lunedì 10 luglio 2023

16-18. Da Campeche a Calakmul, dall'oceano alla giungla. Meraviglia e fatica.










7/7
San Francisco de Campeche

Oggi ho vissuto la città di Campeche come se ci abitassi, e dovessi semplicemente sbrigare delle commissioni, prima, e trascorrere del tempo bello e rilassante, poi. Ci si adatta in fretta ai ritmi e ai modi messicani e trovo che le città siano esattamente della misura che mi si confà. Non anguste come i pueblos, dove onestamente è difficile pensare di poter vivere, anche solo per un po', ma nemmeno folli e disumane come le metropoli nostre o, peggio, statunitensi (l'unico mental breakdown grave che io abbia mai avuto in bici è capitato a New york, a viaggio finito, dopo l'ennesimo problema di mezzi di trasporto per tornare a Newark da Central Park con i due scatoloni delle bici. Mettetemi in mezzo a un deserto, in Amazzonia, a 5000 metri di quota o in uno sperduto villaggio e non avrò difficoltà. Mettetemi in un formicaio umano che supera un certo grado di complessità e spersonalizzazione e ciaone). 
Ma non divaghiamo e torniamo nella bella stanza che affaccia al mercato di Campeche.

La giornata inizia con calma, senza sveglia puntata alla tempia e senza fretta. Ci gustiamo la nostra bella colazione, assaggiando la marmellata di un frutto finora a me ignoto, il chabacano. Sembra pesca, in tutto, ma non è. In ogni caso, placet e assai, soprattutto spalmata sulle tortillas di mais e accompagnata dal caffè.


A mattina già inoltrata ci buttiamo in strada, e fa un caldo che rincoglionisce. Mentre ci dirigiamo alla stazione degli autobus di seconda classe per chiedere lumi riguardo alle corse per Edznà, le cui rovine maya sarebbero il punto di partenza della nostra tappa di domani, ci rendiamo conto di aver l'alloggio nella via dei meccanici e dei ciclisti. Vuoi non comprare una camera d'aria, per scaramanzia? 


Raggiungiamo la stazione dei bus, belli convinti di andarcene già con il nostro biglietto e le solite, sempre gradite rassicurazioni sul trasporto bici, ma... Sorpresona! Non ci sono bus che vadano ad Edznà. Solo colectivos. Ma sui colectivos le bici non salgono. A meno di non comprare due o tre file intere, e comunque senza avere alcuna certezza. Inizia qui un agitato pellegrinaggio da una stazione dei bus all'altra, da un infopoint al successivo. Il nostro problema, cui nessuno, apparentemente, riesce a trovar soluzione, è questo: da qui alla prossima città con strutture, Dzibalchén, ci sono 130km, tappa lunga ma fattibile, se ininterrotta. Ma al km 45 una interruzione c'è, e notevole: il sito archeologico di Edznà. Uscire dalla città, visitare le rovine e pedalare una distanza così impegnativa, per il clima che c'è, significa stroncarsi. Femarsi a dormire a Edznà e tagliare la tappa in due si potrebbe fare, ma oltre al sito archeologico non c'è nulla, se non forse, un prato in cui si possono piantare le tende. Ma così sprecheremmo un prezioso giorno di viaggio... Mi sto rendendo conto che, nonostante i due mesi e mezzo dedicati, il Messico ha troppe meraviglie da vedere per perder tempo. Quindi il punto è: arrivare a Edznà con un mezzo, visitare il sito di prima mattina e poi pedalare la novantina di kilometri restanti per raggiungere Dzibalchén. Ma questa semplice idea si scontra con la mancanza di corse dei bus con bagagliaio in quella direzione. Parlamentiamo un po' con gli autisti dei colectivos, che ci dicono di presentarci lì alla loro stazione domattina, che in qualche modo si fa, forse, se c'è spazio. E' una speranza ma troppo flebile per lasciarci tranquilli. Allora iniziamo a chiedere, a informarci, a domandare. Il caldo terrificante e il casino di gente e rumori del mercato, intorno a cui si svolgono tutte queste labirintiche operazioni, rendono difficile anche solo connettere i neuroni. Ma alla fine, dai e dai, ne veniamo a capo. Troviamo una buon'anima che, tra le altre cose, organizza tour, che ci dice che loro hanno dei pickup che fan corse tra Campeche ed Edznà, e pagando una cifra di poco superiore al colectivo possiamo prenotarne una. Detto, fatto, problema risolto! Che leggerezza, quasi quasi sembra che faccia anche meno caldo... Anzi no, si boccheggia, ci si dissecca l'anima. Risolta questa questione, la prima e più importante, possiamo passeggiare per la città alla ricerca delle altre cosine che ci servono: il gas per il fornello, una maglia leggera a maniche lunghe per proteggersi dalle zanzare foriere delle peggio malattie, ora che andremo nella giungla seria, e così via.







