sabato 1 luglio 2023

7-9. Pedalare nei pueblos maya. "No soy gringa!", archeologia, natura e una storia piena di nodi, che oggi vengono al pettine







28/6
Cancun-Leona Vicario
65km

Passiamo diverse ore della notte a rimontare le bici e a riordinare tutto il nostro bagaglio nelle borse. È un'arte, come sa chi viaggia senza motore. Per fortuna è tutto integro e nulla si è perso. O meglio, si era perso proprio tutto! L'omino dei bagagli è stato gentile e ha fatto il possibile per far fronte all'incompetenza, al menefreghismo da corsa al risparmio e al facciaculismo della compagnia per cui lavora. Ieri sera stava per farci correre, a mezzanotte, all'aeroporto, perché è pure stato fermato alla dogana e sembrava volessero fargli pagare una tassa sull'importazione di quella che pareva essere "troppa roba". Ha avuto una crisi di nervi, una di piantino isterico con tanto di vocale a dimostrarlo, ma poi è riuscito a risolvere. Non vi dico le espressioni dello staff dell'hotel, che ormai ci conosce e pensava avessimo perso uno zainetto e un trolley, quando siamo passati nella hall con tutti i nostri pacchi giganti! In ogni caso ci siamo dati da fare e, intorno alle 3, era quasi tutto pronto.
Stamattina ci siamo alzati inevitabilmente più tardi del solito, e siamo usciti piuttosto in fretta, con le bici, per gonfiare bene le gomme con l'aria compressa del benzinaio (benedetti adattatori per le valvole!) e comprare qualcosa per colazione. Sbrighiamo queste faccende e torniamo in camera a capire, tra un sorso di caffè freddo e l'altro, quale sia la miglior strada da percorrere, ora che tutta la mia traccia è saltata e va ripensata per questi primi giorni. Facciamo una breve ricerca per iniziare a distinguere le autostrade (a pedaggio, con "cuota", vietate alle bici) e le strade "libre". Questo ci aiuta a improvvisare il nuovo percorso, insieme all'utilissima funzione di Street view che ci permette di capire la qualità delle strade, il fondo, il bordo pedalabile o meno...



In questo modo, nel giro di poco, riusciamo ad abbozzare una traccia che non è bella come quella che avevo preparato, ma ci porta dove dobbiamo in breve e, speriamo, in sicurezza. Bene, è ora di uscire. La calle chiama. Chiudiamo le borse, indossiamo i vestiti da bici (che non salgono, la pelle sempre bagnaticcia e l'umidità fanno attrito) e siamo pronti ad affrontare i nostri primi colpi di pedale messicani. Appena usciamo in strada il caldo ci prende a mazzate, e continuerà a farlo per tutto il giorno. Il primo obiettivo è uscire da Cancun, che non è grande ma ha un discreto traffico di auto, bus, combis, motorini e mototaxi strombazzanti.


il costume ancora umido rigorosamente steso sulle borse

Ci lasciamo la città alle spalle senza troppe difficoltà. C'è traffico ma le strade sono abbastanza ampie e, soprattutto, i guidatori non hanno quella fretta e quella cattiveria che trovo ogni volta, in una città a caso: Milano, l'atomo opaco del Male (per citare Pascoli). L'impressione è che tutti vogliano evitare incidenti, perchè romperebbero le balle in primis a loro, e quindi stanno quel minimo attenti a non tirarti sotto, a darti le precedenze dovute e, in generale, a considerarti un utente della strada al pari loro. 
Una volta fuori dal centro, imbocchiamo dei vialoni dritti e larghi, quasi vuoti, ai cui lati sorgono strutture turistiche sempre più fatiscenti, con le insegne storte e i cartelli sbiaditi, poi cantieri, e infine, la selva. 




Qua e là compare un paesino, che di solita consta di tre case di cui due capanne, qualche bodeguita, qualche zozzone a pedali che fa le tortas (panini) o i tacos -street food autentico e autenticamente peligroso per la mia delicata flora intestinale- e un baretto. Poi raggiungiamo la strada 180, che corre parallela all'autostrada, e non ne usciamo più fino all'arrivo. 


Il caldo ci impone soste frequenti: sudiamo tantissimo, beviamo tantissimo. Siamo spugne. Stiamo cominciando ad assaggiare tutti i succhi di frutta e le bibite che il Messico offre. La Coca-Cola è onnipresente e mi pare di aver letto che proprio qui ci sono tra i più alti consumi al mondo, perchè l'imperialismo ha molti volti; non è un caso che in questo paese ci sia anche un problema di obesità.


Purtroppo, dopo nemmeno 40km, dobbiamo fermarci per la prima foratura. Una grossa scheggia di metallo mi si pianta nel copertone e, prima ancora di rendermene conto, ho la ruota a terra. Ci fermiamo all'ombra e Gigi mi aiuta nell'operazione che, temiamo, si ripeterà spesso: il caldo ammorbidisce i copertoni e le strade sono piene di porcherie acuminate e affilate. Quando ci si ferma la cappa di umidità rovente stringe alle tempie e non tira un filo d'aria. Da restarci secchi!



