sabato 22 luglio 2023

28-30. Oaxaca! Pedalando l'istmo, tra culture matriarcali e carovane di migranti del "tren de la muerte"










19/7
Chiapa de Corzo-Cintalapa de Figueroa
96km

Questa mattina partiamo tardi, rispetto al solito. Ho accumulato una carenza di sonno che mi impone di riposare, e, siccome la sera faccio sempre tardi, perchè la connessione è quella che è, tutto va lento e le tappe vanno raffinate man mano, questa mattina mi concedo una sveglia alle 8.30. La tappa, inoltre, dovrebbe essere abbastanza tranquilla, quasi in piano, senza grandi deviazioni. Dovrebbe. Perchè quel "quasi in piano" significherà poi 1000m di dislivello tutti concentrati in poche, lunghe rampe esposte al più criminale dei soli estivi tropicali. E le deviazioni, come sempre, ci sono, anche se non cercate. Ce le porta la strada, come la corrente del fiume porta tronchi e ninfee.

Salutiamo il pueblo magico (sono solo 6 in tutto il Chiapas) di Chiapa de Corzo e la casa coloniale dove abbiamo pernottato.  


Riattraversiamo il centro, che ancora si sta svegliando, dove bancarelle e ambulantes iniziano a preparare le loro merci e le loro ugole per l'imminente arrivo dei primi turisti della giornata. In un attimo siamo fuori dalla città, che ci congeda con la statue della chiapaneca e del chiapaneco.



Superato un posto di blocco dell'esercito, che controlla gli accessi alla capitale dello stato, transitiamo sul ponte che ieri abbiamo visto dal basso, navigando verso il Canyon del Sumidero. Da qui abbiamo una visuale nuova del rio che ha scavato la roccia e delle scoscese pareti di pietra che si tuffano in acqua dopo un grido di centinaia di metri.


Sa qui inizia la lunga, faticosa traversata di Txtla Gutierrez, unica grande città del Chiapas, torrida, affollata, ma che nasconde angoli di quiete e perle d'arte. Abbiamo deciso di non visitarla, se non di passaggio, perchè, rispetto ad altri luoghi, risulta decisamente più anonima e poco interessante, a tratti anche bruttina. E' grande, lunga, larga, piena di gente. Ha tutti i sevizi che si convengono a una capitale. La gente sembra amichevole e particolarmente aperta, ma forse abbiamo questa impressione perchè veniamo da pueblos e villaggi. Insomma: chi ha tempo, ne esplori gli angolini preziosi, chi non ne ha, va bene che la attraversi e basta. Noi facciamo così, seguendo la statale che la percorre nel centro esatto da parte a parte, come una spina dorsale. Raggiungiamo, stando quasi sempre su ciclabile, che ci salva dal traffico folle e dalle manovre pazze dei colectivos e dei mototaxi, la plaza civica. Anche questa è grande e basta, e i si affacciano edifici in cemento che sono un po' commerciali e un po' municipali.
Di là dalla strada si erge la candida Catedral de San Marcos; allo scoccare di ogni ora il campanile suona una melodia accompagnata da un carosello ben kitsch con immagini degli apostoli che sbucano dalla parte alta dell'edificio.




Poco avanti si apre il più piacevole Jardin de la Marimba, dove si svolge il classico paseo dei local, al pomeriggio tardo e alla sera, quando la morsa del caldo molla la presa. Qui, dopo le 18, si tengopno concerti gratuiti di marimba e musica tradizionale, e pare che tutta la città si raduni per ascoltare e soprattutto ballare, giovani e anziani. I più curiosi possono anche visitare il museo della marimba, noi ci limitiamo ad ascoltare i numerosi artisti di strada che si esibiscono ad ogni crocicchio, a patto che ci stia la marimba (che non è mica piccola!). Altri musei&Co che balziamo? Del caffè, regionale, zoo e giardino botanico. Questi sono nell'intera city. Ci siamo capiti. Mentre scattiamo foto nel Jardin de la Marimba, ci raggiunge Pedro, che si presenta come fondatore di BiciMovilizate, associazione e nutrito gruppo di cittadini che chiedono infrastrutture per la sicurezza stradale dei ciclisti e promuovono l'uso della bicicletta in contesto urbano. Ci scambiamo i social, facciamo quattro chiacchiere, mi mostra i suoi tatuaggi a tema bici (qui in Messico i tattoo valgono più della carta d'identità o del CV, per presentarsi!) e ci invita alla pedalata di gruppo di stasera. Dice che ieri ha coinvolto un altro cicloturista che andava a SanCris; deve essere il ragazzo che noi abbiamo intravisto sfrecciare in discesa appena fuori dalla città! Gli spieghiamo che stiamo procedendo a passo svelto verso Oaxaca, e che non possiamo trattenerci stasera. Ma gli auguro tutto il meglio. Sta facendo una cosa grande, e se ci sono ciclabili e passaggi sicuri è anche grazie a lui e ai suoi. Grande Pedro! Hasta siempre!