Ne approfitto anche per ripercorrere al volo la storia di Campeche, che significa luogo dei serpenti e delle zecche in lingua maya. Si tratta di una delle poche città murate dell'America e il suo centro storico è patrimonio UNESCO, come dicevamo. Qui si trovava un villaggio dedito a pesca e commerci quando, nel 1517, gli spagnoli fecero una prima, breve capatina. La strenua resistenza dei maya rese però ardua la conquista, che avvenne solo nel 1540, quando Chichén Itza era caduta e la regione quasi completamente sottomessa. Per la sua felice posizione sul Golfo del Messico, la città, con gli spagnoli, fiorì e divenne il porto principale della penisola dello Yucatan. Ma tutta la ricchezza che transitava dal porto la rese un ghiotto obiettivo per i pirati. Dopo un'incursione particolarmente violenta, nel 1663, che lasciò Campeche ridotta a un cumulo di rovine, con navi affondate, edifici bruciati e cittadini derubati e trucidati, la corona spagnola decise di far costruire una cinta muraria esagonale e otto bastioni difensivi capaci di tener lontani i pirati. Le navi, per attraccare, dovevano navigare all'interno della fortezza, che oggi è ben conservata. Pare che di qui siano passati alcuni tra i corsari più leggendari: John Hawkins, Francis Drake, Henry Morgan e persino "Gambadilegno".





L'ombelico di Campeche è la sua Plaza principal, con il chiosco in stile belle epoque sotto a cui ogni sera si svolgono feste ed eventi. Qui c'è un mercatino di artigianato e la gente viene a passeggiare, a mangiarsi un gelato o una marquesita e a riposare al fresco, all'ombra dei carrubi. Tutto intorno ci sono ville coloniali e palazzi nobiliari in condizioni perfette, con i loro portici e le balaustrate. Campeggia su tutto la sobria cattedrale di fine Seicento, con i suoi due campanili, in pietra calcarea chiara.





Ci aggiriamo per negozi alla ricerca di ciò che ci serve, e la bellezza della città, anche in periferia, non è offuscata dal caldo, che pure annebbia la mente. Purtroppo le ricerche ci portano a girovagare lontano dai musei, e non riusciamo poi a visitarne nemmeno uno. Ma recupereremo recandoci direttamente nei siti archeologici da cui i reperti provengono.


A metà giornata siamo bolliti e decidiamo di tornare un attimo in camera. Ci sorprende il solito diluvio pomeridiano, ma, cercando rifugio in un bugigattolo del mercato, mi imbatto nella maglia definitiva, quella che stavo cercando, molto più bella di come la immaginassi. Trattasi di tamarrissima maglia da motocross della Fox, brandizzata con calendario maya e bandiera fierissima del Messico. E' lei, è la mia.




Dopo un passaggio in camera, Gigi decide che preferisce restare a riposare al fresco. Io invece smanio per uscire di nuovo e, appena spiove, torno nel labirinto di vicoli un po' colorati, un po' maleodoranti, del mercato.





Faccio il giro delle mura e dei bastioni, che un tempo si snodavano per 2,5km, 8m di altezza e 3,5 di spessore, costruiti in mezzo secolo da manodopera nativa. Sono effettivamente impressionanti. Poi mi lascio portare dalla brezza verso il mare, indugiando in stradine lastricate con le famose case color pastello. Nonostante il cielo grigio, queste facciate risplendono di bellezza semplice e danno allegria (che, come leggo spesso in slogan qui, è un diritto di tutti).










Torno sul malecon a respirare l'aria salmastra e a riempirmi il cuore di luce caramello del tramonto. Passeggio sul lungomare, osservo i ciclisti, i runner, le famiglie a passeggio. Si sta proprio bene, qui.








