mercoledì 19 luglio 2023

25-27. Universo Chiapas. Zapatisti, indigeni, sacrifici di sangue in chiesa e... coccodrilli!











16/7
Palenque-San Cristobal de las Casas

Questa foto è stata scattata mezzora prima della partenza al terminal dei bus di Palenque, mentre attendevamo con trepidazione indicazioni sull'eventuale necessità di smontare (tanto o poco) le bici e pagare (tanto o poco) una propina all'autista, el jefe.


Quest'altra foto, invece, è stata scattata circa 10 ore dopo, al nostro sbarco in quel di San Cristobal, dopo una notte a dir poco rocambolesca. L'idea dell'autobus notturno presenta dei vantaggi: non si spreca tempo, si risparmia una notte d'albergo, si dorme comunque. E' tutto vero, tranne l'ultima affermazione.


Di buono c'è che non abbiamo minimamente dovuto smontare le bici. Le abbiamo caricate noi, con le dovute cure, e le abbiamo anche legate, insieme alle borse rimaste nella stiva, con la mia catena lunga. Erano impossibili da rubare, se non facendo un grandissimo casino. Una volta imbarcati, ci siamo comodamente alloggiati nei nostri posti, in fondo, salvo poi allargarci perchè il bus era mezzo vuoto. Io ho preso una Tachipirina perchè ieri sera bruciavo di febbre e stavo veramente malino, con il raffreddore prepotente e quel malditutto che prende la testa, la schiena, le ossa e i muscoli. Dopo una prima sudata, ero pronta a ronfare bellamente, senonchè dentro al bus l'aria condizionata era sparata al massimo, e ci saranno stati 10 gradi sì e no. Quindi, dopo un po' di appisolamento più simile al coma di ipotermia, mi son convinta a recuperare i vestiti pesanti, compresi cappello di lana e piumino, smontando la roccaforte costruita per evitare furti a bordo che, a quanto pare, sono abbastanza diffusi (per quanto io ho avuto tutt'altra impressione... Gli altri passeggeri erano o turisti o famiglie benestanti -altrimenti mica viaggerebbero sugli autobus primera clase...). Risolto il problema del freddo, si è presentato quello dei controlli. Avendo fatto una strada lunga e tortuosa, via Villahermosa e Tuxtla, siamo stati fermati un numero indefinito di volte ai posti di blocco. Sempre saliva una guardia con la torcia, chiedeva il passaporto, cercava il timbro dell'ingresso regolare nel paese e in alcuni casi scattava una foto al passeggero con in mano il passaporto aperto. Il tutto svegliandoci all'improvviso e trovandoci rincoglioniti e quasi incapaci di intendere e di volere. Mamma mia, che ansia! Ogni volta ci voleva un po' per capire se fosse un assalto dei bandidos o un controllo di rito. In ogni caso, vuoi per la febbrina, vuoi per la stanchezza, io sono riuscita a dormire abbastanza, e il viaggio non è parso lungo.

Arrivati al terminal ADO di San Cristobal, ci è voluto un po' prima di riuscire a rimontare tutto, e a connettere i neuroni, impostare la strada per l'ostello e districarsi tra le molte, incuriosite, domande dell'autista e degli addetti ai bagagli. Già nel kilometro e mezzo che ci separa dall'ostello percepiamo l'atmosfera nuova di questa città magica. Innanzitutto, fa fresco. Siamo a 2200m e la caldazza che ci ha oppressi fino a poche ore fa si è completamente dissolta. Questo sbalzo termico di una ventina di gradi ci rimbabisce ulteriormente. Abbiamo freddo, poi caldino, poi freddissimo. Ma ci abitueremo, e sicuramente le temperature qui sono più umane. Poi, la città ci appare pulita, tranquilla, quasi deserta ancora, in queste prima ore di una domenica mattina. Ci sono case e negozi colorati, cani acciambellati al sole e pochissime auto. Le persone a piedi, molte della quali vestite con abiti tzotzil e tzeltal, ci salutano. Insomma, il primo impatto è più che ottimo!


Anche l'ostello (Planet Hostel, su Booking, 10 euro a notte per la camera privata) si presenta subito benissimo. Innanzitutto davvero facciamo check-in alle 8 del mattino e abbiamo la stanza già dal mattino, cosa mai vista. In secondo luogo, la struttura è fantastica: ha sia camerate sia stanze private con bagno, e spazi comuni curati in ogni dettaglio, dai salottini alla cucina, dalla common room con il caminetto (che sì, la sera fa piacere) e i giochi da tavolo, al terrazzo. C'è anche un servizio di lavanderia di cui ci serviremo sicuramente. Il personale è gentilissimo e simpatico, molto giovane, come la gran parte degli ospiti. E' un posto un po' fricchettone, ma capiremo a breve che questo mood alternativo è una delle tante anime di San Cristobal. Dopo il giro della struttura, ci stendiamo un attimo. L'attimo dura 4 ore.