Prima di uscire dalla città, due curiosità su Tuxtla. Questo luogo era abitato dagli zoque, che furono poi conquistati dagli aztechi tra 1486 e 1505 (un momento perfetto per essere poi travolti dai conquistadores!). Tuxtla, infatti deriva da una parola nahuatl che significa "luogo pieno di conigli", che è la traduzione del medesimo nomo zapoteco. Nel 1528 il Chiapas fu sottomesso alla corona di Spagna, arrivarono i domenicani e organizzarono  qui un insediamento per gli zoque dispersi. Dopo un paio di secoli gli abitanti di Tuxtla si dichiararono indipendenti sia dal Messico spagnolo sia dal Guatemala, che mirava ad annessioni territoriali. Ad impedire che la città passasse sotto il controllo guatemalteco fu proprio quel Gutierrez che ora è ricordato nel toponimo. Il Chiapas, tramite votazione popolare, passò per intero al Messico. Tuxtla è stata la prima città messicana a essere certificata come "sicura", nel 2011, passati gli ardori zapatisti. E' lo snodo economico, commerciale, di trasporto e turistico principale, motivo per cui ha senso che la capitale sia qui e non più San Cristobal.


Tra una sosta e l'altra, usciamo da Tuxtla che è già tarda mattina, e il sole cuoce. Ci brucia sulla schiena e sul collo, sul cervello direttamente. Io non ho una sudorazione particolarmente abbondante, ma ora sgoccioli come un panno strizzato, e dalla testa, dal viso, dalle braccia cade una pioggia di continua di umori che si portan via la cresima, l'anima, il senno. Oltretutto siamo in salita. Non è ripida, parliamo di collinette. Ma la strada corre inesorabilmente dritta, sui fianchi delle colline, in un saliscendi che è più sali che scendi. Torniamo a superare i 1000 metri. La stradone non ha nemmeno un millimetro di ombra e quindi tocca proseguire, anche perchè abbiamo percorso ancora pochi kilometri e procediamo con penosa lentezza. 
Un dettaglio splatter: non so se è il caldo, o lo sbalzo di quota, lo sforzo fisico o il sintomo di una malattia grave. Ma dal naso sta uscendo tutto quel che non è uscito i giorni scorsi di raffreddore e tubicini idraulici della faccia intasati. Avete presente la colla vinilica per gli Art attack? Ecco, io la produco. A tonnellate, dal naso. I miei guantini da bici assomigliano a quelle colombaie per la raccolta del guano di piccione che ho visto in Marocco e in Cappadoccia. Fine dettaglio splatter.

Sali sali sali, scendi, risali risali risali. Scendicchi. Risalissimi.
Così, fino a bruciarci gli occhi e i neuroni, oltrechè la pelle, nel sole dell'ora panica. Vedrai che lo veneravano!
Poi, finalmente, la strada inizia a scendere in modo più deciso. Abbiamo superato la pima fila di colline di oggi, e finalmente ci godiamo l'aria fresca e il riposo della discesa a cannone tra pendii che ora paiono dolci e coperti di un manto smeraldino. Prima, in salita, erano maledetti dagli dei di ogni tempo.




Ubriachi di discesa arriviamo a Ocozocoautla de Espinosa, altro pueblo magico, che noi vediamo però, voglio sperare, nella parte non magica ma colpita da fattura e malocchio, perchè ne vediamo alcuni quartieri polverosi e lerci, pieni di immondizia, cani randagi e pozze d'acqua stagnante e malarosa. Insomma, nessun giudizio di merito, solo sensate esperienze alla Galileo. Va bene tutto, ma pueblo magico no, dai. Non in questi quartieri almeno.


Anche qui vivevano gli zoque, poi sottomessi agli aztechi e poi presi nel sacco tutti insieme dagli spagnoli. Ma qui i conquistadores non hanno avuto vita facile: già nel 1592 ci fu una rivolta indigena e gli zoque si ripresero le terre spartite con le encomiendas e nel 1722 scoppiò un violento disordine perchè un sacerdote aveva ordinato di tagliare una ceiba, un albero sacro. Peccato che qui, tra eruzioni vulcaniche e terremoti, la vita sia costantemente appesa a un filo sottile. Il nome significa bosco di ocozote (pianta tessile).

Tra la città e le successive colline ci troviamo immersi in una quasi pianura verdissima, sede di ranchos e coltivata in parte, in parte selvaggia e brada. Non ci sono che minuscoli agglomerati di case, capanne più che altro, sparsi e distanti dalla strada. Altro che la cabaña dei sogni, pubblicizzata su grandi cartelloni fuori Tuxtla, dove le agenzie vendono lotti di terreno appena oltre la cintura urbana, facendo desiderare agli annoiati topi di città una vita spartana e più autentica.





