assetto urbano è la raffineria Pemex (ogni tanto teatro di esplosioni, incendi devastanti e altre amenità). Non ci soffermiamo qui a lungo, la costa selvaggia di aspetta! Da qui inizia la parte tosta della tappa. Avete presente la Liguria? Con le montagne che si gettano direttamente in mare, la strada che le segue tutte, cima per cima, e resta alta, con pendenze spesso cattivelle? Ecco, qui uguale. Solo che il clima è quello tropicale. Le danze hanno inizio con una breve galleria, l'unica. Il resto sarà tutto un saliscendi spezzagambe.



le saline rosate, in lontananza, tra la costa e l'oceano


Il lato positivo di questo continuo arrampicarsi è che non mancano i miradores panoramici da cui bearsi della vista privilegiata della costa, che si snoda tra spiagge bianchissime e monti ombrosi, coperti di fitta vegetazione, che quasi paiono sfiorare l'acqua con le loro ampie sottane di rami e foglie. Il tutto avviene in un continuo volo di avvoltoi, che su queste rocce a picco hanno il nido e vivono in colonie. Avvicinandosi all'orlo della strada e al precipizio, li si vede dall'alto spiccare il volo e poi salire di quota proprio davanti al proprio naso.








Scendiamo, saliamo, riscendiamo. Per tre minuti di ebbrezza da vento in faccia, c'è un'ora di fatica pagare. La strada è, a tratti, anche piuttosto dissestata, cosa che rende tutto ancor più difficile. Facciamo una prima breve sosta borracce nell'ultimo pueblo prima di un tratto quasi disabitato, a Morro de Mazatan. Le spiagge distano 2-3km dal paese, che rimane un grumo polveroso di sole e sabbia rovente. Non mancano però i locali, coloratissimi, con la musica sparata a palla, luridini il giusto, dove si mangia per lo più pesce. L'odore è inconfondibile.




Usciti dal paese la strada si impenna e si allontana di nuovo dalla costa, dove si trovano le famose spiagge di Santa Cruz Bamba, paradiso dei surfisti, con dune enormi, spiagge bianche infinite e montagne coperte di foreste a far da sfondo, oltre alle comunità locali che mettono in salvo i cuccioli di tartaruga marina da turisti e predatori. Noi, per capirci, siamo sullo sfondo, le montagne verdissime coperte di fitta foresta. Il caldo è insopportabile, e, nonostante la gran flora, non c'è un filo d'ombra.









Dopo aver pedalato così, senza soste, una quarantina di kilometri MORTALI, c fermiamo nel primo posto apparentemente abitato che incrociamo sulla strada. Su Maps è segnalato come bar-ristorante, ma pare abbandonato da tempo. Gli edifici sono in rovina, c'è immondizia ovunque, le decorazioni penzolano dai rami coperte di ragnatele e guano.  Gigi, però, ha più sete che timori e, siccome si sente della musica provenire da una casa, bussa. Gli apre una bimba che dice: "E' chiuso, ma abbiamo acqua e Coca". E quindi si fa sosta qui, all'ombra finalmente, tra insetti d'assalto e un'aria da film horror. Ma abbiamo acqua fresca e frutta secca comprata ieri, chi ci ammazza?




Ripartiamo, dopo un po', con le gambe sfibrate e l'idea che non si possa più stare a lungo sotto al sole. Nonostante la crema protettiva, la pelle brucia. Il cervello è già ben cotto, i bulbi oculari esplosi come pop-corn. Però, hey! Ci sono i cactus grandi! Sono ricomparsi tra la vegetazione spontanea!


Dopo ancora altre salite, ed altre discese, e altre saline rosa, arriviamo finalmente ad un tratto più pianeggiante, mentre il sole molla un pochino la presa e la morsa del caldo si allenta.







Noi, comunque, siamo così bruciati da aver bisogno di un'altra sosta, a La tortolita. Ci buttiamo nel primo locale con tettoia e frigorifero che vediamo. E' un ristorante di pesce, dove assistiamo al rito del pranzo delle 16 a base di ceviche, capesante e cruditee varie che mi fanno venire lo sguaro anche solo a guardarle. Tra i tavoli si aggirano cani tutti costole e zecche. 