A mezzogiorno, dopo aver goduto delle calde coperte multistrato che ricordano tanto quelle peruane, ci par bene uscire ad esplorare questa meravigliosa città. Già dopo un giorno posso dire che, finora, è il luogo del Messico che più mi ha incantata. Oltretutto siamo nella settimana di festa patronale, ed oggi c'è il mondo per le vie e nelle piazze, musica ovunque e fuochi d'artificio dal mattino a notte. Ma andiamo con ordine. Usciamo un po' storditi (io sono tutt'altro che in forma e ho ancora febbre), spinti più dal desiderio di vedere cosa ci sia fuori che non dalla effettiva forza di deambulare. So, comunque, che il centro è piuttosto piccolo e compatto e la visita delle principali zone non richiede grandi risorse. 





Subito notiamo una grande differenza rispetto alle altre città finora visitate: è molto più turistica, ma senza quegli eccessi in stile Cancun. Ci sono locali, strade pedonali, ristorantini, negozi di ogni genere. Il filo conduttore, come dicevo, è quello un po' dell'alternativo, del bohemien, dell'artista giramondo. Questo si legge nell'estetica degli esercizi commerciali, in ciò che propongono (è tutto bio, tutto organico, tutto spirituale, meditativo, natural, eco, olistico, equo ecc, ci siam capiti), ma pure nella gente che si vede per strada. Oltre ai nativi, di cui parlo tra un momento, ci sono tanti volti che di indigeno non hanno nulla, ma vivono qui, vendono cose per strada, o propongono la loro arte, che siano quadri, foto o musica. Ed è incredibile come questa vena un po' radical chic, un po' hippie, un po' anarchica, si fonda senza grossi problemi con l'altra grande componente, quella indigena. Qui a San Cristobal sono quasi tutti di etnia tzotzil e tzeltal, e si riconoscono per i loro abiti finemente ricamati e dal significato simbolico molto preciso, che indica il villaggio di provenienza e lo status sociale. Sono cristiani, ma nella loro fede sono rimasti elementi preispanici (ne avremo misura domani, visitando San Juan Chamula, dove nella chiesa si sgozzano polli e si fanno riti a base di Coca Cola e pox -bevanda alcolica- per ruttare fuori gli spiriti maligni).



Queste persone hanno cominciato a trasferirsi dai villaggi a San Cristobal a partire dagli anni '70, quando il turismo ha iniziato a fiorire. I più vivono nel cosiddetto Cinturon de Miseria, colonie improvvisate, prive di servizi e afflitte da povertà e violenza, dove corre la circonvallazione cittadina. Non solo si sono trasferiti qui sperando di guadagnare qualcosa dal turismo, ma anche perchè molti sono stati espulsi dai villaggi, come Chamula, in seguito a conflitti interni politico-religiosi. Ora li si vede, dai bimbi agli anziani, donne e uomini, percorrere le strade centrali di San Cristobal cercando di vendere qualcosa. In primis tessuti ricamati, abiti, cinture, peluches e pupazzetti di stoffa. Poi cibo: panini, dolcetti, frutta, popocorn e chapulines, le piccole cavallette essiccate e condite con peperoncino, che vendono vendute in grossi secchi. Oppure ancora statuette di animali, spesso fatte con materiale di recupero e tanta fantasia, collanine, gocce d'ambra, che in Chiapas non manca, e incenso. Alcuni sono ambulanti, altri hanno un banchetto nei molteplici mercati.

Prima di tutto, dopo aver percorso qualche via pedonale, ci buttiamo in una delle molte caffetterie e cioccolaterie che propongono prodotti regionali, per svegliarci un po' e tornare al mondo. 



Poi inizia la visita, a partire dalla piazza centrale, plaza 31 de marzo. Lustrascarpe, ambulantes e localini animano questo luogo, su cui si affaccia un edificio costruito da Diego de Mazariegos, conquistador spagnolo del Chiapas, oggi hotel. Tutt'intorno succedono cose: un concerto, un comizio politico, un'insieme di microrappresentazioni di strada per raccattare qualche monetina.






chapulines, le cavallette al peperoncino


Su un lato della piazza si affaccia anche la cattedrale, iniziata nel 1528 e terminata solo nel 1815 a causa dei numerosi terremoti che, nei secoli, hanno colpito la zona. L'ultimo, abbastanza disastroso, si è verificato nel 2017.





Seguendo la folla, ci tuffiamo in un'altra via pedonale, strabordante di gente e di venditori di qualsiasi cosa, che esplode di colori, profumi, volti diversi. Io potrei stare qui ore ad assistere a questo spettacolo di umanità.


ragazzini chamula, di etnia tzotzil, con la tradizionale tunica di lana bianca



Prima di raggiungere la nostra prossima meta, l'ex convento di san Domenico, troviamo riparo da un improvviso acquazzone in un mercato, che non è coperto, ma i banchi sono così vicini che la copertura in plastica di uno si sovrappone a quella dell'altro, creando un ambiente riparato. Anche qui la fan da padroni i ricami e l'ambra.