Ripartiamo e ci troviamo su una striscia d'asfalto che buca la selva. E' un susseguirsi di pueblos di cui si vede solo il cartello con il nome, il sentiero sterrato d'accesso e, talvolta, qualche capanna o casupola con i copertoni appesi ai rami come altalene. Tra un pueblo e l'altro ci sono diversi ranchos, alcuni privati, altri adibiti a strutture ricettive con camere, ristorante e piscina... Che spesso è un cenote! Non mancano anche quelli che, passandoci accanto, mi paiono parchi acquatici, un po' sgualciti, un po' sbiaditi, forse pensati per il turismo interno. Si respira comunque un'aria tranquilla, rilassata, di vacanza. Il traffico è ridotto e, per quanto non ci sia un bordo strada in cui pedalare fuori dalle corsie, i guidatori rallentano e passano larghi.


Quando il caldo comincia a farci lessare i piedi come cotechini raggiungiamo il paese che, stamattina, ci siamo prefissati come meta per la prima tappa (brevis): Leona Vicario. E' ancora presto, ma preferiamo fermarci per poter studiare meglio la strada per i prossimi giorni, tanto più che siamo stanchini e, per qualche decina di kilometri da qui, non ci sono più cittadine ma solo minuscoli villaggi.
Il paese sorge affacciato alla strada, che è la sua spina dorsale. Su questa affacciano i negozi, i ristoranti, la piazza, in un via vai di mototaxi, bici e altri mezzi a pedali e cani randagi, il tutto amalgamato nell'aria polverosa e rovente.
La cosa che ci colpisce per prima, comunque, resta il muro del camposanto, tutto decorato con i muertitos che fanno cose.




Torniamo un attimo nella piazza centrale per rinfrescarci le idee e capire in quale albergo fermarci, visto che qui ho notato la presenza di glamping, boutique hotel (ma de che?) e altri luoghi atti a spennare i rari turisti improvvidi. In piazza troviamo il busto di colei che dà nome alla città: Leona Vicario, la rivoluzionaria.


Cito da Wikipedia: "Nata da una famiglia creola altolocata, rimase orfana di entrambi i genitori all'età di diciotto anni, ragione per la quale venne affidata allo zio. In quel periodo conobbe Andrés Quintana Roo, un impiegato nell'azienda dello zio. Tutti e due si innamorarono subito, e Andrés chiese presto la mano di Leona, ottenendo una risposta negativa da parte di suo zio, poiché era povero. Questo motivo spinse Leona a fuggire di casa per unirsi a Quintana Roo e a partecipare con lui alla rivoluzione. 
Leona si trasferì nella cittadina di Tacuba, dove organizzò un gruppo di donne che appoggiavano la causa dell'indipendenza. Finanziò con la propria fortuna la rivoluzione. Servì come messaggera dei rivoluzionari e anche come spia a Città del Messico, assieme ad altre persone che formavano un'organizzazione segreta.
Venne arrestata il 13 gennaio 1813, essendo stata scoperta la sua partecipazione alla rivoluzione, venne condannata a essere reclusa nel convento di Belen de las Mochas. Ma grazie all'aiuto di tre rivoluzionari travestiti da ufficiali dell'esercito spagnolo riuscì a scappare verso Tlalpujahua dove riuscì finalmente a sposarsi con Andrés.
Leona Vicario, suo marito Quintana Roo e sua figlia Genoveffa furono infine catturati dalle truppe spagnole nel 1818 e successivamente liberati grazie all'indulto concesso dalla Spagna.
Nel 1925 i suoi resti furono spostati alla Colonna dell'Indipendenza.

Il paese che porta il suo nome, nello stato omonimo del marito, ha un bel parco centrale, dove i ragazzi giocano nei campetti e la gente passeggia o si gode il fresco. Noi facciamo lo stesso e, dopo una breve ricerca, decidiamo di prendere una stanza in un hotel che abbiamo visto sulla strada.





Sul prezzo della camera dobbiamo contrattare un po', ma alla fine ne usciamo tutti soddisfatti, noi e il proprietario. Siccome è presto, ci concediamo una bella doccia e un po' di riposo al fresco, sotto al ventilatore (che è il perfetto compromesso tra me e Gigi per non litigare sull'aria condizionata). Mentre attraversiamo il cortile, pur essendoci un sole caldissimo, che illumina tutto, inizia a piovere. Lo spettacolo delle gocce di miele e ambra che accarezzano le foglie rimane impagabile.




Si fa ora di cena e decidiamo di uscire adesso che la pioggia ha smesso e l'albergo è calato nell'oscurità per un black out generale. Che qui non siamo in Cancun, ma nemmeno a Tulum o nelle altre grandi città del turismo internazionale si capisce subito. Sulla strada affacciano casette basse e tutte scassate, e una varietà di negozietti che vendono vestiti, alimentari e soprattutto frutta di ogni colore e forma. Non mancano le taquerie, alcune ambulanti, altre no, ma lercine allo stesso modo: sono edifici senza pareti, solo con il tetto che poggia su colonne e il pavimento, spesso tutto in cemento, compresi i mobili delle cucine. La specialità? Taco con cervello di mucca. L'inglese è un vago ricordo e non ci proviamo nemmeno, anche perchè risulteremmo antipatici da subito. Anche con lo spagnolo ci siamo solo a metà, perchè una grande quantità di parole, soprattutto in merito al cibo, sono in lingua locale, maya. Quindi capiamo poco e niente. La pima sciura dove tentiamo di cenare, al secondo tentativo di intenderci, ci volta le spalle e ci fa capire che siamo troppo gringos per lei. 