Ultimi kilometri, per pedalare i quali dobbiamo dar fondo alle nostre energie, soprattutto mentali. La strada si ributta verso l'entroterra, e pedaliamo tra selvaggi declivi coperti di alberi, solo qua e là interrotti da un piccolo bananeto o un campo di mais davanti ad una capanna. Sulle cime si annuvola il cielo e rimbombano tuoni fortissimi che sembrano vicini vicini. Questo show, cui si aggiungono i lampi, prosegue per tutto il pomeriggio e tutta la sera. Ma non piove una goccia. 











Finalmente ci siamo. Superiamo la locanda del Caporal, l'uomo assassinato, che è chiusa e in vendita, nonostante una lucina accesa all'ingresso. Mette i brividi. Il pueblo è, perdonate il francesismo un po' supponente, un vero bucio di culo. Polvere, sabbia, quatto capanne e otto cani che ci inseguono, per l'ilarità dei passanti. La nostra casa di stanotte è una struttura gestita da alcune famiglie chontal, che hanno costruito un piccolo angolo di paradiso in mezzo al nulla. Raggiungere il posto non è cosa da poco: bisogna addentrarsi tra i sentieri sterrati del pueblo, lontani dalla strada principale (che poi è un tratto della Panamericana). Passiamo case senza porte nè finestre, in mattoni o cemento, lamiera e foglie, dove la gente è indaffarata o si dondola sulle amache, ci son maiali legati per il collo che grufolano nei cortili di fango e terra battura, e polli e bimbi che razzolano. Alcuni cani ci inseguono anche qui. Camminiamo. Una sciura ci dice che sono cattivi e la soluzione è un pedrazo sulla capa dei malcapitati perri. Non è necessario, ma il concetto è chiaro. 



La signora che ci apre è gentilissima e tutta un sorriso. Ci mostra con orgoglio la struttura, ci dice che domani possiamo rimanere fino a sera, senza problemi. Le spieghiamo che partiremo comunque sul presto, e lei ci rimane un po' male, ma poi si fa animo e promette che domattina verrà a salutarci, ma ora deve andare. Vive a un isolato da qui. Ci lascia soli e noi godiamo della pace di questo locus amoenus che ha tanto di amache, sedie a dondolo e mega cucina all'aperto con forno per la pizza e grigliona.









Dopo la doccia sacrosanta, studiamo la tappa di domani. Ormai siamo a due giorni da Puerto Escondido, da cui poi lasceremo la costa per affrontare le montagne, diretti alla città di Oaxaca. Inizialmente avevo previsto, per domani, di far tappa a Puerto Angel, ma è città più cara e senza facile e diretto accesso alle spiagge. Quindi optiamo per prenotare un bungalow a Zipolite, proprio sulla spiaggia, a una manciata di metri dalla battigia. Non so se si è capito, ma con tutta la fatica che ci costa la costa, almeno un bagnetto vorrei farlo! E quindi via, per domani siamo a posto.
Fuori è buio, e il prato davanti alla nostra casetta è una festa di lucciole. Ce ne sono a centinaia! E lo sa bene el señor sapo gigante, che si aggira in zona in piena caccia. Dalla foto non si capisce, ma questa bestia è lunga quanto il piede di Gigi, che pota il 44!


Per cena le opzioni sono piuttosto limitate. Torniamo sullo stradone e troviamo due taquerie identiche, una accanto all'altra, a gestione superfamiliare (nel senso che il ragazzo che prende l'ordine poi va a liberare le mani alla moglie, che aveva in braccio un bimbo di pochi mesi, così lei può cucinare). L'igiene un'altra volta, ma ormai ce la sentiamo calla e siamo ottimisti. Ordiniamo gli unici due piatti che servono: un orden di 5 tacos con carne mista (ivi comprese interiora di ogni genere, ma ben sminuzzate) e una tlayuda, specialità della zona. Si tratta di una tortilla grande come una pizza, tostata, croccante, che viene farcita con carne, formaggio, salse e verdure. Assistiamo alla preparazione dei tacos nella cucina che affaccia alla strada, e della tlayuda sul grande forno a fuoco aperto che si trova poco indietro. I tavoli sono tutti occupati e noi destiamo curiosità. Molti anziani sfilano avanti e indietro per osservarci da vicino, salutarci, e poi andare a confabulare tra loro.