Passo poi davanti al centro congressi, immenso edificio modernissimo, e vedo folle di gente super elegante entrare e uscire. Sembrano tutti pronti per una cerimonia di gran lusso. Mi incuriosisco. Entro nel parcheggio, dove tre umarells con gilet catarifrangente dirigono il traffico in modo assolutamente spannometrico e casuale, e, prima ancora di avvicinarmi a chiedere, mi trovo catapultata per loro iniziativa in una conversazione paradossale. 
Di dove sei? 
Italiana. 
Ah! Viva la Juve, viva Berlusconi!
Ma no, è anche morto!
Ah già, poi non è stato molto bravo come politico per l'Italia, vero? 
Eh, no. Ma que pasa qui? 
C'è un bellissimo congresso dei testimoni di Geova! Dura tre giorni, ieri oggi e domani. Dalle 8 alle 20 conferenze, incontri, sermoni, dibattiti. Sei invitata! Domattina vieni, ne vale la pena! Come si dice buongiorno ma di sera?
Buonasera.
E notte? Buonanotte?
Esatto, bravissimo!
Si gasano per questo minicorso di italiano e andiamo avanti così un po'.
Poi mi cacciano in mano un volantino tutto stropicciato. Il titolo: "Tengan paciencia". E poi l'elenco dei meeting, delle proiezioni, dei concerti, dei discorsi. Maronn. 
Quando sono ormai a qualche decina di metri mi gridano: Arrivederci!
Ci stavano pensando su da minuti tutti e tre.
Che storia. Comunque questo siparietto mi ha permesso di vedere come si vestono eleganti i campecheni e cosa intendono per dresscode. Gli uomini o in smoking o, più spesso, in casmicia, jeans, mocassini di pelle e cappello da cowboy. Le donne con abitoni coloratissimi, tacco e trucco e parrucco esagerati.

Proseguo il mio vagabondare ed entro all'Home Depot per cercare il gas. Non lo trovo, ma riescono a farmi comprare una scatola di alcol in gel con la quale, probabilmente, darò fuoco a qualcosa, scatenando un incendio di proporzioni catastrofiche. Ma che ne sa la commessa dell'errore che sta commettendo a vendermi roba incendiaria. Incrocio anche qui, ed è tutto il giorno che succede, coppie di mennoniti in libera uscita, con i loro abiti da contadini dell'altro secolo e la loro lingua mix di tedesco e olandese, il Plautdietsch. La loro corporatura e carnagione, anche, che dimostrano una bella chiusura della comunità rispetto ai local.
Sarà che devono vivere in modo sobrio e umile, ma quelli che sto vedendo oggi indulgono ad ogni tipo di acquisto, in primis tutta la gamma del cibo spazzatura, dalle patatine piccanti al cioccolato nelle varie forme, alle caramelle più laide. Mah.


A questo punto, dopo esser stata fermata all'ingresso di un centro commerciale così esclusivo che richiede una tessera per entrare, come in un club, me ne torno sui miei passi, verso il centro.








Nella piazza principale scopro che ci sono non uno, ma ben due eventi stasera. Il primo è un concerto di un gruppo di chitarre e voci, che propongono pezzi tradizionali della regione. Il secondo è uno spettacolo di danze tipiche, ma questa volta non ci sono solo le sciure del centro anziani, ma anche bimbi e ragazzi acchittati di tutto punto con gli abiti della festa. Ovviamente mi fermo a godermi lo spettacolo fino a che non fa completamente buio. Mi sorprende assistere a una tale esuberanza di proposte culturali ce riguardano la tradizione locale, seppur di piazza. Non mi è chiaro se si tratti di orgoglioso campanilismo da orizzonti un po' ristretti o genuina fierezza nel mantenere viva una propria identità, in questo modo sempre più globalizzato e che qui guarda di continuo all'ingombrante vicino a stelle e strisce. Se globalizzazione significasse maggiore complessità, non ci sarebbe problema. Ma purtroppo significa appiattimento e semplificazione. Quindi assisto a queste danze, e mi chiedo con quale spirito siano affrontate e proposte, ricordate dagli anziani e trasmesse ai bimbi. Mi stupisce anche come le ragazzine e i ragazzini siano messi in condizioni di imparare da piccolissimi certe "cose da grandi" come il corteggiamento e le sue arti. Ceto è che qui, tra concerto e danze, non ci si annoia, anzi, tutto accade insieme con un certo grado di confusione, perchè una musica copre l'altra. Ma il Messico mi sa che è anche questo. Il pubblico è composto da turisti solo in minima parte: i più sono genitori e parenti orgogliosi che filmano i propri pargoli alla ribalta. Nella folla che applaude si fanno largo le venditrici ambulanti, che, essendo ormai sera, trascinano i piedi dopo una giornata a camminare cariche di amache, camicette e tessuti ricamati. Spesso si portano dietro anche i figli, che imparano il mestiere. E così si vedono gli esseri umani di serie A, famiglie che danzano e passano del buon tempo, e gli esseri umani di serie B, famiglie che tirano a campare spaccandosi la schiena per due spicci. Li divide la linea del palco, i primi sotto alla luce, i secondi in ombra.