Troviamo, nella babele di bancarelle, l'ingresso alla chiesa di San Domenico, con la sua facciata barocca, purtroppo coperta da impalcature, e gli stucchi del XVII secolo con l'aquila bicipite degli Asburgo, all'epoca stemma della monarchia spagnola. Gli interni sono barocchissimi e doratissimi. Ma noi veniamo attratti soprattutto dalla funzione in corso, che sta finendo. I fedeli applaudono e fischiano alle parole del celebrante, e poi, alla fine della Messa, si recano in massa ad abbracciarlo e farsi benedire. Il coro, intanto, intona melodie festose. Molti restano in ginocchio davanti all'altare, qualcuno piange.










A proposito di chiese domenicane... I più accorti si saranno accorti che il nome di questa città, San Cristobal de Las Casas, ha una somiglianza non casuale con quello del famoso frate domenicano, Bartolomé de Las Casas, che fu uno dei pochi eminenti difensori delle popolazioni indigene (di solito citato nei libri di storia, anche delle scuole medie, tra i documenti di lettura). La città fu fondata nel 1528 da Diego Mazariegos. I suoi concittadini fecero fortuna con la coltivazione del grano, mentre i nativi persero le loro terre e si trovarono a far fronte ad epidemie, tasse e lavoro forzato. Nel caso del Chiapas, la Chiesa tentò di difenderli. I domenicani giunsero qui nel 1545 e il Bartolomé sopra citato fu nominato vescovo del Chiapas, diventando, in epoca coloniale, strenuo difensore dei diritti dei popoli indigeni.  Le sue orme sono state seguite, in tempi più recenti, dal vescovo Ruiz, scomparso nel 2011. Le sue battaglie a favore dei nativi gli hanno attirato le antipatie della classe dirigente chiapaneca. 

Prima di dedicarci ai musei ci perdiamo ancora un po' tra i labirintici mercati, che sono il vero cuore di questa città. Esplode un altro temporale, e anche stavolta troviamo rifugio tra bancarelle e sguardi incuriositi dei venditori, che si chiedono se i gringos (perchè sì, siamo etichettati come tali) si bagnino sotto la pioggia come loro.







statue de la santa muerte, culto esoterico vietato in Messico e non riconosciuto da nessuna chiesa. I suoi fedeli, spesso malavitosi o narcos, hanno una visione quasi francescana da sorella morte. Se è stata creata da Dio, non può essere un male.








Appena spiove, ci rechiamo ai due musei che si trovano nell'ex convento domenicano, quello de Los Altos de Chiapas, che mostra alcuni interessanti reperti archeologici e oggetti della vita quotidiana e tradizionale, e quello dei tessuti. Si è capito che l'arte della tessitura, spesso svolta con il telaio a cintura, è importante? Bene, perchè qui nel museo viene spiegato quanto sia fondamentale, parte della cultura e dell'economia da secoli. Accanto al museo c'è un negozio, Sna Jolobil (casa delle tessitrici) che riunisce 800 tessitrici del Chiapas fin dagli anni '70 e permette loro di vendere le loro opere, che vanno da pochi a migliaia di dollari, per gli huipiles, le tuniche ricamate che richiedono mesi di lavoro.




maschere rituali degli antenati, portate in processione in epoca preispanica









Dopo esserci saziati di notizie sulle culture tradizionali del luogo, torniamo per le strade a caccia di informazioni per il progetto che ho in mente per domani. Vorrei visitare Oventic, un baluardo zapatista arroccato tra i monti alle spalle di San Cristobal. So come arrivarci, ma voglio sincerarmi del fatto che la situazione sia tranquilla e la cosa sia fattibile. Allora individuo due locali in centro che vendono prodotti delle comunità zapatiste: un ristorante e bar sede frequentato da indigeni e politici progressisti, un negozio di artigianato. In entrambi chiedo e in entrambi i casi mi viene detto che si può andare senza problemi, purchè presto e portando con sè il passaporto. Ma questo già lo sapevo. Quindi domani si va a Oventic!



femministe in protesta. Altre donne scomparse, nel silenzio connivente delle autorità




Poichè a San Cristobal non manca nulla, non ci perdiamo la fiera del fungo. anzi, il festival de los hongos. Non si tratta di funghi per farci il risotto, se non in minima parte. Ci sono tatuatori, artisti, persone vestite da fungo, artigiani che vendono gioielli e stampe a tema fungo, e un generale clima ilare che vi lascio immaginare. Insomma, funghi allucinogeni.




La nostra passeggiata ci porta infine verso chiesa ed arco del Carmen, che un tempo era la porta di ingresso alla città. Intorno non mancano i soliti coloratissimi mercatini, mentre dentro alla chiesa sono stati sparsi aghi di pino, usanza tipica dei chamula.















Torniamo in ostello, dove ammiro i miei acquisti per finanziare l'EZLN,


riposiamo un po' e usciamo di nuovo per cena. Troviamo un ristorantino delizioso, che propone solo cibo locale, no bottiglie di plastica e tanta buona musica in sottofondo. Torneremo sicuramente anche domani, dopo esser stati a Oventic dagli zapatisti e a San Juan Chamula, presso uno dei più noti e incredibili pueblos indigeni, dove sincretismo è la parola d'ordine.