Proprio in uno di questi insediamenti ci fermiamo per una pausa. Siamo bolliti, finora non abbiamo fatto soste e beviamo acqua caldissima da ore. Ma abbiamo recuperato un po' di kilometri. Quindi ci concediamo una sosta, con tanto di pranzetto tardivo a base di banane e platano fritto. La bodeguita è la casa, in cemento, lamiere e legno, di una famiglia che ha due frigoriferi e tre espositori, una manciata di merce in vendita e la fortuna di trovarsi a bordo di una strada dove a volte passa qualcuno. Nel paese di sono altre tre o quattro abitazioni. Vediamo solo bambine e bambini transitare dal negozietto, o carichi di bottiglie di plastica raccolte e da rivendere. Due, avranno cinque o sei anni, ne portano alcune in una carriola e giocano a rigonfiare la gomma con una pompa da bici. I colectivos rallentano davanti alle case e suonano di cattiveria il clacson tre o quattro volte, così da segnalarsi qualora qualcuno necessitasse di un passaggio. Passa anche un pick up che vende bombole di gas. Si segnala con una musichina tipo gelataio, con campanelli, tamburino e carillon. Fa il giro delle case a passo d'uomo. Nessuno compra. Se ne va.







Dopo esserci riposati un po', ripartiamo. Dobbiamo affrontare l'ultimo giro di colline di oggi, e si prospettano ben faticose, con le loro rampette e i tornanti stretti, su una strada che non ha bordo pedalabile nè guard rail, ma affaccia direttamente sull'abisso. Poi non manca la discesa, che regala scorci incredibili su queste alture dal profilo morbido e verdi di linfa, che sfumano nell'azzurro pe la distanza e l'umidità che fa acquerello di tutto, del cielo e della terra, del legno e della roccia.






Non siamo andati a visitare la nota Sima de las cotorras, una profonda dolina di sprofondamento carsico dove vivono migliaia di pappagalli, che si muovono a nuvole verdi. Ma ne vediamo tanti anche qui, oltre a centinaia di aironi bianchi appollaiati sugli alberi e pronti per la notte. Una cosa mai vista!



Ancora qualche faticoso saliscendi controvento e raggiungiamo la meta di oggi Cintalapa de Figueroa. Cintalapa è parola nahuatl che significa "acqua che scorre sottoterra". Qui vissero prima gli olmechi, poi i toltechi, poi gli zoque. Oggi è un vivace, vagamente degradato, centro urbano con un buon numero di sevizi e una piacevole piazza centrale.


Ieri abbiamo controllato la presenza di strutture e, escluse quelle di "lusso" e quelle proprio da colera in doccia, abbiamo individuato l'hotel maya, il meno roncio tra quelli ronci. Schivate le buche de le cotorre che si aprono a voragine sulla strada e i perri mali che cercano di azzannarci nei quartieri non migliori della città, raggiungiamo l'albergo. 270 pesos (13.5 euro) la doppia, con acqua, tè e caffè disponibili gratis 24 ore. Andata. Abbiamo anche l'onore di fare due chiacchiere la tia cucaracha! E un terrazzo con vista sul centro (dotato comunque di pregevole salottino). Un affare!






Anche oggi decidiamo di non cenare fuori, per cui andiamo a fare la spesa e allunghiamo la passeggiata serale (ora c'è una brezza fresca meravigliosa) fino alla piazza, che è animata e allegra di ragazzini che giocano a palla e famiglie che mangiano un gelato o mais bollito. Immancabile la chiesa, con funzione in corso e campanile strobo che cambia colore ogni attimo, rischiando di innescare crisi epilettiche.






Domani lasceremo il Chiapas. Un po' mi dispiace, perchè finora è lo stato dove più mi sono confrantata con la diversità, dove più ho imparato, visto, conosciuto, esperito il nuovo. Ma l'Oaxaca, dove stiamo per entrare, potrebbe anche eguagliarlo, in questo senso. E' terra di fiere popolazioni indigene. Di coste dalla sabbia immacolata ma pure montagne austere e foreste nebulari d'altura. Ci sono i siti archeologici, la cucina regionale che è un'arte, i musei, e soprattutto le persone. Oaxaca, stiamo arrivando!


20/7
Cintalapa de Figueroa - Santo Domingo Zanatepec
104km

Si dorme poco: fa caldo, il ventilatore pare un'astronave in decollo dal rumore che fa e ho la netta sensazione che alcune cucarachas o loro stretti parenti ci solletichino i piedi e le orecchie con le loro antennine vibranti. Poco male, approfittiamo delle ore fresche del mattino per portarci avanti con la tappa. Ma prima approfittiamo di tè e caffè gratuitamente offerti dal Maya hotel, che ci consente anche di riempire le borracce dal boccione di acqua potabile (nemmeno i locals bevono l'acqua del rubinetto...). 


Pronti, via. Torniamo sullo stradone attraversando il cuore di Cintalapa, che si sta ancora svegliando. Inizia quindi un tratto piacevolissimo esteticamente, anche se un po' tagliagambe, di colline arruffate dal vento, verdi di foglie nuove che brillano al sole. 
La strada corre dritta e ad ogni scollinamento la si vede intera srotolarsi a gobbe fino a dove lo sguardo si spinge. L'aria è fresca e limpida, il traffico assente. Vediamo solo passare un paio di carri di legno, con le ruote grandi, trainate da coppie di buoi gobbuti. Intorno restano a vegliare i valloni le sagome scure dei monti, le ultime propaggini della Sierra Madre quasi azzurre, quasi cielo.