La cena costa pochissimo, ma, come si può vedere, in questi locali i tacos sono tanta tortilla e poca carne. Mentre mangiamo assistiamo al suicidio di un nugulo di mosche che, una ad una, cascano nelle salse che ci sono state portate al tavolo, affondano, e diventano parte della salsa stessa. E' la salsa autorigenerante (dettaglio splatter: le medesime mosche, poco prima, come accade da giorni, prendono di mira la testa ferita e con crostone -che a volte si spacca e sanguina- di Gigi. E' una scena che non vi auguro di vedere mai questo mix di mosca su crosta e poi nella salsa).

Dopo avervi donato questa splendida immagine, eccoci qui, di nuovo nella nostra casina, dopo aver fatto scorta di acqua e spesa per domattina, camminando nell'oscurità del paese che è privo di illuminazione pubblica, ma è una festa di luci e lucette nelle case, radio che ronzano musica da ballare e lucciole nei prati.
Si sta bene (anche) qui.


23/7
El coyul-Zipolite
105km

E' sera, poco prima delle undici. Mi sto dondolando pigramente su una amaca, che è appesa in balcone. Sotto di me, sotto alle assi di legno della casa, sabbia e acqua che va e torna. Le onde del Pacifico lambiscono  questa striscia di terra, che è d'oro e perla, frammenti di conchiglie, vento. Siamo all'hostal Brisa del mar, e mai nome fu più adatto. La battigia non dista da noi metri o kilometri. SIAMO sulla battigia. Il fragore delle onde è costante e ritmato, e copre tutti gli altri suoni, la musica, i tamburi degli artisti di strada. Bevo un sorso di succo d'aloe, che non è mezcal, ma chi lo sa. Nel buio brillano la luna e altre lucine sparse sulla spiaggia. L'aria è densa di odore di marijuana, e io sto qui, sull'amaca, ad ascoltare la voce poderosa e antica dell'oceano. Ripenso a qualche ora fa. Sono rimasta in acqua a lungo, per lavar via la stanchezza, lo stress, la fatica accumulati oggi e nei giorni scorsi. Fare il bagno nell'oceano qui è meraviglioso. L'acqua è calda. La spiaggia lunghissima di sabbia fina. Arrivano onde alte alte che permettono di giocare come quando, da bambina, sfidavo gli amici e il mare grosso a Bordighera, tuffandomi sotto al rullo o galleggiando sulla cresta. A non aver paura ho imparato allora. E i marosi massaggiano e i muscoli sfibrati. Il corpo galleggia, si fa leggero, sospeso, ad occhi chiusi, nel buio tiepido. Mi metto spesso in posizione fetale, trattenendo il fiato. Non sembra nemmeno più di esser soggetti alla forza di gravità (e grazie al ca... Ad Archimede!) e agli attriti. Questa sensazione mi rimette al mondo. E' così diversa dalla fatica titanica della tappa. Dalla continua lotta contro alle colline, alle pendenze, al vento. Trascinare la Signorina felicità su e giù per questa costa selvaggia non è impresa facile. Anzi, è una pena. La pena di Sisifo. Io non ho il macigno da spingere in cima al pendio, ho una bici che pesa quanto me. E non rotola giù all'indietro, per carità, ma il continuo susseguirsi di collinette piccole e ripide dà l'impressione di esser sempre al punto di partenza. I kilometri non scorrono sul ciclocomputer, solo il tempo passa. L'impressione è quella di esser sempre fermi nello stesso punto, ma sempre più stanchi, più bruciati dal sole. Fisicamente è impegnativo, ma mentalmente è sfiancante. Oggi sono arrivata a un certo punto, all'ennesima salita, in cui mi son resa conto di aver esaurito la dose quotidiana di forza di volontà. Volevo fermarmi lì dov'ero, e non pedalare più nemmeno un metro. Fi-ni-ta! Ma sul fondo del barile qualche goccia residua di determinazione si trova, e il richiamo dell'oceano aiuta.

Riprendo con ordine.
Stanotte, nonostante tutte le carte in regola per una bella dormita, ci siamo svegliati spesso madidi di sudore, e per gli strilli assordanti di certi merlacci grossi come tacchini. Quindi, anche oggi, siamo partiti presto e un po' rincoglioniti, dopo aver fatto colazione in camera e dopo aver salutato la signora ospite, che è venuta a darci il buon giorno. Si è un po' raffreddata nei miei confronti perchè, mentre entrava non vista, ha assistito alla scena di me che faccio cadere la borraccia appena riempita nella sabbia e tiro giù un rosario complesso e colorito che dura un paio di minuti, nella quiete della domenica mattina in campagna, tra augelli che fan festa e farfalline. Ma pace, oh. Arrivederci, signora chontal (che significa "straniero" in nahuatl, la lingua azteca).