17/7
anello San Cristobal de las Casas - Oventic - San Juan Chamula - Zinacantan - San Cris

Non ho ancora elaborato la quantità di informazioni, sensazioni, emozioni, e altre parole importanti in -zioni vissute oggi. Scrivere spero mi aiuti a far ordine nel caos di particelle impazzite, frammenti di cose viste, parole ascoltate, profumi e brandelli di luce, gocce di cera, volute d'incenso che arde, sangue anche, e parecchio, mischiato al posh che ubriaca e alla CocaCola. Cerco di far ordine e raccontare tutto dall'inizio.

Questa mattina, dopo una buona colazione in ostello, siamo usciti presto con un obiettivo preciso in mente (chiaro da mesi, per me): visitare un pueblo zapatista, Oventic. Non è una meta turistica, e non ci sono tour, terminal di autobus o itinerari in chiaro per raggiungere questo villaggio. Quindi bisogna un po' arrangiarsi e affidarsi alla gente. Sappiamo che intorno al mercato vecchio partono dei combis, o taxi collettivi, che salgono fin lassù tra le montagne. Bisogna cercare. D'altronde uno dei motti degli zapatisti è proprio "camminare domandando". E noi così facciamo. Attraversiamo la parte nord di San Cristobal e superiamo il mercato, che è già un delirio di viavai di anime e merci. Poi troviamo alcuni autisti di colectivos e chiediamo. Qualcuno fa finta di non capire, qualcuno ci gira le spalle, ma altri ci indirizzano e, alla fine, troviamo il passaggio. Ci viene chiesto più volte dall'autista se vogliamo andare davvero a Oventic. Sì. Ok, la corsa (di un'ora, costa 3 euro.






L'auto è piena. Davanti a noi ci sono una signora e un ragazzo che parlano spagnolo. Sono due insegnanti e discutono di esami e corsi, perchè qui la scuola non è mica finita, ancora! L'autista e la persona seduta accanto, invece, chiacchierano in lingua tzotzil, che suona veramente, ma veramente particolare. Ce ne accorgeremo durante tutta la giornata, perchè nei villaggi la gente non parla spagnolo, se non come seconda lingua, e se si è andati a scuola. Ci arrampichiamo su strade sempre meno trafficate, e in breve la città cede il passo a boschi scoscesi e campi di mais a strapiombo, tra picchi e valloni ammantati di verde scuro. I pueblos interrompono questa distesa di foglie e radici. Iniziano a vedersi quasi solo persone vestite in abiti tradizionali: gli uomini con tuniche bianche o rosa, le donne con camicie ricamate a fiori, scialli viola e lunghe gonne nere di stoffa o di lana di pecora grezza. Anche i bambini sono abbigliati così. La città è vicina, e lontana. Compaiono anche le prime stelle rosse: stiamo entrando in territorio zapatista.







Dopo una lunga corsa, eccoci finalmente a Oventic. Ora non è questa la sede per ricapitolare tutta la storia del cosiddetto neozapatismo e dell'EZLN (Esercito zapatista di liberazione nazionale). Do solo due linee generali: correva l'anno 1994, era il primo di gennaio. Mentre entrava in vigore il NAFTA, il movimento armato anticapitalista, anarchico e indigenista guidato dal subcomandante Marcos (docente universitario al secolo Rafael Guillen) uscì dalle foreste e occupò San Cristobal e altre cittadine nel Chiapas. "Ci scusiamo per il disagio, ma questa è una rivoluzione". L'obiettivo? rovesciare l'oligarchia locale, da secoli detentrice del potere, delle terre e del controllo delle risorse naturali, e migliorare le misere condizioni di vita delle popolazioni native del Messico. L'esercito respinse in pochi giorni gli zapatisti, che si rifugiarono nella selva e sulle montagne, portando avanti informazione e lotta, armata e non. I contadini occupavano fattorie e terre in Chiapas, le idee correvano, dall'estero iniziò a giungere sostegno. Il governo negoziò ma gli accordi non furono mai ratificati, motivo per cui, per tutti gli anni '90 tensioni e violenze in Chiapas aumentarono, a causa soprattutto dei gruppi paramilitari finanziati dal governo che tra uccisioni e intimidazioni si resero colpevoli dei peggiori crimini. 

Dopo aver, senza successo, tentato di proporre una propria candidata alle elezioni del 2018, gli zapatisti continuano a lottare per i diritti delle minoranze, in primis i nativi, e tra loro soprattutto le donne (cosa che li ha resi poco graditi alle comunità indigene più tradizionaliste, dove fede e patriarcato vanno a braccetto), sono no global e contro il neoliberismo. Alcuni pueblos, come Oventic, sono caracol, cioè lumache, una delle Juntas de buen gobierno istituite nel 2003 per organizzare i villaggi dell'EZLN. Tecnicamente sono del tutto autonomi, producono e forniscono al loro interno tutto il necessario per chi ci vive. A Oventic, ad esempio, ci sono la scuola, la farmacia, dei collettivi dove vengono venduti i prodotti artigianali, soprattutto tessuti, delle donne locali. Ma non si pensi ad un isolamento autarchico che vede solo il proprio ombelico, per quanto di un ventre affamato: gli zapatisti già negli anni '90 usavano internet per comunicare col mondo dalla giungla, figuriamoci ora! Infatti ci sono messaggi rivolti alla protesta contro la guerra in Ucraina e dedicati al movimento Black lives matter, oltre ai numerosi murales con slogan che invitano all'azione, al cambiamento, alla consapevolezza storica, al rispetto della natura, alla rivoluzione e ai diritti delle donne. Tutti i (pochi) edifici in legno che si possono vedere sono coperti di murales e i cartelli fanno parlare la terra e il vento. 