Di pueblos veri e propri, a parte Lazaro Cardenas, non se ne trovano. Solo case sparse, ranchos, qua e là, una quinta o una finca.











Dopo circa 40km di colline dolci e di panorami addomesticati, se pur di natura evidentemente selvaggia e libera, iniziamo ad arrampicarci sull'unico e ultimo ordine di alture di oggi, che sono una sorta di balconata con affaccio alla costa, e all'istmo che qui separa le acque del Pacifico dalle placide lagune interne. La salita è breve ma impegnativa per le mie zampine affaticate dalle tappe scorse. Stiamo accumulando dislivello, e non eravamo abituati, dopo le grandi pianure della penisola yucateca. Bene così, è tutto allenamento per quando, con le montagne, faremo sul serio, a breve. Affrontiamo le rampe chini, schiacciati fisicamente dal sole che ora sì, si è fatto rovente. Intorno a noi gli avvoltoi volano bassi e fanno pichiate incredibili, forse scambiando i caschetti per tartarughe o altre prede. A proposito di tartarughe: ne vediamo tante, purtroppo molte, anche enormi, spiaccicate dalle auto. Idem per i rospi giganti, stirati e stampati e sull'asfalto. Sono grossi come i miei gatti!

La scalata viene interrotta da un controllo agropecuario, con tanto di posto di blocco dei policia. Qui ce ne sono di frequenti, vista la vocazione della zona. Cosa controllino esattamente, non lo so. Cosa controllino a noi, tanto meno. Certo è che i cani randagi che bazzicano intorno ci inseguono per il sollazzo degli agenti, mannaggiaalloro.

In ogni caso veniamo considerati bestie sane e passiamo. Ancora un po' di salita e ci troviamo a Rosendo Salazar, pueblo che sorge sulle rive di un lago che specchia l'argento del cielo.





L'ascesa è tutt'altro che finita, ma più si sale meno le pendenze sono bastarde. Riusciamo a distendere un po' la schiena, ad alzare lo sguardo, a goderci la bellezza che fa da sfondo al nostro incedere lento.







Madidi di sudore e bolliti, raggiungiamo finalmente il passo che ci permette di riprendere fiato. Facciamo anche una sosta nella cittadina che occupa la pima parte della discesa, che ha un nome che è tutto un programma: Nueva Tenochtitlan. Compriamo della frutta nell'unica tienda del paese, e solo dopo ci accorgiamo che quell'odore dolciastro e le mosche sono conseguenza delle carnicce appese al sole fuori dal negozio. C'è gran via vai e siamo sorvegliati speciali, quindi, per non sentirci freaks del circo, ci spostiamo a fa pausa alla fine del pueblo, sotto alle chiome di un albero antico le cui radici formano una panchina naturale. Anche qui siamo oggetto di attenzioni, ma non negative. Sono più saluti e grida di incitamento. Però, stanchi come siamo, preferiamo per ora la compagnia delle numerose galline e del galletto che ci razzolano intorno.





Dopo esserci riposati le giunture e aver riportato la temperatura del corpo a livelli accettabili, ripartiamo. Da qui, per circa 20km, è tutta discesa. Da 800m di quota arriviamo a meno di 100, scendendo dalla meseta alla costa. Questo meraviglioso corridoio di vento e velocità è, oltretutto, inserito nel magnifico contesto della riserva della biosfera "La sepultura". Al di là del nome non propio benaugurante, si tratta di un paco naturale tra Chiapas e Oaxaca che unisce le foreste nebulari di collina e la costa dell'istmo, con centinaia di specie animali e vegetali protette (giaguari, ocelot, tapiri...)







A metà della discesa, che è un tuffo nel verdelinfa, un cartello ci segnala che siamo entrati nello stato di Oaxaca. HUAHACA! Sarà bello esplorarlo, dalle spiagge di Puerto Escondido alle montagne, dall'altopiano abitato da zapotechi e mixtechi, ai siti archeologici sulle vette più impervie.
Scatta la foto di rito, ci lanciamo di nuovo in discesa. Man mano che perdiamo quota, l'aria di fa più calda. Se prima le temperature parevano alte, ora sono insopportabili. La sensazione è quella di trovarsi davanti a un forno acceso, e ciò accade nonostante in discesa si goda del vento. Ma è arroventato. L'aria lo è.








Durante la discesa si vedono strappi di oceano in lontananza, azzurri e lucidi come metallo. Tra noi e il Pacifico una distesa di terre basse, verdi, selvagge. Le terre dell'istmo.





Al termine della discesissima ci troviamo catapultati a San Pedro Tapanatepec, città di contadini e pastori fondata nel 1669 ma già abitata da gente zoque, e parte del regno zapoteco di Tehuantepec (meta di domani). Qui ci fermiamo a boccheggiare, a bere qualcosa di fresco, a chiederci se un caldo così caldo e così umido sia adatto alla sopravvivenza degli esseri umani.


Ripartiamo per gli ultimi 25km, e ormai le colline sono sullo sfondo, alle spalle e intorno. La strada ha solo piccole gobbe ma corre sostanzialmente in piano. E' una graticola.