Usciamo dal paese più camminando che pedalando, un po' per via dei perri maledetti, che oggi si rivelano un problema a più riprese, un po' perchè le strade interne non sono asfaltate ma fatte di sabbia ben profonda, su cui anche trascinare la bici camminando è difficile. Il pueblo è quello che è. Abitazioncine più o meno incompiute, un grande accumulo di robaccia e immondizia nei cortili, insieme ai polli, ai cani e qualche maiale, e i bimbi.





Appena torniamo sulla strada, ci rendiamo conto di cosa significhino davvero quelle piccole linee spezzettate dei profili altimetrici più volte consultati. Significano fatica. Come dicevo prima, la strada sale e scende ogni manciata di kilometri. Per questo si procede lentissimi: la discesa non basta a dar slancio per la salita successiva, e bisogna subito scalare le marce, e frullare con il rampeghino. Le discese, sì, si fanno a cannone, sfidando dossi, buche e tornanti senza protezione a valle. Ma durano un nulla. Poi si è subito rallentati, e tocca iniziare a spingere, chini sul manubrio e con la schiena spezzata come bestie da soma. Il tutto sotto ad un sole che porta il casco, i vestiti, la bici e la pelle a scottare. Intorno, colline. Foresta fitta. Nessun pueblo per i primi 37km.



Al primo paese facciamo sosta. C'è musica alta che esce da un paio di locali ancora aperti da ieri sera. Sono tutte palapas, capanne, a parte il bar e pochi altri edifici. Nella polvere caliginosa, un ubriaco in cenci luridi si rotola a terra cercando di alzarsi. Un amico lo aiuta nell'impresa, che richiede quasi mezzora. Tanti ci salutano, un po' brilli, o forse solo storti di natura. Non suoni stronzo questo commento: sembra la corte dei miracoli. Non ce ne è uno sano sia nel corpo sia nella mente. Ma son tutti gioviali e amichevoli, e in vena di chiacchiere (ma sbiascicate al punto da risultare incomprensibili). Mentre riposiamo e ci reidratiamo come cammelli assetati, mi metto in contatto con le guide locali di Playa Escobilla, un santuario delle tartarughe marine che visiteremo domani. Le guide, via Whatsapp, mi confermano la fattibilità della cosa. Andata! Sono contentissima!





Ci rimettiamo in sella un po' a malincuore, controvoglia, sapendo che la tappa è ancora lunga da pedalare, le salite infinite e, per di più, stanno arrivando le famigerate ore calde della giornata. Come se altre fossero fresche! Animo, si va. Conto i kilometri uno a uno, poi le centinaia di metri. Raggiungiamo la riserva di Huatulco, che è parte di un interessante esperimento di sviluppo turistico. Fino a metà anni '80 qui c'era solo qualche isolato villaggio di pescatori. Poi arrivò Fonatur, agenzia turistica finanziata dal governo, con il compito di sviluppare il turismo nelle nove baie, bellissime e selvagge, di questo tratto di costa. Il rischio era che si creassero ecomostri come a Cancun, ma qui la crescita è stata più dolce ed ecologica, meno invasivo e meno impattante per l'ambiente. Gli alberghi fronte oceano sono costruzioni poco appariscenti, la foresta sulle colline è protetta come parco naturale e ci sono stringenti divieti che impediscono la cementificazione selvaggia. Insomma, il turismo è arrivato ma senza far troppo danni. Noi non scendiamo a vedere le spiagge e la barriera corallina, perchè sono raggiungibili solo tramite strade che finiscono in mare, non collegate tra loro. Attraversiamo invece il parco naturale, dove sono segnalate all'attenzione dei conducenti diverse specie animali. Si vedono sui cartelli e spiaccicate, del pari bidimensionali, sulla strada.