Allora torniamo sui nostri passi e ci fermiamo a quel che noi chiameremmo kebabbaro, anche perchè è orgogliosamente turco, ma si è adattato ai costumi locali e quindi la sua carne non finisce nella pide ma nei tacos di mais. Però con lui riusciamo a intenderci al volo. Intanto destiamo numerosi attenzioni: siamo gli unici turisti. Ci porta i tacos (sostanzialmente ha un solo piatto: tacos con carne kebab) in un piatto untissimo, mai lavato dalla conquista di Costantinopoli, e due scodelle immense di salse: una bianca e una rossa e piccante anche solo allo sguardo. Ovviamente vengo entrambe da enomi contenitori che albergano fuori frigo, anch'essi dalla metà del XV secolo. Quando Cortéz è passato di qui, li ha visti con i suoi occhi. Posate, bicchieri? No! Acqua in bottiglia? Nemmeno! Tovagliolini apparentemente puliti ma pieni di stuzzicadenti usati? A bizzeffe! Cani e canetti che aspettano un po' di avanzi? Certo, porelli, e qualcosa allunghiamo anche noi sotto al tavolo. Il paròn ci chiede anche se ci sia piaciuto tutto, e non possiamo negare, anche se le salsamonelle non le abbiamo sfiorate: too much anche per me.


Siccome abbiamo ancora fame, facciamo un giro in centro a caccia di qualcosa di sfizioso. Intorno alla piazza si affollano i baracchini degli ambulanti, che grigliano e friggono e affettano. L'aria è densa di profumo di carne e fumi di cottura. Persone e randagi si accalcano. Preferiamo proseguire alla ricerca di un fruttivendolo: ce ne sono tanti e sono tutti invitanti. Ne scegliamo uno e facciamo incetta, anche perchè i prezzi sono davvero convenienti. Mi faccio anche spiegare come si mangia il dragon fruit, questo delizioso e coloratissimo frutto di cactus che qui vendono ovunque. Ne compro uno da assaggiare, non mi è mai capitato a casa, per quanto ne abbia visti, nei supermercati. Un po' mi sento provincialotta ignorante, ma onestamente nel Parco Agricolo Sud Milano queste varietà non crescono e un po' mi sento giustificata. Questo è invece il luogo e il momento di assaggiare!



Rientrando, passiamo per la piazza, dove sentivamo casino da ore fin in albergo. Non capivamo se fosse un concerto o un sermone, ma scopriamo che è un mix in salsa latina. Un predicatore arringa la folla elencando tutti i problemi del mondo (povertà, droga, malavita, prostituzione, solitudine, malessere interiore, malattie...) e per ognuno urla che la soluzione è dio. Ogni tot deve riprendere fiato, e allora attacca la banda alle sue spalle, con tastiera, ottoni e cantante. Ai lati della piazza vendono panini e secchi di spaghetti con wurstel.


Assistiamo a qualche minuto di show, poi ci ritiriamo in camera. Scopro che il dragon fruit mi piace tantissimo, e questo è il primo di una lunga serie. Vado anche a leggere due informazioni sul paese in cui ci troviamo.


Questo paese è nato sui resti di una hacienda che trattava chicle (una gomma vegetale usata per le gomme da masticare) e palo de tinte (leguminosa). Lo sfruttamento delle terre era stato concesso dallo Stato messicano alla banca di Londra, sottraendo spazio alle popolazioni native di discendenza maya. Questi, dopo la guerra delle caste, tornarono attaccando i lavoratori della hacienda e facendo massacri, ma poi, vedendo che, nonostante tutto, le terre a loro espropriate non tornavano nelle loro mani, deposero le armi e si misero al soldo dell0hacienda stessa. Nel 1936, per la politica di laicizzazione messa in atto dal governatore di allora, la Hacienda Santa Maria prese il nome di una patriota, appunto Leona Vicario. Dopo la seconda guerra mondiale la richiesta di chicle calò drasticamente e l'hacienda fu chiusa, ma i lavoratori, quasi tutti uomini senza famiglia, rimasero lì, in primis a dedicarsi a scommesse e violenza, poi ad agricoltura e artigianato, dando vita alla cittadina di oggi (visitata più volte da Don Pedro Infante, famoso cantante e attore).
Insomma, anche qui di prevaricazioni e rivolte, alcune finite bene, altre decisamente meno, ce ne sono state... Sembra un po' la cifra della storia di questo paese, almeno, per quanto visto finora.