Quando è ormai sera lascio, a malincuore, la piazza, quel cuore pulsante di vita e colori e musica, per tornare alla camera. Intanto faccio spesa al mercato, in modo da aver la cena già assicurata. Stasera si va di pasta con tonno e verdure, e, soprattutto, mezza anguria gigante e succosa. L'anguria è una delle forme che la felicità assume.

Nel tragitto trovo la città quasi deserta, perchè nel centro ci son solo negozi o uffici, ma non case. Anche il mercato tace, per lo più, ed è un labirinto cupo di roba accatastata al buio, tra sgocciolii e scalpiccio di ratti, in un odore dolciastro e nauseabondo.
Però non ho la sensazione di pericolo e mi sento sufficientemente al sicuro. Anche il nostro host ha detto che Campeche è una città assolutamente tranquilla... E non mi pare un cuor di leone, lui. In onestà finora, qui in Messico, la sensazione è sempre stata questa. Non ci sono stati momenti di disagio tale da temere per la nostra sicurezza. Anzi. Vero è che, finora, siamo passati in zone abbastanza turistiche, dove più dove meno. Ne riparleremo più avanti, in Chiapas, Oaxaca e Città del Messico. L'attenzione resta sempre alta, in ogni caso.




8/7
Campeche-Edznà con mezzo + Edznà-Dzibalchén in bici
50km+76km

La notte trascorre inquieta e fatico a dormire. Appena prendo sonno, suona la sveglia. Oggi sarà dura pedalare senza aver riposato. Mi consolo con i biscotti Conquistador, che fanno il paio con il Mexquick (Nesquick messicano) marca Carlo V. Ovviamente questi biscotti sono bianchi, fuori e dentro. Sarà una forma silente di vendetta, una rivincita? Mo me te pappo in un solo boccone, conquistador! 


Alle 8 in punto siamo caricati sul pick up, mentre l'host, Jorge, ci saluta con la manona. Starà pensando che è facile viaggiare in bici così, senza pedalare. Ma giuro, Jorge, è un'eccezione e costa più fatica organizzare questo genere di trasferimento che non pedalare e basta!

Facciamo un po' di chiacchiere con l'autista, che ci chiede del viaggio e risponde alle nostre domande sul meteo e sulla qualità delle strade.
Nel giro di un'oretta siamo a Edznà, e veniamo scaricati insieme alle bici nel parcheggio antistante il sito archeologico. Ci sono pochissimi altri visitatori. tedeschi e francesi attempati, e il clima è fresco ancora. Ci tuffiamo nel mezzo delle rovine, che si trovano immerse nella vegetazione lussureggiante, tra voli di merli blu e corse buffe di iguane enormi.




Questa città, che un tempo si estendeva su una superficie di oltre 17kmq, fu costruita da una società altamente stratificata, che fiorì qui dal 600 a.C. al XV secolo d.C. (perchè la città fu poi abbandonata resta un mistero). In questo lungo arco di tempo, la popolazione edificò ben 20 complessi in diversi stili architettonici, con tanto di ingegnosa rete per la raccolta delle acque, che qui sono stagnanti nella stagione delle piogge, e l'irrigazione. La maggior parte delle rovine visibili risalgono a un periodo compreso tra 550 e 810 d.C. Il sito, dimenticato e inghiottito dalla foresta, è stato riscoperto per caso nel 196 da alcuni contadini.