Facciamo un'altra sosta presso l'area di servizio vicina all'aeroporto di Huatulco. Assistiamo a un andirivieni di gente che mi sta antipatica a pelle. Sono Messicano e Statunitensi, tutti ampiamente sovrappeso, con la lardera in vista, in costume e spesso a piedi nudi, che sgomitano per accaparrarsi il pacchetto di patatine più grande, la CocaCola più grossa, con Iphone nuovi di pacca e occhiali da sole di marca. Coppie, famiglie con pargoli annoiati e risvegliati solo alla promessa di un giochino da comprare. Tutti sgarbati con le commesse e tra loro, incapaci di non inciampare nelle nostre bici. Che fastidio. Ce ne andiamo dopo aver fatto scorta d'acqua, e sapendo che mancano ancora più di 40km. Cioè anche  5 ore in sella, se le salite non mollano. Se non altro un temporale di quelli apocalittici, che colpisce le valli attorno a noi, rinfresca l'aria. Tuona, lampa e si vedono colonne d'acqua come cascate a pochi kilometri dalla strada. Ma su di noi no. Questa volta veniamo risparmiati.




A questo punto, intorno agli 80-90km, la situazione inizia a farsi critica. Siamo bolliti, i cani ci inseguono, il temporale armagheddon ci insegue, le salite ci frenano. Per farcela ce la si fa, non ho dubbi. Ma con quale sforzo. Ha senso? Vale la pena? Non hanno ragione i messicani che ci superano ammassati nel retro dei furgoni, e che ci credono folli? Siamo forse, davvero, pazzi? Bamboline del Mezcal, ditemelo voi. Abbiamo perso il senno?
Mi pongo queste domande, mentre trascino la bici sull'ennesima rampa, urlo contro agli ennesimi cani, facendoli scappare, e quasi collassando, ma solo quasi.
Sia Gigi sia io stiamo avendo anche problemi con la trasmissione e il cambio, per cui è tutta una girandola di catene caduti e madonnine infilzate.



Poi, finalmente, arriviamo a Pochutla, che la guida si limita a definire: "Animata, calda, umida, snodo di trasporti. Non ci sono altre ragioni per visitare questa città". Terra dell'omonima etnia, la cui lingua si è estinta un secolo fa, appare come un grumo di baracche, anziani che si trascinano nella polvere, canu ossuti e pollame sparso. Ci basta così. Lasciamo, a questo punto, dopo giorni, la Panamericana, per svoltare tutto a sud, verso la costa. Penserete voi: in discesa, finalmente! No, non subito. Prima qualche kilometro di salita ancora.


Ma poi, finalmente, l'agognata discesa arriva, e ci porta con un soffio di brezza fresca al cospetto di sua maestà l'oceano. La porta d'accesso a questo tratto di costa spettacolare è Puerto Angel, che ha l'aspetto del tipico villaggio di pescatori messicano, un po' colorato, un po' trasandato (anche perchè qui, tra uragani e terremoti, è tutto un ricostruire). Ci sono barche e non tavole da surf, taquerie, non pizzerie. Pensavamo, inizialmente, di fermarci qui per la notte. Ma poi ho visto le foto e la descrizione del villaggio immediatamente successivo. Zipolite, e ho subito cambiato idea. Quindi procediamo, con una salitella a strappo e poi, finalmente la costa in piano.




Zipolite ci appare subito per la meraviglia che è. Un languido villaggio dove il dolce far niente è un'arte, si vive bene con poco e si resta lontani dal casino, dal lusso e dai boutique hotel e dai giocatori di golf. In compenso è pieno di hippie giovani e attempati, gays, nudisti integrali, rasta, fricchettoni messicani o d'importazione. Le case sono palapas o strutture in legno. La via centrale corre accanto alla lunga spiaggia ed è tutta una bancarella di cibo, collanine, pipe da oppio e manufatti artistici. La gente va in giro scalza, in costume con dei cannoni tanti e chitarre e bonghi. Insomma, tutti gli stereotipi sono rispettati! Ma che pace, che buen vivir!





La nostra casa di oggi, poi, è una chicca. Una grande struttura in legno sulla spiaggia, con la camera che pare una cabina di nave e affaccia al Pacifico, con un balcone dotato di amache e sdraio sospeso sul bagnasciuga.








Prima di aver finito di portare in camera le borse io sono già in costume, pronta a tuffami in acqua. Sono giorni che aspetto questo momento! Esploro un po' la spiagge, tra tettine e piselli al vento, e poi mi butto. Rimando in ammollo a prender le onde per quasi un'ora, fino al tramonto, anche perchè l'acqua è caldissima!
















Dopo aver assistito allo spettacolo pirotecnico del tramonto, usciamo a cena. Optiamo per una mezcaleria che fa anche da mangiare, e la scelta di rivela azzeccata.