Una volta a Santo Domingo Zanatepec, meta di oggi, ci troviamo a scegliere tra una struttura roncia e una roncissima. Optiamo per la pima, che si trova al margine estremo del paese, nella direzione della tappa di domani. E' un motel che presto si riempie di camionisti, dove il letto di Gigi viene assediato da migliaia di formiche normali e alate, e sul muro scorrazzano branchi di gechi diafani. Io, dopo doccia e bucato, crollo in un sonno da balordone di caldo quasi coccolone. Mi sveglio con Gigi preda degli insetti, e quindi poi è tutto un lamentare il problema alla reception, farsi dare il veleno spray, fumigare la stanza, quasi rimanerne uccisi perchè è una roba tossica più per noi che per gli insetti e via così. Si fa pure ora di cena, e stasera possiamo scegliere tra un comedor lungo la strada o un negozietto di alimentari la cui temperatura interna è di 45 gradi ora che è sera, essendo fatto di lamiere. Entrambe le opzioni paiono risky risky, ma ci buttiamo sul comedor. I due tavoli, che si trovano nel cortile della famiglia che gestisce il locale, sono sulla terra battuta, sotto a un tetto di lamiera, senza pareti, con affaccio allo stradone e grandiosa presenza di flottiglie di insetti di ogni genere, che pungono, che strisciano, che volano, che zampettano. Quando ci sediamo, la sciura viene a dirci il menu a voce, perchè i piatti tra cui scegliere sono 3: carne di manzo, di pollo o di maiale alla griglia. Optiamo per il pollo.




La signora va in cucina e inizia a tagliare, cuocere, arrostire. E in breve ci porta due piatti tanto deliziosi quanto pericolosi. Il pollo è saporitissimo e croccante, accompagnato da mole nero (del mole parleremo più avanti. Son salse complicatissime da preparare, che richiedono un'arte che si tramanda da generazioni. Sono tipiche dell'Oaxaca). Poi ci sono pomodori, cetrioli, avocado crudi. Formaggio dell'Oaxaca e, ohinoi, insalata russa con maionesina (fredda di frigo, a onor del vero, MA). Tutto accompagnato da tortillas calde e salsa piccante a piacere. Onestamente? E' tutto incredibilmente gustoso e i sapori si amalgamano perfettamente, bilanciandosi. Sembra un piatto di alta cucina. Scopriremo a breve se il peccato di gola verrà punito con gravi infezioni gastrointestinali, assolutamente plausibili vista la natura del locale, la temperatura della zona e il tipo di cibo. Insomma, è una roulette russa. Teniamo tutti gli orifizi ben serrati.


Facciamo un giro nella tienda per procacciare la colazione di domani e scopriamo che, pure in questo remoto angolo di paese tutto sabbia e fango ci sono senzatetto (famiglie intere, probabilmente migranti che vanno a nord, con tanto di bambini e donne incinte) che dormono per strada, su stuoie e teli stesi sotto ai tettucci di paglia davanti ai negozi, ora chiusi. Pare che questa città, come le altre dell'istmo, sia particolarmente accogliente e tanti migranti decidono di fermarsi qui. Mi piacerebbe conoscere la storia di queste persone, ma credo che loro abbiano altri pensieri per la testa. Ad esempio sopravvivere e far sopravvivere la propria famiglia, almeno fino a domattina.

Noi torniamo in albergo, dove la situazione è questa.


Prima di dormire leggo qualche notizia riguardo alla città in cui stiamo passando la notte. C'è una leggenda che narra nel XIV secolo due giovani amanti, il figlio del re Acatanatl e la bella Teocalxochitl, si incontrassero ai margini della laguna del sole e della luna. Il principe fu però trasformato in merlo dalle ali d'oro dalla fata della laguna. Questo, nel giro di qualche anno, fece morire di tristezza la ragazza. Il re Nahuiltecpatl, per ricordare suo figlio, fece fabbricare una statua d'oro di un merlo e la pose in una grotta sacra, ma il manufatto fu rubato dagli indigeni del Chiapas, che lo nascosero tra le montagne.
Altra leggenda simile, che denota un rapporto non facilissimo tra popoli dell'Oaxaca e del Chiapas, racconta che Santo Domingo fosse città molto ricca, che addirittura prestava denaro alle altre comunità. Per testimoniare tale ricchezza, il re decise di far costruire una campana d'oro, il cui suono si poteva udire a grande distanza. I chiapanechi, invidiosi di tanto lusso, la rubarono e la gettaono sul fondo della laguna, che si chiama Zanatepec come il pueblo in ricordo del merlo d'oro sopra citato, (merlo = zanate).
Qui è anche nato tale Alberrto Ramos Semsa, che ha partecipato alle Olimpiadi di Berlino nel 1936 nella disciplina del polo, vincendo la medaglia di bronzo.