Edznà significa "casa degli Itzàe" (gli stessi di Chichén Itza), in riferimento al clan di origine chontal maya che la dominò. I governanti registrarono tutti gli eventi significativi su stele di pietra, 30 delle quali ritrovate.




Dalla biglietteria parte un sentiero di mezzo kilometro che porta alla piattaforma dei coltelli, un sacbé e la plaza principal. Si tratta di un imponente spazio pubblico di 160x100m circondato da templi. Quello più maestoso è la Gran Acropolis, piattaforma rialzata con, sopra, diversi edifici, tra cui il tempio più importante, in stile puuc. Si tratta della quarta ricostruzione.










A breve distanza si trova il pezzo forte del sito: il templo de los mascarones. Questa struttura conserva due maschere in stucco colorato con le fattezze della divinità del sole che sorge, sul lato orientale, e che tramonta, su quello occidentale. I volti hanno mutilazioni dentali, accentuato strabismo e grandi orecchini, tutte caratteristiche associate all'aristocrazia e, in generale, simboli di bellezza per i maya (non starò a commentare i canoni estetici e la loro mutevolezza, nello spazio e nel tempo. 










Altro edificio notevole è la Nohochnà, la grande casa, dove si raccoglievano i tributi e si amministrava la giustizia. Mi colpisce che su molti cartelli esplicativi sia specificato che qui lavorano rifugiati guatemaltechi.





Finita la visita torniamo fuori dove abbiamo lasciato le bici. Il tempo di riempire le borracce e siamo pronti a pedalare. Ci attendono solo 76km su strade secondarie, ma il vento è teso e si preannuncia una tappa comunque tosta. Per fortuna l'autista, prima, sconvolto dalle nostre imprese cicloavventurose, ci ha regalato dei sacchettini di riccioli di mais fritti ed enchilladi, tipici della regione.



Iniziamo a spingere sui pedali ma il vento ci rallenta. Non superiamo i 15km/h, ma nemmeno nei momenti più felici. In più la strada inizia a essere abbastanza scassata, con buche profonde e mucchi di sabbia. Qui non è certo zona per turisti. Passiamo per una serie sempre più rada di pueblos a vocazione agricola e pastorale, ma senza le aziende ben organizzate dei giorni scorsi. Qui parliamo di orticelli secchi e quattro capre che pascolano nei giardinetti pubblici. Passiamo da Alfredo V. Bonfil, Pich, San Luciano e numerosi ranch.






Improvvisamente il cielo, già velato, si imbroncia e diventa cupo. Si sentono i primi tuoni e, in lontananza, ma nemmeno troppo, di distinguono colonne di pioggia come cortine spesse. Sta arrivando anche oggi il diluvio. Ci affrettiamo a raggiungere il paesino di Los Laureles, e quando arriviamo siamo già abbastanza zuppi. Nel pueblo, inaspettatamente, troviamo l'iradiddio di gente, casino, tendoni e venditori. Tutti al riparo dalla pioggia, ognuno dove ha trovato. Ma è palese che ci sia in corso qualcosa  





Chiedo a delle venditrici ambulanti di pannocchie bollite e tamales, con le quali mi sono rifugiata sotto a un gazebo (loro hanno i tricicloni, io la bici carica, mi sembrava il posto adatto). Mi spiegano che i rappresentanti del governo sono qui oggi a proporre programmi di vario tipo, dalla scuola al lavoro alla sanità, e ad ascoltare la popolazione, per capire quali siano le necessità della gente. E in effetti c'è un dispiegamento di polizia che finora non avevo mai visto, e un'intera strada occupata da camion e caravan brandizzati "Gobierno de todos" (ieri ho sentito una coppia che commentava questo slogan dicendo che il problema è proprio questo, è un governo di tutti tutti, anche chi sarebbe meglio di no). Ci sono gruppi di persone vestiti con maglie uguali, e tendoni sotto cui si tengono discorsi o si fanno vaccinazioni (già che ci siamo). 