Ora si chiude la ringkomposition. Sono sull'amaca, sul balcone sospeso sopra alle onde che cantano con la loro voce possente. Quasi tutte le lucine si sono spente. La luna, che è sottile come un'altalena, si è alzata e ruba il palcoscenico alle stelle, che qui sono tantissime e ridono ammiccando di argento siderale. Potrei stare qui una settimana, un mese, un anno. Il tempo non è un ingranaggio che stritola, ma un corso e ricorso di onde lunghe.


24/7
Zipolite-Puerto Escondido
72km

Se il buon giorno si vede dal mattino, noi per oggi siamo a cavallo di un cavallone. Abbiamo dormito cullati dal canto del Pacifico, e l'alba ci ha sfiorati filtrando tra le assi di legno delle pareti, goccia a goccia come miele. L'aria è fresca e sa di sale.





Facciamo colazione sul balcone, con lo sguardo perso all'orizzonte che sfuma acqua e cielo in un azzurro rosato. Poi viene il momento di lasciare questo paradiso terrestre. Salutiamo il padrone, un anziano inglese bruciato dal sole e dall'hashish, tutto ingobbito, con un paio di occhialoni tondi e spessi e solo un costume da bagno tutto strappato che fa più che intravedere un paio di chiappette grinze. Salutiamo il suo gatto, che zampetta nella sabbia. Salutiamo anche la coppia di lelle nudiste, una con lunghissime treccine e tanti tatuaggi, l'altra con i capelli corti corti e la pelle chiarissima, che stanno caricando i bagagli sulle moto giganti rispetto a loro. Ora vanno a nord, a sbrigare pratiche di permessi di soggiorno e visti, ma poi vireranno a sud fino in Patagonia. Che tipe wild! Gigi, mentre parliamo con loro, è abbastanza in imbarazzo e, secondo me, la cosa le fa ridere. Arrivederci Zipolite! Siamo pronti a lasciarti.


I primi kilometri di strada corrono bassi lungo la costa, ma non in piano. Assolutamente non in piano. Ogni baia è separata dalle altre da una collina. Per raggiungere San Agustinillo, prima, e Mazunte, poi, dobbiamo arrampicarci su stradine tortuose e ripide, spesso invase dalla sabbia. Il paesaggio intorno è da cartolina, però. Palme, palapas, casette, spiagge lambite dalla spuma delle onde.






San Agustinillo è un pueblo microscopico, che si sviluppa tutto lungo la strada che lo attraversa. Il resto è spiaggia di sabbia finissima.





Una salitella mortale dopo l'altra, e per fortuna non c'è traffico, ci arrampichiamo e ridiscendiamo fino a Mazunte, una sorta di capitale di questo tratto di costa, nonchè pueblo magico. E' un mix curioso tra surfisti, tatuatori, sale di yoga, veggenti che leggono il futuro nei tarocchi, maglie di Che Guevara e viaggiatori indipendenti più o meno di passaggio. Come noi, insomma. Non ci fermiamo a visitare il centro delle tartarughe, perchè Playa Escobilla ci aspetta, e lì sì che avremo a che fare con questi meravigliosi animali, senza che siano tenuti in cattività, anzi!  


Finita la strada costiera, tocca issarci nuovamente sulla statale che abbiamo lasciato ieri, che corre più nell'entroterra e, nemmeno a dirlo, più in alto. Prima di lasciare Zipolite una signora, vedendoci femi davanti alla porta di una palestra, ci ha chiesto se stessimo aspettando che aprisse. Mi è venuto da ridere all'idea di fare altra fatica, e le ho risposto che no, stavamo andando a Puerto Escondido. Lei, a questo punto, si è aperta in un largo sorriso e ha esclamato: "Oh, bene! Poche salite, allora!".
Fino a qui penso che ci abbia coglionati. Ma, recuperata la stradona, devo darle ragione. Rispetto ai giorni scorsi qui non ci sono le colline malefiche e, pur nel continuo saliscendi, le pendenze sono pedalabili e non mortali. Passiamo qualche villaggio un po' polveroso di pollame e anime, ma tiriamo dritti. Abbiamo un appuntamento con la guida delle tortuguitas!