Insomma, siamo in Oaxaca (HUAHACA! -Sì, lo scriverò spesso).
Qui nella regione dell'istmo, con le sue torride e umide pianure e la sua cultura zapoteca radicata fieramente. Nel 1496 gli zapotechi respinsero gli aztechi e l'istmo rimaese autonomo dall'impero di Tenochtitlan. Ancora oggi la gente è orgogliosa della propria cultura unica e delle proprie radici, pur avendo fatto della cortesia e dell'accoglienza un tratto distintivo. Le donne occupano storicamente posizioni di rilievo  negli affari e nel governo. Molte fiestas, qui, prevedono la tirada de frutas: le donne, dai tetti, lanciano frutta agli uomini che sfilano nelle strade sotto!
Domani percorreremo tutti e 100 (abbondanti) i kilometri di istmo, fino a Tehuantepec. Da qui avremo accesso alle meravigliose coste sul Pacifico, meta di surfisti, cultura alternativa e amanti del mare da tutto il mondo.


21/7
Santo Domingo Zanatepec-Tehuantepec
108km

Quelle che in apparenza dovevano essere semplici tappe di trasferimento, una parentesi tra le montagne del Chiapas e le coste candide dell'Oaxaca, si stanno invece rivelando un tuffo incredibile e inatteso in una cultura e in tradizioni di cui nemmeno sospettavo l'esistenza. Usi radicati, storia complessa, società che si muovono su binari valoriali interessantissimi. La sottile striscia dell'istmo di Tehuantepec, accanto a cui ci stiamo muovendo, è terra di donne. Donne che comandano, che deridono gli uomini e si fanno beffe della loro presunta superiorità. Donne forti, indipendenti, che vietano l'accesso agli uomini ai mercati. Vadano a lavorare i campi! Ma ora vi racconto con ordine. Intanto siamo allo scadere del primo mese di viaggio, abbiamo pedalato circa 1200km e la tabella di marcia, pur con qualche necessario adattamento, è finora rispettata.

Stamattina ci siamo svegliati presto. Già dalle 5 i camionisti alloggiati nelle camere accanto alle nostre hanno iniziato a levar tende e accendere motori. Tremavano i letti, e qui non sai mai se è la vibrazione dei mezzi pesanti o il terremoto. Le tracce della scossa di magnitudo 8.2 del 2017 sono ancora fin troppo presenti, nella memoria e negli edifici diroccati, nelle crepe sulla strada, che paion cicatrici, e nelle croci dei cimiteri.

Facciamo colazione in camera con le nostre consuete tortillas e marmellata, chiudiamo le borse e siamo in sella. Il cielo è velato, e tale resterà per tutto il giorno, risparmiandoci, oggi sì, dal caldo feroce. Fa caldo, eh, ma si riesce anche a respirare. Le colline intorno chiudono la piana a giro stretto, e si presentano ancora con il berretto da notte di nubi basse e dense come crema. L'umidità crea questo effetto neve-panna grigia, anche perchè l'intera notte ha tuonato e fatto lampi enormi, e probabilmente lassù ha pure piovuto.

Intorno campi a maggese, pratoni, pascoli e un tappeto verde fittissimo, spesso, impenetrabile di erbe basse. Mucche sparse, qualche pecora, alcuni cani assonnati e altri decisamente svegli, che ci inseguono con il solito teatrino delle urla, dei latrati, delle fughe. Di prima mattina è complicato gestire queste botte di adrenalina e cortisolo, ma almeno ci si sveglia in fretta.
Non mancano zone di palude, perchè qui qualche fiume scorre. In questi acquitrini sguazzano uccelli di ogni genere, alcuni simil aironi o garzette, altri che non saprei nominare: non li ho mai visti prima.





queste mucche hanno le orecchie luuuuuunghe!

Il primo tratto scorre via liscio, e dobbiamo purtroppo constatare che anche qui ci sono i basureros publicos, le discariche dei pueblos, proprio a bordo strada, appena fuori dai paesi. Non ci sono grandi mucchi di immondizia, perchè viene continuamente bruciata con roghi tossici di cui anche noi italiani sappiam qualcosa. Qui è la norma, e quando ci passiamo accanto la gola brucia e lacrimano gli occhi per questi fumi di plastica e sa dio che altro bruciati. Diciamo che questi pueblos, abitati in gran parte da nativi, portano a riflettere criticamente sul mito del buon selvaggio di Rousseau. L'educazione non fa mica sempre male, anzi!



Ben presto, ahimè, la situazione prende una piega molto meno tranquilla per noi che pedaliamo. Si alza un vento teso e fortissimo, che prima ci è esattamente contrario, poi laterale. La fatica di spingere avanti la bici si somma a quella di tenerla dritta e non farla sbandare in mezzo alla strada, dove il traffico non è delirante ma nemmeno assente. Procediamo con una fatica da girone infernale, tutti tesi, le gambe, la schiena, le braccia, il collo, serrati i denti e le mani. Ci chiniamo, diventiamo curvi come camaroni, pare quasi di strisciare, a tratti. Vi lascio immaginare la gioia delle fughe dai cani in corsa, in queste condizioni. Oltretutto la strada presenta spesso delle crepe profonde, larghe giusto poco più delle ruote, probabilmente dovute al terremoto. Siamo costretti a fare brevi soste di continuo, per allentare la tensione di tutto il corpo, e a tratti io cammino, per evitare di essere spinta, nei punti più esposti alla furia di eolo, sotto ai camion. 