Dopo un po' di letture, tracciamo la strada dei prossimi giorni: domani seguiremo la 180 per lasciare lo stato di Quintana Roo ed entrare in Yucatan. Attraverseremo territori maya. Faremo sosta probabilmente a Chemax, cittadina a poco meno di 90km da qui. Dopodomani, invece, saliremo ad Ekbalam e riscenderemo poi a Valladolid. La prima è un pueblo maya con imponenti rovine archeologiche, la seconda una bella città coloniale con chiese ed edifici storici. Il giorno seguente pedaleremo fino a Chichen-Itzà, mentre quello dopo ancora verso Mérida. Qui faremo sosta un giorno, perchè le cose da vedere sono tante!


29/6
Leona Vicario - Chemax
87km

Ci svegliamo che il sole è già alto, e intuiamo il caldo esterno dalla foschia umida che esala dalle piante dal terreno. Tutti i dolorini della prima pedalata a pieno carico si fanno sentire, accentuati dalla notte con inevitabile aria da ventilatore addosso. Usciamo per racimolare un po' di colazione e ce ne torniamo in camera con una serie di new entry, tipo questo succo di soia e mela che a me piace un sacco, a Gigi decisamente meno.



Poi richiudiamo le borse, ci infiliamo a fatica i vestiti da bici, saponosi e restii a calzare, e ci buttiamo per strada. Gigi vuole, prima di partire, una foto con la palma. Sceglie all'uopo la più piccola e striminzita, così che sembri pronto per uno spettacolo di pole dance. Andiamo, che è meglio!


Appena usciti di imbattiamo nell'ennesimo, ma primo di altre decine oggi, cenote. Sono grotte con acqua dolce il cui nome deriva dalla lingua maya: dzonot, acqua sacra. Questo, come molti altri, è adibito a piscina ed attrezzato con tanto di sdraio ed ombrelloni. Io vorrei forte farci un tuffo, ma siamo partiti da poco e bisogna andare.



Seguiamo la 180 libre, direzione Merida, oggi senza deviazioni. Sulla strada si affacciano numerosi paesini, alcuni più grandi e strutturati, altri più piccoli, caotici e spesso ridotti a quattro casupole e due capanne. Passiamo da Valladolid nuevo, con la sua scuola media e tutti i ragazzini che corono in cortile a salutarci, a Cristobal Colon, Santo Domingo, Aluxes, El Tintal. In tutti questi centri abitati c'è un gran via vai di tricicli, a motore o a pedali, adibiti al trasporto passeggeri, ma pur motorini e auto abbastanza scassate e arrugginite. Ci sono tanti cani randagi, quasi tutti troppo affamati e deboli per curarsi di noi, bambini in divisa da scuola e negozietti di ogni genere.



la scuola media

Poco prima di un incrocio autostradale saliamo su un cavalcaferrovia e, pur essendo solo di qualche metro più alti, scorgiamo l'intera distesa piatta della selva, a perdita d'occhio, tagliata solo dai binari. Si tratta del controverso Treno maya. Si tratta di un'opera mastodontica, ipertrofica, voluta con forza dall'attuale presidente Obrador: 1500km di ferrovia, dal Chiapas al Quintana Roo, per collegare i principali siti di interesse storico e culturale e portare vagonate, letteralmente, di turisti ogni giorno. Il presidente l'ha definita un'opportunità di crescita per le economie locali, ma è evidente che la gente del posto ne trarrà ben poco beneficio; e chi fa notare che la stragrande maggioranza delle comunità locali ha votato a favore, deve sapere che i fogli portati nei villaggi da firmare erano quasi sempre in spagnolo, là dove pochi sanno leggere e ancor meno questa lingua, che non è la loro. Chiedevano, gli indigeni, scuole, ospedali, acquedotti. Non un treno per turisti. Ad opporsi a questo scempio, che distruggerà gli ecosistemi (sul cui equilibrio si basano le economie locali, tanto che è stato definito ecocidio ed etnocidio) ci sono gli ambientalisti, gli zapatisti e le comunità indigene. Ma il presidente, insieme agli operai che posano i binari, manda l'esercito e camionate di agenti paramilitari armati di tutto punto a proteggere l'opera. Commenta il Manifesto: "Il Tren Maya è il grimaldello attorno a cui si muove l’enorme operazione di maquillage, guidata in prima persona dal presidente, che nasconde in sé un progetto, di stampo neoliberale, di strutturale trasformazione del sud del Messico".
Eccolo qui.




A Ignacio Zaragoza ci fermiamo a bere qualcosa di fresco. Il caldo è già devastante. I bimbi ci guardano incuriositi, il negoziante ci chiede lumi: chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo? Evidentemente di qui non passano molti cicloviajeros, e siamo un discreto spettacolo di arte varia (soprattutto Gigi, che è tutto quello che loro non sono: alto, snello, occhi azzurri, pelle chiara, calvo, barba bianca. Il diverso, l'altro-da-sè in ogni modo).




Ripartiamo. Dal caldo non si respira. Ci dicono che di solito non è così. Caldo, sì, ma non in questo modo. Pare che il cambiamento climatico stia colpendo anche qui, e ogni giorno ci arrivano notizie di decine di morti per il caldo. Passiamo Villa Infantil Maya e Nuevo Xcan e... Siamo in Yucatan. Il Quintana Roo, stato in cui siamo rimasti finora, è ormai alle spalle. Cambia il fuso orario: ora dall'Italia non ci sono 7 ma 8 ore in meno. La strada diventa più ampia e meglio mantenuta. Vediamo persino una scimmia, purtroppo morta, nel fogliame a bordo carreggiata, e una quantità incredibile di farfalle che creano nuvole gialle, arancioni e rosse. Insomma, Yucatan.