Eccoci, finalmente, e con un'intera ora di anticipo! Roba inconcepibile per un messicano. Infatti cogliamo tutti di sorpresa. E dire che ieri via Whatsapp mi sono intesa bene  con il centro informazioni! Poco male, comunque. Veniamo accolti da due signore larghe quanto il loro sorriso, in abiti tradizionali, e da un omone baffuto, scuro di carnagione ma con gli occhi azzurri. Jorge, si presenta. "Sono la vostra guida, ora vi spiego chi siamo e cosa facciamo qui, e cosa farete voi". Ci fa accomodare nel centro informazioni, che è una stanzona dal tetto in foglie tutta piena di poster relativi alle tartarughe. "Questa è una delle principali zone di nidificazione della tartaruga olivastra (tortuga golfina). Ogni anno ne arrivano fino a un milione a deporre le loro uova. Tra maggio e febbraio, di notte, quando c'è luna piena, arrivano, anche mille ogni ora. Questo fenomeno è chiamato arribada. Noi proteggiamo le uova, tenendo la spiaggia chiusa al pubblico e portando le uova in uno spazio protetto. Non dagli animali, dagli esseri umani. Siamo persone del posto, e facciamo tutto questo come volontariato. Per questo chiediamo una donazione a chi ci fa visita". Paghiamo, e volentieri, i 10 euro a testa che costa l'accesso a Playa Escobilla. Poi si va. A piedi? Con un transfer? No! In bici! Perchè siamo arrivati presto e non si sono organizzati con l'auto... Ma tanto abbiamo le nostre bici, no? E quindi lasciamo giù i bagagli e percorriamo i 2km che ci separano dal santuario. Qualche metro di stradone e il resto uno sterrato di pura sabbia impedalabile. Per noi. Perchè Jorge, con la sua mountain bike scassatissima, arrugginita, su cui calca in infradito, ha una guida formidabile e ci fa sentire delle cacchine molli.  



Jorge

Arrivati in spiaggia veniamo accolti da un'altra guida, che si occupa fisicamente del trasferimento delle uova dal nido originario a quello protetto sotto a un gazebo di rete fina. Ogni nidiata è segnalata con un cartellino che riporta data e specie. Intorno, ovunque, minacciosi avvoltoio, gabbiani, cormorani e altri uccelli marini pronti a papparsi i tartarughini che cercano di raggiungere l'oceano, lenti, goffi, ben visibili, neri come sono sulla sabbia chiara.



Mentre Jorge ci spiega che la tartarughe sono mamme un po' sui generis, perchè depongono e poi se ne vanno, lasciando che il calore della sabbia "covi" per loro, e, in sintesi, sbattendosene assai delle sorti della prole (come certi genitori che ho conosciuto insegnando... Ahem...), il suo compare entra nella serra delle uova con una insalatiera. Quando esce ce la caccia in mano. E' piena di cuccioli di golfina! Sono bellissimi! E annaspano agitando le pinne: sono pronti per raggiungere il mare.




Due foto e siamo pronti a rilasciarle, nel punto che la guida ci indica. Le facciamo scivolare sulla sabbia e loro, guidate dall'istinto antico che detta la morale, iniziano a trascinarsi verso la battigia. Una dopo l'altra, quasi in fila indiana. E' un momento incredibilmente emozionante. Forza tartine! Siete così piccole, di fronte all'oceano così sconfinato e pieno di insidie. Forza! Sono istanti di gioia, di tensione (perchè subito i gabbiani si alzano in volo e puntano alle prede). Fortemente simbolici. Sono una metafora, queste tartarughine. Qualcuna ce la farà, altre no. Qualcuna sembra che si attardi e invece poi arriva sana e salva alle onde. Tutte sono costrette per natura a lottare, ad affrontare la spiaggia che, in confronto a loro, è vasta come l'universo. Tutti se le vogliono pappare in un solo boccone. E anche il Pacifico è una grande incognita, che porta vita e morte. Siamo e siamo stati tutti quelle tartarughine indifese ma fortissime.  



E magari ci fosse sempre un Jorge che tira legnate ai gabbiani, per rendere più sicuro il cammino, quando ancora non si hanno gli strumenti per difendersi! Magari siamo anche noi docenti degli Jorge. A me piacerebbe.


l'ultima. Lei ha il PDP con i tempi di consegna più lunghi. Ma anche lei arriva salva alle onde!