In breve si sparge la voce che sono arrivati dos turistas e veniamo attorniati da un capannello di gente che vuole foto e selfie. Una signora di racconta che sua figlia vive in Francia e lei ha visitato l'Europa e anche l'Italia. Un tizio ci fa foto a raffica, e probabilmente finiremo sul giornale locale. Un altro signore, che chiama Gigi jefe (capo) ci chiede di dire qualcosa mentre ci fa un video; ci suggerisce di dire che Laureles è un posto molto bello e che attira persino il turismo. E chi siamo noi per negare? Insomma, per qualche manciata di minuti siamo l'attrazione principale della festa. Poi riusciamo a districarci e a raggiungere un angolino tranquillo per riposare un po' e asciugarci. Io da qualche ora non sto benissimo e ho una forte nausea. Temo il peggio, che per fortuna non si avvera, ma ho bisogno di sedermi un attimo a riprendermi. Nel giro di poco il sole, che era tornato a far capolino dopo il temporale, sparisce di nuovo. La luce si fa grigia, livida. Tuoni, fulmini, un vento pazzesco e via, altra ondata di tempesta, stavolta così violenta da far paura davvero. Restiamo al riparo sotto alla tettoia del negozietto dove abbiamo comprato qualcosa da bere e da mangiare, e in breve tanti fanno lo stesso. Ci troviamo accalcati tra polizia, studenti appena usciti da scuola (che approfittano del caos per rubacchiare qualche caramella nel negozio -li sgamo in pieno, ma non sono una sicofante), contadini armati di machete lunghi un metro e gente di ogni tipo, età e condizione.



Finalmente, dopo un tempo eterno, la furia del maltempo concede tregua. Torniamo in sella che ancora piovicchia, ma presto smette. La strada, sempre più piccola e meno battuta, ci porta a pedalare in mezzo a campi coltivati (soprattutto a zucche... Ma quante! Kilometri e kilometri di zucche) e zone di selva. Vediamo tantissime varietà di rettili (simil lucertole, ma grandi e colorate) e persino un armadillo e una tartarughina. Entrambi spiaccicati, ma tant'è. A volte la campagna cede il passo alla selva incolta, che brulica di frulli d'ali e richiami d'uccelli che non so.





Il tempo resta fresco anche quando torna il sole, che è pieno ma più basso e dolce. Qui alle 18.30 tramonta, e siccome oggi siamo un po' in ritardo rispetto al solito, vediamo le ombre farsi lunghe nella luce obliqua. Si aprono squarci di terra dissodata, rossa rossa come ne abbiamo vista anche negli States. Sembra ricordare quanta violenza si è abbattuta, nei secoli, su questi luoghi, che sono imbevuti del sangue di generazioni intere. Certo, il contrasto tra rosso e azzurro del cielo crea un'opera d'arte tale che pare di pedalare in un quadro.






Dopo drittoni infiniti che bucano l'orizzonte e tagliano in due la foresta, dopo innumerevoli salitine e altrettanto innumerevoli discesine, arriviamo a destinazione a Dzibalchén. Si tratta di un paesino ino ino, con un solo albergo, che fa pure da ristorante e bar (gli unici, ovviamente). Di fondazione maya (intorno ci sono diversi siti archeologici minori), è stato teatro di violenti scontri durante la guerra delle caste, per cui la popolazione si rifugiava nelle grotte della zona; nel XIX secolo qui c'era un'azienda che lavorava la gomma, e da questo nucleo è poi nato il paese. Noi prendiamo una bella cameretta  e ci riposiamo un po', prima di cena. La struttura è decorata in stile mezzo Fantabosco ma tropicale, e mezzo safari tra tucani di plastica e pappagalli in terracotta dipinta.




Per cena ci limitiamo a scendere al pian terreno. Il ristorante è pieno di mennoniti, famiglie con tanti figli o ragazzi in compagnia di amici. I primi mangiano, i secondi bevono e basta. A quanto pare, l'educazione mennonita prevede largo uso di schiaffoni e violenza in generale, perchè questi poveri bimbi le prendono di santa ragione per ogni nonnulla. Io sospendo il giudizio, anche se per me è tutto abbastanza limpido. Ci dedichiamo al cibo, che è meglio. Gigi ordina una milaneza de pollo, che sarebbe la cotoletta impanata, mentre io resto su fajitas, sempre di pollo. Rinunciamo ai vari succhi di frutta, sicuramente buonissimi, perchè artigianiali e fatti con eau de rubinette.