qui comanda il popolo e il governo obbedisce






Putin y Zelenski son tiranos



Purtroppo non ci è permesso fare una visita completa del villaggio, che oggi è "chiuso", ovvero non ha guide disponibili per accompagnarci. Possiamo solo vedere i principali edifici, parlare con alcune ragazze che gestiscono una tienda de artesania e apprezzare come i passamontagna e le bandane a coprire il volto di queste ribelli siano stati sostituiti da ampie mascherine ricamate. Zeitgeist dell'era post-covid. Temevo di trovarmi in mezzo a facce torve e intimidanti, invece vedo solo grandi occhi scuri e sorridenti. La guardia all'ingresso non ci chiede nemmeno i passaporti, cosa che di solito è prassi. E' vietato scattare foto alle persone, ovviamente: sono pur sempre ribelli, per quanto in una fase di "guerra light" con , fortunatamente, pochi scontri violenti (pochi, non nessuno). Purtroppo la nostra visita dura poco, e quindi viene presto il momento di saltare sul primo combis che passa per raggiungere la prossima destinazione: San Juan Chamula. La strada corre di nuovo tra i pueblos nativi della Sierra. La gente parla solo tzotzil.




A San Juan Chamula vive un gruppo di etnia tzotzil particolarmente fiero e indipendente, i chamula, appunto. Gli uomini indossano tuniche di lana bianca o nera tessute a mano; chi ha un cargo, cioè una carica religiosa o cerimoniale, ha anche una fascia bianca intorno al capo. Le donne vestono con camice bianche o azzurre e gonne di lana. La domenica si tiene il mercato e da tutte le colline si radunano qui i chamula delle colline circostanti. Anche negli altri giorni, comunque, non mancano bancarelle e venditori di ogni sorta. Attraversiamo il villaggio diretti verso la chiesa, che è il nostro focus di interesse, e ora vi spiego perchè. Anticipo che il villaggio pullula di bambini e ragazzini che non vanno a scuola e sono impegnati nei più disparati lavori. Molto portano borse di merci da vendere tenendole come zaini ma senza spallacci, bensì con un manico di corda che si appoggia alla fronte. Hanno anche campanelle o trombette clacson per segnalarsi. In giro si vedono tanti uomini ubriachi, perchè qui si usa e abusa di pox (posh), bevanda alcolica fatta con mais, canna da zuccheo e grano. Era usato dai maya nei rituali, e oggi, non diversamente, si beve nelle cerimonie. Le donne lavorano.










Dopo aver superato l'ampia piazza centrale, che è un mercato disseminato di ambulanti, croci, statue ed edifici pubblici, raggiungiamo la chiesa di San Giovanni. E' vietatissimo fare foto di qualsiasi tipo, anche di sfuggita. Quando entriamo una coppia di americani sta discutendo animatamente con una gruppo nutrito e bellicoso di custodi, che ha tutta l'aria di voler distruggere gli Iphone dei gringos, che, a loro avviso, sostengono di aver messo una bella mancia nella cassetta delle offerte. Vabe'. Noi non abbiamo voluto correre rischi, quindi vi dovete accontentare della descrizione verbis. Questa è la facciata della chiesa. Fin qui niente di strano.


Quando si entra, ci si trova catapultatati in uno spazio buio e spoglio. Non ci sono sedie, panche, altari, cappelle, inginocchiatoi, pulpiti o confessionali. Il pavimento è completamente coperto da uno spesso tappeto di aghi di pino verdi, lunghi e sottili, che profumano di resina. A terra e su lunghi tavoli ai lati dell'unica navata ardono migliaia di candele di tutte le forme e dimensioni, molte delle quali contenute in bicchieri. Quelle a terra, una volta sciolte, vengono raccolte da addetti alla pulizia. Il profumo dell'incenso di copale e il fumo addensato rendono l'aria greve. Fa anche molto caldo, rispetto al fresco che c'è fuori. A terra, sugli aghi di pino, stanno inginocchiati o seduti molti fedeli, da bimbi piccoli ad anziani che sembrano avere 400 anni. Sull'altare maggiore, l'unico, campeggia una statua di San Giovanni, venerato dai chamula più di Cristo, che infatti sta alla sua destra. Lungo le pareti ci sono teche d'argento e specchi con statue di santi vestite. Se già tutto questo è strano, aspettate, siamo solo all'inizio. Molti fedeli stanno con lo sguardo fisso a terra o salmodiano dondolando. Ma altri sono nel pieno di riti che ben spiegano la parola "sincretismo". Davanti all'altare c'è una famiglia, padre, madre, tre figli, tra i 3 e 10 anni. Hanno davanti a loro una gallina morta, una pozza di sangue, e una gallina che sta morendo, appena sgozzata. La tiene il padre per le zampe, a testa in giù. La madre, intanto fa girare bicchieroni pieni di pox (ne bevono anche i bambini) alternati a bicchieroni di Coca Cola. Si ritiene infatti che i rutti facciano uscire dal corpo gli spiriti maligni, mentre i sacrifici animali permettano la guarigione dalle malattie. Questo avviene a un lato dell'altare. All'altro, un curandero strofina un uovo su una signora anziana che beve un mix di Coca Cola e Sprite. Altri, con sacchetti di uova, sono in attesa del loro turno; intanto accendono file e file di candele a terra. 
Non so quanto a lungo restiamo dentro alla chiesa ad osservare quanto accade tra le mura di questa chiesa. Non so quanto io abbia elaborato in piena coscienza quel che ho visto. So che non sarà facile trovare di nuovo, altrove, un simile esempio di sincretismo, complessità e stratificazione storica.