Mentre lottiamo contro la cattiveria della tramontana, incontriamo una fiumana di migranti. Qui ne passano a centinaia, e sono centro-sudamericani ma anche africani, tantissimi, e qualche mediorientale. Che ci facciano qui è presto detto: hanno lasciato il loro paese e vanno verso gli USA e il Canada. C'è una linea ferroviaria, una delle poche del Messico, che corre dalla frontiera meridionale fino al nord del paese. Sono treni merci, chiamati "La bestia" o "El tren de la muerte" perchè i migranti ci viaggiano sopra in condizioni disumane, per essere poi spesso fermati e rispediti al mittente. Ora poi, un po' a causa degli uragani che hanno distrutto parte della ferrovia, in parte per i lavori di costruzione del corredor interoceanico, che collegherà l'istmo qui con il Golfo, i treni hanno frequenza e percorso ridotti. E quindi i migranti vanno a piedi. Circa 500km, per 500.000 persone all'anno. Uomini, ragazzi, donne giovani. Con solo uno zaino o una borsa, un paio di scarpe appese al collo e la speranza che qualcuno si fermi a dar loro un passaggio. Oggi ne abbiamo incontrati almeno un centinaio, che camminavano a gruppi in una sorta di lunga, sfilacciata carovana. Ci siamo scambiati qualche saluto, qualcuno, leggendo il cartello "Soy italiana" ha gridato ridendo: "Buongiorno! Vai uomo!". Quando ci siamo fermati in un paesino a riposare, Cazadero, i bimbi e le signore con i chioschetti ci hanno chiesto una mano per "controllare" che queste persone non usassero i bagni senza pagare i 5 pesitos e non allungassero le mani sull'acqua. Sinceramente io non faccio il cane da guardia, anzi, ho fatto entrare in bagno di nascosto una ragazzina e poi un'altra. So che è una guerra fra poveri e poverissimi, e nessuno ha ragione nè torto. Però ci sono delle necessità primarie e quelle sono evidenti a tutti. So che comunque nel pueblo accanto la gente, Santo Domingo Ingenio, la gente ha accolto un po' più calorosamente alcuni migranti, approntando dormitori e raccolte di cibo e vestiti. Alcuni uomini, arrivati al pueblo, hanno preso un taxi, chiedendo di andare nel centro accoglienza più vicino. Sono luoghi di salvezza ma anche di dannazione, con storie dell'orrore che vi lascio solo immaginare. In ogni caso, pedalare controvento risalendo queste carovane è impegnativo emotivamente, oltrechè fisicamente.


Superata la carovana, attraversiamo un lunghissimo, estesissimo parco eolico, che ci fa da sfondo per oltre 20km. In effetti, stiamo pedalando verso una città che si chiama "La ventosa", e non + quella sturacessi. Eolo qui fa sempre il suo dovere, insomma. E noi ce lo stiamo godendo tutto, a bestemmioni.











Finalmente raggiungiamo la metà tappa, appunto a La ventosa. Qui facciamo una sosta-pranzetto con frutta secca picosita, attirando la curiosità di tutti i cittadini, della polizia, dei cani, persino del pollame. Di turisti, qui, non ne passano mai.




Ripatiamo con la consapevolezza che, da qui in poi, la strada fa una brusca curva a sud e quindi ci pone a favore di vento. Così è. Raggiungere Juchitan si rivela impresa facile. La guida Lonely Planet cita le 30 differenti velas (feste) di quartiere con musica, danze, bevute e banchetti che si svolgono tra aprile e settembre; cita anche i muxes: gay dichiarati, spesso travestiti, completamente accettati dalla comunità locale e con tanto di festa loro, a novembre. Del centro ho scattato poche foto perchè il traffico era troppo caotico e pericoloso, soprattutto i mototaxi impazziti di manovrine nevrotiche. Questo ci ha anche fatto desistere dal visitare la piazza centrale, con mercato (dove è in vendita, anche già cucinata, la carne di iguana) e il palazzo del comune, del XIX secolo, con 31 archi e segni evidenti lasciati dal terremoto. 


Il toponimo deriva dal nahuatl, "Luogo dei fiori bianchi". E' stata fondata dagli zapotechi e ancora oggi gran parte dei suoi abitanti è di questa etnia e parla questa lingua (ci sono anche radio e tv che usano solo questo idioma). Praticano un cattolicesimo intriso di elementi preispanici, e i curanderi hanno ancora gran seguito. Storicamente sono un popolo fiero, libero, pronto a combattere per difendersi. Hanno respinto gli aztechi, a lungo gli spagnoli, i francesi di Napoleone III. Hanno lottato per Diaz e poi per Zapata e Villa. Hanno accolto gli zapatisti nel 2001. Tradizionalmente sono molto uniti, i vicini si aiutano tra loro e la comunità ha un tessuto forte, che si manifesta, appunto, nelle feste (che hanno rituali complessi, costumi, danze specifiche...). Tuttavia la criminalità si sta diffondendo anche qui, e anno dopo anno interessa anche le comunità più piccole, coese e "sane".