Nel frattempo ho ricevuto un messaggio da Visit Calakmul, l'agenzia che coordina le comunità locali, e purtroppo domani non potremo essere ospiti presso la comunità di Union 20 de Junio (non si sa perchè, il messaggio è laconico qb). Quindi dobbiamo pupparci il tappone, il talpone, il pappone. 134km di collinette malefiche. In mezzo, poco e nulla. Sarà meglio riposare e puntare presto la sveglia.


9/7
Dzibalchén-Zoh laguna
134km

Quella di oggi è stata una tappa lunga e faticosa, ma incredibile per la natura con cui siamo entrati in contatto.
Faccio l'elenco dei fattori negativi, che d'ora in poi chiameremo genericamente "cose di merda": vento contrario, teso, tutto il giorno; alternanza di caldissimo e uragani devastanti; salitelle infinite, tagliagambe, capaci di far perdere fiato, ritmo e testa anche a Sisifo; strada spesso malconcia, tutta buche e asfalto esploso, muy peligroso; un totale di 4 paesi sull'intero percorso, di cui due soltanto con la possibilità di prendere acqua; in quei pochi paesi, cani incazzosi spesso lanciati all'inseguimento dei nostri polpaccetti indifesi.
Quindi, perchè? Che senso ha pedalare questo tratto di strada? Semplice: perchè si attraversa la riserva della biosfera di Calakmul, uno dei luoghi con la maggior varietà di fauna e flora di tutto il paese. Qui vivono 5 dei 6 grandi felini del Messico (su tutti: puma, giaguaro, ocelot), centinaia di specie di uccelli, di rettili (anche coccodritti), di insetti e mammiferi di ogni tipo, tra cui le scimmie urlatrici), tapiri e una colonia con 5 milioni di pipistrelli. Oggi abbiamo visto attraversarci la strada dei tayra (che è? Guarda qui), grigioni maggiori (e daje, che roba è? Qui lo scopri) e urocioni comuni, che altro non sono che piccole volpi carinissime. E poi avvoltoi, stormi di pappagallini verdi vocianti, farfalle di ogni colore, forma e dimensione... Insomma, una meraviglia incredibile.
Certo è costata fatica. Ma è un prezzo più che onesto da pagare per immergersi in tanta bellezza.

Torniamo a stamattina.
Ci alziamo presto, mangiamo due tortillas con miele in camera e siamo subito in sella. Prima di lasciare il paese facciamo una scorta d'acqua nell'unico posto aperto di domenica mattina, un supermercatino cadente in piazza. Il commesso si incuriosisce vedendoci, e mi fa mille domande sul viaggio, sulle bici, sull'Italia. Gigi, che aspetta fuori, pensa che mi abbiano rapita. Con uno sguardo salutiamo la piazza, ancora addormentata, baciata piano dalla luce del primo sole.





Poi via, siamo sulla strada. Già dai primi kilometri capiamo che la giornata sarà impegnativa: il vento ci frena e ci costringe a una fatica sfibrante, continua. La salitelle non tardano a comparire. Dopo una ventina di km internet e la rete telefonica spariscono (qui sono coperti solo i paesi più grandi) -torneranno solo a fine giornata. I campi e le terre rosse dissodate lasciano presto il posto alla selva che, via via, si fa più fitta e lussureggiante, debordante, fino a invadere la strada e quasi riprendersela. La strada corre perfettamente dritta, senza curve, per oltre 100km. 








Dopo una prima tirata di 50km, che ci ha già prosciugati, ci fermiamo nell'unico baracchino dell'unico pueblo, Ucum e Xmaben. Si tratta di un'isola felice: microbaretto, ristorantino, negozio di vestiti e officina meccanica, tutto con bagno (che è quello della casa dove vive la proprietaria) e posti a sedere all'ombra di palme da cocco. Le svaligiamo il frigo delle bevande. Mi fa ridere che tenga i soldi della cassa in un padellino che resta poi in bella vista in cima al frigorifero. Lei se ne accorge e ride con me: vanno tenuti nascosti, dice ghignando.






Ripartiamo verso sud per altri 40km. Incrociamo l'abitato di X-Canah, che conta una decina di anime, altrettanti polli e tacchini, un paio di maiali, un cavallo e un'arena da rodeo.



Via dentro la selva, che sembra richiudersi intorni e sopra di noi. Purtroppo ogni pueblo ha la sua discarica a cielo aperto lungo la strada, e qui, se pure i villaggi son pochi, ben si notano i basureri... Perchè sono pieni di carcasse piò o meno decomposte di mucche e cavalli, interi.