Quando usciamo veniamo circondati da Cristina e i suoi amici, venditori, per lo più ambulanti, che conoscono qualche parola in tutte le principali lingue turistiche. A questo giro non solo compriamo un po' di manufatti artigianali (questi non sono made in China, la produzione avviene in loco davanti ai nostri occhi), ma Gigi, avendo fatto l'errore di estrarre un portamonete pieno di bronzini, viene preso d'assalto. La scena è buffa e tragica a un tempo. Chi gli si accalca intorno pensa di aver trovato il pollo da spennare, noi vediamo l'abisso della miseria in quelle mani tese, che prima son solo di bimbi, poi anche di adulti. Chiedono la monetina, un pesito. Gigi dà fondo a tutti i pesitos che ha, ma ognuno di quelli pesa tra sterno e stomaco come un macigno. Mi torna in mente l'abuelita di El Aguacatal. "Conosci il potere del denaro?". Eccolo qui. E' quello che fa perdere la dignità agli esseri umani, a prescindere dal lato della bilancia su cui si trovano.







donne che macinano il mais e producono tortillas in un forno comune sulla strada



Dopo aver camminato un po' tra le vie di San Juan Chamula per smaltire lo choc culturale, troviamo un passaggio per l'ultima tappa di oggi, San Lorenzo Zinacantan, un tranquillo villaggio tzotzil, ma non chamula. Gli abiti, qui sono diversi: le donne hanno camicie rosa o viola con elaborati ricami floreali, gli uomini tuniche rosa del pari ricamate, e anche cappelli di palma a tesa larga. Qui gira meno pox e c'è meno diffidenza nei confronti dei turisti. L'attività tradizionale, oltre alla tessitura, è la coltivazione dei fiori, soprattutto gerani, che vengono offerti in chiesa in rituali propiziatori. Ad accoglierci, all'ingresso del villaggio, c'è infatti il mercato dei fiori (quando arriviamo noi è in via di chiusura). Per visitare il paese si paga una "tassa turistica" di 15 pesos (circa 0,7 euro).








La centralissima chiesa di San Lorenzo, che domani la città, è stata ricostruita dopo un incendio, nel 1975. Al suo interno ci sono fiori ad ornare l'altare e tanti toritos (li chiamo così alla stregua di quelli peruani) e animalitos vari che fungono da incensieri. Sono identici a quelli visti nei musei tra i reperti maya. 















Usciti dalla chiesa, facciamo un giro nell'ampia e desolata piazza centrale, e nei campetti da basket sponsorizzati Coca Cola.






A questo punto abbiamo davvero visto tutto quello che si possa esperire in una giornata nei dintorni di San Cristobal. Dopo un'attesa piuttosto lunga riusciamo a prendere un colectivo per tornare a SanCris, dove sbarchiamo di nuovo nella zona del Mercado Viejo che non dorme mai.






quest'uso di fare piramidi di frutta e verdura non sarà la moderna forma mentis maya, che un tempo portava a erigere templi?

souvenir: zucche laccate, polli di gomma, zampetti di vari animali e scoiattoli imbalsamati. Mentre dico a Gigi: "Ma chi è che si compra uno scoiattolo imbalsamato male, così, sulla strada?" si ferma un passante e ne compra uno.

questi invece sono i nostri acquisti dai chamula

Dopo una passeggiata in centro torniamo in albergo ben cotti. Ritiriamo i nostri straccetti lavati e prepariamo la tappa di domani: andremo a Chiapa de Corzo, sperando di arrivare abbastanza presto da saltare su una lancia per esplorare il Canyon del Sumidero (non voglio andar via dal Messico senza aver visto bene e da vicino dei coccodrilli! E qui ce ne sono di belli pasciuti). Il giorno successivo transiteremo da Tuxtla Gutierrez, capitale del Chiapas, senza fermaci: è sicuramente una bella città ma non suscita in me tutto questo interesse. Ora puntiamo all'Oaxaca, altro grande e meraviglioso, variegato stato dei questo paese. Destinazione della settimana? Puerto Escondido!