Inizia qui l'infilata di cittadine e villaggi a maggioranza maya, dove lo spagnolo è ancora oggi seconda lingua, l'analfabetismo dilaga e troppi vivono sotto la soglia di povertà. Il clima cambia. Iniziamo a ricevere qualche sguardo storto in più.



Tra un paese e l'altro c'è la selva, attraversata da sentierini segnalati con bottiglie di plastica, copertoni e altra immondizia colorata accumulata ad hoc. Sbirciando in questi scorci di foresta, mi assalgono curiosità e brividi a un tempo. Chissà com'è vivere lì dentro, nel folto della selva. Chissà cosa si muove all'ombra degli alberi, quali animali, quali uomini. Chissà quanto poco resisterebbe una volpe gringa che sta imparando a conoscere questi luoghi visti finora solo nei documentari e sui libri.





Vorremmo fare una sosta, perchè il caldo si è fatto insopportabile, i pensieri annebbiati e l'acqua nelle borracce brodo... Ma non ci sono più centri abitati, se non pueblos che la mappa segnala dentro alla selva. Quindi tiriamo dritti e, a quasi 70km, raggiungiamo Xcatzin (è il nome di una pianta in lingua maya). Qui prendiamo d'assalto uno dei pochi negozietti e ci rifocilliamo di acqua fresca. Veniamo presto raggiunti da due ragazzini che cercano di venderci della frutta. Prima con sorrisoni e buone maniere, poi in modo sempre più insistente. Parliamo un po' con loro: uno, il più tagliato, ha 9 anni. L'altro, che non scende dal triciclo cargo ed è un po' più timido, 11. Entrambi vanno a scuola. Entrambi, dopo averci pelato qualche monetina, chiedono più soldi, e iniziano poi a palarci in maya, dicendo che sono maledizioni, e che se gli diamo dei soldi dio ci aiuterà. Che fatica.
Dopo un bel po' se ne vanno, e ci raggiunge un canetto questuante. Anche a lui qualcosa arriva.





Siccome è molto presto e mancano solo 10km alla nostra meta di oggi, decido che si può fare una micro-deviazione in paese pe andare a vedere il cenote che sorge a qualche via di distanza dalla strada principale. Le stradine, sterrate, sono popolate da bambini di ogni età che giocano a pallone, girano a bande in bici e trafficano cose. La nostra presenza non passa inosservata e, nel giro di un attimo, ci troviamo a metà tra l'inseguiti e il circondati da un nugolo di bimbi che ci fissa, e le espressioni non sono del tutto amichevoli. Gigi è gringo. E gringo, ormai lo sappiamo dal Perù, non è un complimento. Quindi stiamo il tempo minimo per vedere il cenote e poi via, perchè l'aria è pesantina. Gigi è abbastanza scosso. Io che mi sono presa pure le pietre lanciate dai ragazzini in Iran mi faccio impressionare meno e so che l'ignoranza qui è frutto della miseria e di una storia impietosa. La rabbia cova da secoli nel cuore di questa gente ed io, per quel che posso, li capisco. Comunque domani facciamo un bel cartello da scrivere sulle bici: no soy gringo/a, soy italiano/a!

il cenote dello scandalo


Arriviamo infine a Chemax, dove confermiamo la decisione di fermarci. Prima Gigi ha anche chiamato uno degli hotel per prenotare una stanza. Don Roger è una ex casa coloniale riadattata ad albergo, costa molto poco, ha stanze molto grandi con tanto di cucina, è molto sporco e fatiscente ed è popolato da intere famiglie di scarafaggi grandi come la mia faccia. Perfetto, prendiamo la stanza! Gigi istituisce il "sacchetto delle cucarachas", cioè quello con cui raccattarle e buttarle nel wc, per intenderci sulla quantità e qualità.




Siccome la struttura si trova in una zona, diciamo, non bellissima della città, per stasera decidiamo di mangiare in camera dopo aver fatto la spesa al supermercato, finchè c'è luce, così da non dover andar in giro con il buio. Gli sguardi che riceviamo non sono molto rassicuranti, da risatine, sputi a terra, fischi e urla: gringos!
Però non tutti sono così. Anzi, i più sono solo stupiti o incuriositi nel vederci far spese nei negozi e intenderci in spagnolo senza troppe difficoltà. In ogni caso vediamo qui tante baracche, perchè case non sono, dove bimbi, anziani, pollame e cani condividono lo stesso cortile fangoso, penzolando sulle amache. L'odore di marijuana è onnipresente e i personaggi loschetti si aggirano in ogni quartiere, senza nemmeno far finta di nulla. Ho scattato poche foto per non attirare ulteriori attenzioni.