Nonostante tutto è proprio qui che cominciamo a vedere gli animali tipici della riserva, che ci attraversano la strada senza fretta, spesso si fermano a guardarci e poi, come fossero vapore di linfa, spariscono nella vegetazione. Tutt'intorno è un continuo frusciare di rami e foglie, un continuo frullare d'ali e i canti e i gridi degli uccelli si sovrappongono con gran baccano. Gli avvoltoi scendono in picchiata sulla strada a papparsi serpenti e rospi giganti stiacciato dalle auto. Ma quali auto? Le pochissime che passano, stracariche di gente anche nei cassoni, oltre a una manciata di moto tutte scassate, che potano tre, quatto persone, e nessuna con il casco.

Al km90 raggiungiamo la seconda sosta pevista, Bel-ha. E' un pueblo micro, con più bestie da cortile che umani. Diventiamo presto l'attrazione principale del paese, ma sono tutti cortesi e facciamo due chiacchiere volentieri proprio davanti all'unico negozietto (che vende anche la benzina stoccata in bottiglie da litro di Gatorade).








Mentre chiacchieriamo, il cielo si incupisce come sempre. Chac è puntuale anche oggi. Tuoni, fulmini, 3, 2, 1 e giù il diluvio. Ce lo prendiamo tutto, a secchiate larghe, boccheggiando sulle salite perchè piove così forte che l'acqua entra nel naso e in bocca insieme all'aria.




Procediamo così, nuotando, risalendo a fatica la corrente come salmoni. Animali e piante della riserva sono in festa e gioiscono di questa benedizione che cala dal cielo e fa grassa la terra. Noi un po'meno... Più che altro perchè siamo stanchi e ogni piccolo inconveniente si aggiunge alla fatica di gambe già sfibrate e testa bollita. Gli ultimi 30km non passano mai. Guardo il ciclocomputer di continuo, e sembra fermo. Il paesaggio intorno pure, corridoio nel verde. I muscoli sono sfilacciati. Ci fermiamo un momento sotto alla tettoia della fermata del bus (che qui da anni non passa, comunque) di Nueva vida halatun.


Ripartiamo per l'ultima tirata. Contiamo i km uno ad uno come grani di rosario. Io ormai proseguo più per rabbia e cattiveria che per volontà di proseguire. Davvero non ce la facciamo più, tra salite, vento e ingiurie meteorologiche. Poi il telefono inizia a impazzire di notifiche: è tornato internet. Il paese è vicino.
E infatti eccoci a Zoh Laguna, dove facciamo il giro dei tre cantoni prima di trovare una struttura che ci ospiti. In una, addirittura, non ci rispondono perchè è in corso la Messa e tutti i dipendenti stanno partecipando.




la chiesa

Alla fine troviamo una camera a El viajero. Costa poco, è piena di insetti enormi e ci piace assai.




Per cena dobbiamo riattraversare il micropaese, tra polli appolliati sugli alberi e pappagallini che cantano, tra cani randagi e ragazzi al parco che giocano a calcio e fumano erba. L'unico ristorante aperto è questa palapa agghindata a festa, con pochi avventori e un servizio ben lento. Fanno per lo più cucina italiana (e Gigi osa una pizza, errando: la pasta è una grande grande tortilla alta un millimetro). Io sto su pollo e patate con salsine deliziose, al mango, al peperoncino, ai funghi. Buonissimo! Durante la cena tutto il pueblo cade più volte nel buio più nero a causa di reiterati black out. Va via anche la connessione internet, ma si vede una stellata pazzesca.




Torniamo quindi in camera, in un'aria quasi fresca, e, dopo aver sfrattato ragni, cavallette e altri coinquilini ingombranti, ci concediamo una vera mexporcheria, i biscotti con marshmellows comprati per via. Sono eccellenti!


Domani scenderemo a Xpujil e ci avvicineremo al sito archeologico di Calakmul, e quelli intorno. Se troviamo le giuste coincidenze, potremmo visitarlo già domani in giornata. Altrimenti rimanderemo al giorno successivo. E' lui il grande protagonista di questa sezione del viaggio. E' per lui che ci siamo spinti fin qui, nel cuore della selva, fin quasi al confine con il Guatemala.

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