Quando tutte le tartolille sono sparite tra la spuma dei marosi, viene il momento di lasciare questo luogo magico, dove la sabbia è fatta anche di gusci di uova di golfina. E gli uccellacci, porelli pure loro che han fame, presidiano ogni metro di sabbia.
Torniamo al centro, anche se, prima, Gigi si premura di cadere con la bici nella sabbia, per fortuna senza farsi male. In Islanda era la sua specialità olimpica. Un giorno ha registrato 7 cadute consecutive in 7 pozze di sabbia, nelle quali si arenava da quasi fermo, cadendo di lato a peso morto.






Dopo questo turbine emotivo che ci ha riempito il cuore, e dopo aver tentato (invano) di sistemare il cambio di Gigi, ripartiamo. Manca poco a Puerto Escondido, la meta di oggi. Lo stradone si fa largo e liscio, punteggiato di paesini cadenti e di umanità logora. Tanti ubriachi, tante persone buttate a terra nella sporcizia. Ma anche scorci di vegetazione tropicale che affaccia all'oceano.








Nel giro di un paio d'ore eccoci. Siamo giunti finalmente a Puerto Escondido, nome esotico che ci è frullato in mente per giorni, per mesi. Non siamo surfisti, quindi queste spiagge perfette per chi sfida le onde, per noi, non sono più o meno belle delle altre viste finora. E' ciò che questo luogo evoca ad averci spinti fin qui, prima di lasciare la costa per settimane, e addentrarci, già da domani, tra i monti e l'altiplano. Questo luogo non è stato abitato nè in epoca preispanica nè in epoca coloniale. La leggenda narra che il pirata Andrew Drake, fratello del più famoso Francis, si fosse appartato qui con la sua ciurma per godersi qualche giorno di tranquillità, poichè la baia era del tutto deserta. Sulla nave era tenuta prigioniera una bella mixteca, rapita da Huatulco qualche giorno prima. La donna, mentre la nave era ancorata vicino alla spiaggia, riuscì a tuffarsi e scappare. Si nascose così bene che i pirati, pur cercandola a lungo, non la trovarono più. Ecco la Escondida, o Bahia de la mujer escondida.


Fino agli anni '70 qui vivevano una manciata di pescatori e alcuni produttori di caffè e mezcal (che anche ora non mancano). Poi si è trovata qualche falda acquifera, ed è arrivato il turismo, ora pilastro dell'economia della città, che infatti è tutta alberghi, ristoranti, agenzie e bancarelle di cibo e souvenir. Prendiamo possesso della camera d'albergo e, dopo un attimo di svenimento sotto al ventilatore, ci prepariamo a uscire. Voglio fare un tuffo nell'oceano prima di lasciare la costa.

L'aria è densa di temporali addensati attorno, ma non piove. La gente si gode la spiaggia, il passeggio tranquillo a piedi nudi o sulla pedonale, sorseggiano micheladas o assaporando un ghiaccioli artigianale. L'atmosfera è molto meno rustica di Zipolite, e più "commerciale". Ci sono grandi alberghi con piscina, locali chiassosi, paccottiglia di plastica in vendita ovunque. Ma ci si rilassa eccome anche qui, basta trovare i giusti angolini. Noi ce ne ritagliamo uno nella spiaggia adiacente a quella dove i pescatori tirano in secca le barche. L'acqua è pulita, ma le onde non sono pericolose come nelle altre baie, dove, senza tavola da surf ed esperienza, si rischia di farsi male.





Gigi è diffidente persino nel bagnarsi i piedi, e resta ben lontano dal bagnasciuga. Io sono già in acqua a sfidare le onde. Si sta troppo bene in questo oceano che qui è tiepido e gentile.





Quando ne ho abbastanza di onde, andiamo, attraverso il porticciolo, ad esplorare le vie centrali, dove si affollano le bancarelle e i localini.






Sempre qui, in un ristorante sulla spiaggia, ceniamo, quando ormai si è fatto buio e l'aria ha rinfrescato. Sotto ad un portico di rampicanti in fiore, vediamo accendersi le luci di tutta la costa, e ci godiamo un guacamole delizioso con i piedi nella sabbia. Stiamo vivendo istanti preziosi, stiamo forgiando ricordi indimenticabili.



Da domani saremo in montagna. Puntiamo a Oaxaca capitale, che dista 250km con quasi 5000m di dislivello. Abbiamo diviso il percorso in 4 tappe. Sarà impegnativo. Ma le vette chiamano!

1 commento:

  1. Senza parole, anche le tartarughine. Questa vacanza è piena di animali diversi

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