Ripartiamo per gli ultimi 25km, che sono di stradone drittissimo di vento nuovamente laterale. Intorno, prati. Sagome scure di colline sullo sfondo chiudono l'orizzonte.



Non senza fatica, tra una spinta e un calcio ai pedali, arriviamo finalmente a Tehuantepec, la nostra meta di oggi. Siamo nei punti più stretti del Messico, tra Atlantico e Pacifico qui corrono meno di 200km. Il traffico non è devastante e, in breve, raggiungiamo l'hospedaje che abbiamo prescelto. Hostal Emilia, gestito da un anziano che a malapena si alza dall'amaca che ha appeso nella hall, al secondo piano di un antico edificio. Che stile!







Tehuantepec è stata capitale secondaria dell'impero zapoteco, prima che gli spagnoli la conquistassero, nel XVI secolo. Cito a braccio da Wikipedia: "La città è tuttora il centro della cultura zapoteca nell'Istmo; è famosa per le sue donne ed i loro abiti tradizionali, utilizzati anche da Frida Kahlo. Tehuantepec ha una reputazione di "società matriarcale". Le donne comandano i mercati locali e sono famose per deridere gli uomini, che fino agli anni '70 non potevano accederi. Il potere politico è comunque in mano agli uomini. La città visse un breve boom economico all'inizio del XX secolo, grazie alla ferrovia che univa i due oceani, ma presto eclissata dalla nascita del canale di Panama. Esistono progetti che vorrebbero ripristinare il collegamento tra Golfo del Messico ed Oceano Pacifico, ma sono bloccati da problemi finanziari".

Dopo essere rimasti un po' a esalare gli ultimi respiri in camera, che è un forno e non si raffredda nè con i ventilatori nè con le preghiere, usciamo a esplorare il vicino centro. La piazza centrale è animata da gente a passeggio e bancarelle, ambulanti e musicisti di strada. Su di essa affacciano il palazzo comunale e uno dei quattro mercati coperti, quelli gestiti solo da donne. Gli uomini che vi mettono piede vengono scherniti e la loro virilità è messa in dubbio. Tanti edifici sono antichi, anche se diroccati, e sui tetti di molti crescono i cactus!







Facciamo un salto alla cattedrale, dove è in corso una funzione. Nel cortile, si svolge invece una lezione di arti marziali, con bimbi in kimono e maestro con cuscini paracalci e pugni. Uno strano mix. Qualche senzatetto dorme sulle panche di pietra nel cortile. L'ex convento domenicano, che è anche il centro culturale che propone mostre ed esibizioni sulla storia e cultura locali, porta ancora tracce del terremoto.





Passeggiamo ancora un po' tra le vie dei mercati, anche se è quasi orario di chiusura e molte saracinesche sono abbassate.






Poi lascio decidere a Gigi dove cenare, e opta per un pizzeria che, come sempre qui, fa anche alette di pollo e altre cosine da spizzicare. Lui va di pizza, io di alette. Scopriamo anche che è il punto di sosta dei numerosi bimbi ambulanti che vendono cioccolatini o caramelle da un grosso catino. Qui trovano una sedia, aria condizionata e un bagno, oltrechè una tv accesa su commedie statunitensi di bassa lega, sparate a tutto volume. Contano le monetine guadagnate, stanno un attimo e poi ripartono per il turno serale.


Oltre alla cultura matriarcale, di Tehuantepec mi stupisce l'atavica rivalità con Juchitan, che deriva da quando i Tehuani tradirono le forze messicane alleandosi a quelle francesi di Napoleone III. Da Juchitan non hanno mai perdonato questo voltafaccia, e le due città si sminuiscono a vicenda, si deridono, sostengono che l'altra abbia uomini brutti e donne vestite male, che l'una non sappia far niente rispetto all'altra. Si sfidano a suon di feste, in gara a chi organizza le più grandi, colorate, divertenti. Allora il campanilismo tra vicini non è solo cosa italica!

Torniamo in stanza dopo un'ultima passeggiata. Domani, dopo qualche kilometro finale di istmo, arriveremo finalmente sulla meravigliosa costa del Pacifico. Potrò tirar fuoi di nuovo il costume da bagno! Il primo tratto è abbastanza selvaggio e spopolato. Infatti puntiamo all'unico paesino a distanza giusta per una tappa di giornata, poco sopra ai 100km. Ha due strutture, ma una, quella che sembrava più sul nostro target, mi insospettiva perchè tutti i social, prima molto attivi, sono fermi da un anno e mezzo. E' una sorta di posada-rancho-ristorante lungo la strada, noto per i motoraduni e l'accoglienza ai viaggiatori su due ruote. Ma questo silenzio... Faccio qualche ricerca, e scopro che il proprietario è stato ammazzato a colpi di pistola da una gang rivale, durante un regolamento di conti. Apperò! Quindi prendo contatti con l'altra struttura, che è gestita da una comunità di etnia chontal, e ci accordiamo sul prezzo. Ergo, domani si dorme sulla spiaggia! Non vedo l'ora! 

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