Per far la spesa andiamo in centro, dove si erge la maestosa chiesa che risale alla fondazione via encomienda, nel 1549, della città spagnola, su pueblo maya (Chemax significa albero delle scimmie). Dentro è in corso la funzione. In ginocchio vedo quasi solo donne, di tutte le età. Molte hanno in mano un palloncino verde, e tante indossano l'abito tradizionale locale, che è un vestito lungo bianco con decorazioni colorate di fiori alle estremità della gonna, delle maniche (corte) e sulla scollatura (poco profonda). Qui, per altro, si è combattuta una sanguinosa battaglia durante la guerra delle caste: gli indios ribelli hanno attaccato la città a più riprese, e sono riusciti ad entrarci, e hanno fatto strage.








Ce ne torniamo in albergo a cenare, al fresco, e iniziamo a preparare i cartelli "no soy gringo/a...". Domani lasceremo la strada principale per tagliare su Ekbalam, e poi scendere a Valladolid, sempre in terre maya. Vogliamo essere chiari sulla nostra identità! E' razzismo? O è un modo per difendersi da una forma di razzismo che non ha a che fare con la "razza" ma con la storia? Non so rispondere.


30/6
Chemax - Ekbalam - Valladolid
81km

Incredibilmente, la pletora di insetti che condivide con noi la stanza ci lascia dormire tranquilli. Abbiamo già comprato la colazione e quindi siamo pronti già ad uscire poco dopo svegli. Acchittiamo tutto per bene con i nostri cartelli e ci prepariamo ad una giornata intensa: abbiamo molto da vedere e da esplorare, anche perchè, uscendo dalle strade principali, per noi è tutto nuovo.




Il primo busillis è uscire da Chemax senza svegliare i cani che dormono, e son tanti, randagi e non. Ne abbiamo visti parecchi anche ieri attaccare le birocette a pedali che qui sono il mezzo di trasporto privilegiato... Non vorrei far la fine del signore che ieri ho visto scalciare con la sua infradito mentre cercava di accelerare il passo, e si è visto portar via la babbuccia. Riusciamo nell'impresa senza troppe difficoltà e torniamo sulla 180 libre in direzione Valladolid. Si pedala svelti e bene, perchè l'asfalto è liscissimo, la corsia laterale ampia e tutto è piatto. Per superare i 200m di dislivello bisogna fare più di 100km! In più non fa ancora quel caldo crudele che sale poi durante le ore centrali della giornata, e dà l'impressione di esser stati messi in forno a fuoco alto. Dopo qualche strillo dalla parte opposta della strada -"Gringo, gringo!"- di ragazzini che ci vedono da lontano, siamo sulla traccia. Un soffio ed eccoci al bivio, segnalato da tanto di altare con crociazze e madonna. Qui si lascia la strada principale e ci si tuffa per le vie secondarie che collegano alcuni villaggi maya dispersi nella selva. Qui andiamo a vedere cosa significa essere indigeno e fuori dalle rotte principali del turismo. Un pelino di ansia c'è: se succede qualcosa da queste parti, essere rintracciati diventa complicato. Nessuno vede, nessuno sa.



I dubbi si sciolgono in fretta, un po' per il caldo che ora comincia a pestare forte, e fa sciogliere tutto, un po' perchè scopriamo che anche queste strade secondarie sono ben mantenute, e portano un via vai di agricoltori e operai del posto che lavorano nei campi qui intorno, nascosti tra gli alberi. Sembra tutta gente tranquilla e fin troppo presa nelle proprie faccende. Vorrei vedere qualche animale, che ne so, un formichiere, un coati... E ne vediamo, ma tutti stecchiti. Compreso un cagnolino chiuso in un sacchetto di plastica. La scena è raccapricciante e per la mia sensibilità devastante. Quindi interviene un cinismo tremendo che è una forma di autodifesa, e ci ridiamo su, amaramente, annoverando tra la fauna locale i cani in busta.


Dopo una decina di kilometri troviamo un cavalcavia mai del tutto completato, che porta a superare l'autostrada e il famigerato treno maya. Qui son stati posati solo i binari, e il cantiere pare aperto ma abbandonato. Ha un che di sinistro questa spina dorsale di acciaio imbullonata a una terra che la rigetta come un organo di troppo.




Dopo non molto entriamo nel primo pueblo vero e proprio, Yalcobà, che ci stupisce perchè ha tutte le sue casette e le sue botteghine in ordine, colorate, pulite. Ci fermiamo in un negozio a prender da bere e tanti, passando, si fanno del gran risate leggendo i cartelli: "Non siete gringos, meno male. Non ci piacciono i gringos" dice un ragazzo, con un fondo di serietà che lascia qualche domanda cui è meglio non aver risposta. La piazza centrale ha, come sempre, i campetti attrezzati e una sorta di spiazzo coperto, in muratura. Qui ci sono dei bambini che fanno lezione di ballo di gruppo. E' la seconda volta che assistiamo a questa scena; chissà se è l'ora di educazione fisica o è proprio un corso a parte... In goni caso la musica aleggia nella plaza e risuona tra il municipio e la chiesa senza il tetto. Chissà se anche qui si tratta di quel tipo di architettura progettata dai conquistadores per convincere gli indios ad andare a messa, costruendo templi senza tetto, come era logico per i maya che veneravano gli astri... O se, più semplicemente, un tifone o un terremoto hanno danneggiato la copertura, che è crollata.