Per cena, decidiamo di onorare la giornata con un passaggio al ristorante TierrAdentro, che sostiene l'EZLN e propone piatti con prodotti dei pueblos zapatisti, e li finanzia. E' anche tutto buonissimo ed economico, rispetto alle varie trappole per turisti che si trovano sui vialoni pedonali. E l'atmosfera è quella giusta!






succo d'anans

polletto fritto, riso e insalata per Gigi

verdure al curry e riso per me

Gigi stamattina ha tirato l'ennesima craniata contro cose (qui è tutto basso, per lui, e continua a farsi male e picchiar la zucca). Solo che a sto giro, oltre all'evidente scottatura (come me in viso: fa freddo ma il sole ustiona!), si è tagliato sulla melonera e l'escoriazione, pur superficiale, è infetta e purulenta. Mi dice solo adesso che il colpo l'ha preso su una barra di metallo sospesa sopra al bagno pubblico della chiesa dei chamula, che non solo è lurido, ma è anche incrostato di maledizioni contro i bianchi che escono insieme ai rutti indotti dalla Coca. Quindi dobbiamo andare in farmacia. La dottoressa, inizialmente, non capisce. Allora tolgo il berretto a Gigi e lei rimane sconvolta, e ci consiglia una consulta medica, che oggi son gratuite. Quante scene! Già Gigi si impressiona facilmente, così poi, signora mia, lei non collabora e mi rende difficile la logistica! Riusciamo a farci dare un disinfettante spray e via, questione risolta. 
Domattina sveglia all'alba: abbiamo 20km di salita, prima dei 50 di discesa che ci porteranno a Chiapa de Corzo, e dobbiamo arrivare preso se vogliamo esplorare il Canyon!


18/7
San Cristobal de Las Casas - Chiapa de Corzo
72km

Il Chiapas continua a lasciarmi senza parole e senza fiato per la grandiosa, incredibile, meravigliosa varietà e densità di esperienze e orizzonti che offre. Ogni giorno è una vita intera, un passaggio tra mondi, una approdo a universi lontani lambiti dal medesimo fiume, che è tempo ed è strada, è movimento di ruote, giro dei pedali e del sangue.

La tappa di oggi è stata benedetta da tutte le divinità preispaniche e cristiane, dal sangiovanni dei chamula e da chac serpente celeste che governa i venti.
Partiamo presto, con una sveglia che mi strappa al sonno dopo poche ore. Facciamo tutto in silenzio, per non disturbare gli altri ospiti. Usciamo nella città ancora addormentata, che era il nostro obiettivo, per evitare il traffico devastante che viene a crearsi poi durante il giorno. L'aria è fresca, anzi, fredda! Ci saranno 7 o 8 gradi, e ci copriamo con abiti pesanti che sembravano inutili fino a pochi giorni fa. Ciao SanCris, sei stata un dono prezioso!


Appena fuori dal centro la strada inizia ad arrampicarsi sulle colline intorno, che in realtà sono montagne di tutto rispetto, ma partendo già da 2200m sembrano meno imponenti. Arriveremo oggi a sfiorare i 2600m di quota, prima di ridiscendere quasi in piano. La salita non è mai ripida e le pendenze restano sempre più che tranquille. La strada è stretta ma passano pochissime auto e il fondo è buono. Saliamo, nel silenzio interrotto solo dal canto degli uccelli, mentre le abitazioni si fanno via via più rare e spartane.





"ho tante noci di cocco grandi, grosse, anche più grandi di te!"





A un certo punto le case spariscono quasi del tutto, e lasciano il posto a cupe pinete che fremono al vento e spartani chioschetti, ancora chiusi. Le poche zone abitate sono segnalate da minuscoli campi di mais quasi verticali, scoscesi sulle pareti della montagna. Ogni metro è sfruttato, là dove necessario.





Dopo un primo tratto di salita si scollina e si scende nel vallone dove sorge Nachig, una cittadina vivace incastonata tra i monti.




Inevitabilmente, dopo questa prima inebriante discesina e il passaggio nel centro abitato, si torna a salire, ma senza strappi. Ancora le pendenze restano dolci e si pedala tra assonnati cani stesi al sole e bimbi curiosi che ci salutano, mentre le madri, impegnate a ricamare o di ritorno dalla spesa, sempre in abiti tradizionali tzotzil, li tengono d'occhio. Appena si scollina di nuovo tutta la vallata si abbraccia in un colpo d'occhio nella luce argentea del mattino, che si riflette sulle foglie, come fossero acqua, e sulle numerose serre di coltivazione.





Se fin qui è stato bello, ora inizia il fantastico. Dopo 20km di salita ce ne aspettano 50 di discesa, quasi ininterrotti. Anche in questo caso le pendenze restano docili, cosa che permette di scendere senza la tensione del freno tirato o dell'eccessiva velocità. Da dire non c'è molto, le immagini parlano da sole. Le montagne, selvagge, coperte di vello di linfa e resina, diventano pian piano colline. I campi di mais anticipano i pueblos, che sono fatti di assi di legno inchiodate e cemento, fumo di pannocchie bollite e pollo alla brace. La tavolozza, che nella corsa della discesa si impasta e amalgama, comprende tutte le tonalità del verde e dell'azzurro, sbuffi di nuvole e specchi d'acqua, rosso di roccia e di terra antica.




