Uscendo dal paese ci imbattiamo in case sempre più misere, spesso costituite da mattoni crudi impilati uno sull'altro a formare dei cubicoli, o in capanne di legno e foglie di palma per tetto. Nei cortili fangosi si intravedono qui una capra, là una gallina, qui un bambino, là una anziana che cucina.




Superiamo alcuni ranchos con delle mucche magrissime, tutte pelle e corna, e qualche cenote attrezzato, per poi raggiungere Dzalbay, altro pueblo maya, questa volta più piccolo e più malconcio. Non ho scattato molte foto perchè non volevo dar l'idea del "Guavdate, cavi, questi sono i povevi. Non sono gli ultimi della tevva ma quasi. Fanno tenevezza, vevo?". Insomma, non mi piaceva l'idea che le persone che abitano questo luogo, che ci nascono, ci muoiono, ci costruiscono una vita con amore e con fatica, si sentissero esposti al giudizio di gente che non ha idea cosa significhi tutto questo. Probabilmente sono tutte paranoie e mie e i maya qui chillano e sono, anzi, orgogliosi dei loro pueblos. Chiederò, alla prossima occasione, se trovo qualcuno che parla almeno in spagnolo (cosa abbastanza rara, qui).




una capanna seminascosta dalla vegetazione


Raggiungiamo infine Hunukù, terzo e ultimo pueblo sulla strada. Il nome significa "un solo dio", e qualcosa mi dice che questa idea del monoteismo toponomastico non è venuta senza qualche suggerimento. Qui ci sono case in muratura, oltre alle capanne, e qualche servizio in più. Molti campesinos, in pausa pranzo, ci salutano. Bene così, anche perchè portano dei machete tanti che mi fanno sgranare gli occhi.






 
Al cinquantesimo kilometro arriviamo finalmente ad Ekbalam, prima tappa di oggi. Il villaggio in sè non ha niente da invidiare a quelli visti finora, ma qui si nasconde una chicca: un sito archeologico interessantissimo e poco battuto dal turismo di massa. Arriviamo bolliti, nel corpo e nello spirito, perchè è l'una di pomeriggio e fa un caldo devastante. La prima cosa che facciamo è bere acqua fresca e restare un po' all'ombra, all'ingresso del sito, in un viavai di iguane e farfalle enormi e coloratissime. Poi lasciamo le bici in custodia ai negozianti che vendono porcherie tutt'altro che artigianali nelle bancarelle intorno. Le leghiamo e tiriamo via tutto ciò che può ingolosire, ma probabilmente sono precauzioni inutili. Poi compriamo i biglietti, e stupisco del prezzo: 530 dollari messicani a testa! E' come una doppia in hotel di media categoria. Sono circa 26 euro. La guida parlava di una cifra pari a meno della metà di questa... Scopro che la quota che viene pagata per l'ingresso al sito è rimasta invariata e sono 90 pesos. I restanti 420 sono tasse imposte dal governo che non restano a chi lavora e mantiene le rovine. Sono i soldi con cui Obrador vuole finanziare il treno maya. Che è un'idrovora di denaro. Perciò ora si paga più del doppio!



A prescindere dal costo del biglietto, il sito vale la pena di essere visitato. Ekbalam significa "giaguaro nero" ed è stata una ricca e fiorente città maya che dominava una regione molto popolosa. I primi insediamenti risalgono addirittura al 300a.C., ma il periodo di massimo splendore si ebbe nell'VIII secolo, prima di essere abbandonata e poi ricostruita e abitata fino alla conquista spagnola. Gli archeologi stanno ancora lavorando per far riemergere gli edifici dalla vegetazione. Per ora risultano ben visibili le mura difensive e il relativo arco,


il palazzo ovale e una piramide a gradoni








scarpe da bici con tacchette + gradoni di pietra = rischio sacrifico umano involontario





e soprattutto la cosiddetta Acropolis, con galleria di stanze, su cui sorge la piramide centrale, alta 32m. Qui si trovano raffigurazioni di teste di serpente e giaguaro, teschi di stucco e guerrieri e sciamani.



La particolarità di questo sito archeologico è che, su alcuni monumenti, si può ancora salire, cosa ormai vietata quasi ovunque. Ovviamente non mi lascio scappare l'opportunità di un colpo di calore nell'affrontare la ripidissima scalinata della piramide. Gigi non ci pensa neanche e mi aspetta alla base, all'ombra. Io rischio il coccolone, questa volta più che mai, perchè il gradini sono stretti e alti e le mie scarpe da bici non offrono presa salda. E ovviamente tutto è sotto al sole implacabile, e son le due del pomeriggio. Però ne vale la pena: dall'alto si vedono gli altri palazzi e templi sbucare dalla vegetazione, che un verde oceanico tutto a torno, a perdita d'occhio. In cima, nello stordimento totale, faccio anche due chiacchiere con un gruppo di storici e archeologi peruviani e la loro troupe: stanno girando un documentario.








Una volta scesa ho bisogno di un attimo per riprendermi dal quasi collasso. Poi finiamo di visitare il sito, che vanta anche un campo da gioco della palla. Quello sport rituale per cui, se vincevi, ti facevi malissimo, se perdevi diventavi vittima sacrificale.







Una volta fuori ci pappiamo un ghiacciolo artigianale al cocco è qualcosa di divino: è polpa di cocco freschissina, pressata e messa in freezer. Paradiso puro. Mi accorgo anche che le guide che offrono tour al sito si fanno pagare 600 pesos per la spiega in spagnolo (30 euro), 800 pesos (40 euro) per quella in altre lingue, tra cui inglese, francese e italiano. E' razzismo? E' discriminazione? E' che per parlare altri idiomi devi studiare e qui non è garantito e gratuito? Chissà.


Con un grandissimo, immenso, gigantesco sforzo di volontà torniamo in sella. Fa tanto caldo. Ma ci aspettano altri 30km per arrivare a Valladolid, meta di oggi. Con le gambe molli e il cervello ridotto a orzata, spingiamo senza forza sui pedali, e piano piano, pianissimo, maciniamo i kilometri. Facciamo solo una breve sosta a Temozon, città di falegnami e carpentieri che, con il legno fanno tutto: sedie, tavoli, armadi, mobili di ogni tipo, bici, cavallini a dondolo, monopattini, soprammobili e tutta l'oggettistica che può venirvi in mente. Espongono il frutto della loro arte direttamente in strada e sembra tutto un grande mercatino. Noi ci limitiamo a prender dell'acqua e ad approfittare della ritrovata connessione per prenotare una stanza nella Casa Azul, già individuata ieri, a due minuti dalla piazza centrale di Valladolid.




Ancora un po' di fatica e ci siamo. La proprietaria ci accoglie nella sua casa, riadattata ad albergo. Lasciamo le bici in un cortile interno, dove un gruppo di uomini e signore anziane è intento a sminuzzare verdure e tagliar carne (perchè, sempre nel cortile, la sera vendono tacos). Poi prendiamo possesso della stanza, che è un mini appartamento con ancora, sugli armadi, i nomi dei bimbi che vivevano qui. Alle pareti ci sono i ganci per le amache, elemento immancabile nelle case messicane di questa regione.



Dopo la doccia abbiamo bisogno di un'oretta per riprenderci dalla caldazza invereconda che ci portiamo ancora addosso. Usciamo poi per cena, e questa volta decidiamo di optare per un ristorante che faccia cucina locale e assaggiare un po' di piatti tipici. Mai scelta fu più azzeccata. In un locale gestito da due signore, dove il cortile interno è freschissimo e accarezzato da una brezza magica, le lucine pendono dai rami e, mentre aspetti la cena ti portano dei giochi per ingannar l'attesa, assaggiamo Guajillas, ravioli di mais ripieni con formaggio e carne e conditi con una salsa leggermente piccante, nopal ahogado (foglia di cactus alla piastra con formaggio e pomodoro, servita come una bistecca) e la papas rancheras immancabili. Tutto è più che buonissimo!






Dopo cena facciamo due passi nella piazza centrale, dove ferve la movida del venerdì sera. Di Valladolid parleremo domani, quando ne faremo una visita più approfondita. Per ora solo qualche pennellata di acquarello: musica, risate e chiacchiere. L'aria che rinfresca. Ragazzi sulle panchine del parco che mangiano pannocchie con formaggio, gelato o crepes croccanti con frutta fresca. Un via vai continuo di gente, ma sereno, con aria rilassata e di festa. Edifici con portici e un chiaro stampo coloniale. La mole della Cattedrale che domina su tutto, e ogni mezzora si schiarisce la gola con un rintocco limpido di campane. La luna quasi piena. Una serata di pace.








Rientriamo che è ancora presto, ma domani ci attende un'altra giornatona: pedaleremo solo 50km, perchè ci attende, per via, una delle nuove meraviglie del mondo. Chichen Itza.

1 commento:

  1. E visto che ci sono tante farfalle chiamo ancora Eros Ramazzotti,che guarda caso è in Messico,dalla sua Gelsomino,e sicuramente ti dedicherebbe questa canzone


    Per me per sempre
    Brano di Eros Ramazzotti
    PanoramicaTestoVideoAscolta
    Io vorrei che migliaia di farfalle
    Colorassero l'aria intorno a me
    Poi vorrei vederle tutte quante
    Come un vestito posarsi su di te
    Così, vorrei così
    Così, sognarti così
    Quando la festa comincerà
    Tu sarai regina
    Tutta la gente si fermerà
    A guardati stupita
    Per i miei occhi tu splenderai
    Bella come il sole
    Infiniti poi del cuore
    Infinita felicità
    Quando penso che tu sei
    Per me per sempre
    Oh, yeah
    Poi come fa il vento con le rose
    Vorrei spogliarti soffiando su di te
    Così , vorrei così
    Così, amarti così
    Quando la festa poi finirà
    Torneremo a terra
    Tutta la gente si ricorderà
    D'aver visto una stella
    Per i mie occhi tu splenderai
    Bella come il sole
    Infiniti fuori del cuore
    Infinita felicità
    Quando penso che tu sei
    Per me per sempre
    Per sempre
    Per sempre


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