In questa ubriachezza di vento e velocità, ombre di valloni a perdita d'occhio e sagome di vette della Sierra Madre, che, in quanto tale, osserva sorniona e tace, lasciandoci giocare alla "conquista dell'inutile", passiamo talora qualche pueblo in cui è giorno di mercato. Qui tutto si fa colorato, sgargiante, rumoroso di musica, chiacchiere e megafoni degli ambulanti che sponsorizzano i loro tamales o le loro micheladas (che sono cocktail di birra, succo di lime, spezie, salse, peperoncino, succo di pomodoro e tanto ammore). Qui c'è da stare attenti alla guida spericolata dei mototaxi e ai trabiccoli, a pedali o a motore, stracarichi di gente, merce, animali o tutte e tre le cose insieme.




Dopo aver perso quota ci troviamo in un paesaggio collinare selvaggio di incredibile bellezza, dove i rari campi coltivati si intrecciano a pietraie chiarissime e pratoni, punteggiati di alberi e interrotti da chiazze di terra rossa. Sulla strada si proiettano le ombre dei condor, o avvoltoi, neri, tozzi e con la testa pelata e rossa, che volano a larghi cerchi sopra di noi.







Ormai siamo quasi tornati in piano, e la prima cosa che ce lo comunica è la temperatura. Il sole è tornato a scottare e nemmeno la discesa riesce a lenire il calore bruciante. Ci spogliamo in fretta e furia, rimettendo via antivento, berretto e scaldacollo. Serviranno tra una settimana, quando affronteremo i monti dell'Oaxaca (che si pronuncia Uahaca). Ma ora che dalla selva ci dirigiamo alle spiagge candide del Pacifico, proprio no!



Dopo aver perso più di 2200m di quota, ancora in discesa, raggiungiamo lo svincolo per Chiapa de Corzo, la nostra destinazione di oggi. E' ancora presto, e questo mi fa grande piacere: abbiamo tutto il tempo per lasciare le bici in hotel ed esplorare il Canyon del Sumidero in barca. Chiapa de Corzo, che ha ottenuto il riconoscimento di pueblo magico, si segnala sulla strada con una piramide antica, costruita dalla tribù dei chiapa appunto, buttata in mezzo ad una rotonda, tra la pompa di benzina e lo svincolo di accesso alla città.


Superiamo una pletora di ambulantes e baracchini, che significano presenza di turisti, e lasciamo le nostre cose in hotel, dove sono così gentili da darci la camera nonostante sia ancora mattina. Ci cambiamo e, nel giro di un attimo, siamo sul malecon, il lungofiume, in compagnia di un venditore accalappiaclienti. Qui a Chiapa ci sono due imbarcaderi e quatto compagnie di lanchas, che son cooperative e hanno fissato prezzi e offerta identici. Quindi c'è poco da chiedere, mi limito a seguire il nostro omino baffuto fino alla biglietteria. Qui paghiamo la corsa, e il biglietto d'accesso al parco nazionale, e restiamo in attesa di altri clienti perchè la barca parte solo quando è piena. La "sala d'attesa" è un portico tranquillo dove bibite e cibo sono venduti in ogni forma, insieme a collanine, amache e souvenir. Anche qui tantissimi bambini lavorano, percorrendo il lungofiume carichi di cianfrusaglie. Il tempo di una telefonata a casa e si parte, con gli immancabili giubbini salvagente, metti mai che caschi in acqua e proprio in quel momento passa il drillococco.







Ma perchè tanta enfasi su questo canyon? Perchè si tratta di una spettacolare fenditura nella roccia viva scavata dal Rio Grijalva, che si può navigare fino alla diga che fornisce energia idroelettrica dal 1981, per oltre 35km. In questo tratto di fiume la roccia si tuffa a picco nell'acqua e, nei punti più alti, crea un balzo di 800 metri di altezza e 200 di profondità. Oltre alla natura spettacolare del luogo, già per sè interessante, la mia curiosità si è accesa quando ho visto la quantità e varietà di specie animali e vegetali che popolano la riserva. Abbiamo visto, finalmente da vicino e benone, i coccodrilli! E scimmie ragno, pellicani d'acqua dolce, cormorani, aironi, garzette e altri uccelli acquatici che non sono stata in grado di riconoscere. Alcuni così sottili e leggeri da riuscire a galleggiare su singole foglie di piante acquatiche grandi come un palmo di mano. Deliziosi! Il tour dura circa due ore mezza e la guida, che è anche il capitàn (e a metà escursione non manca di chiedere una mancia facendo girare un berretto), spiega tutto ciò che c'è da sapere su idrogeologia, fauna e flora. 



Questo preciso scorcio appare nello stemma del Chiapas. Pare che da questi dirupi i guerrieri chiapa fieri e bellicosi, si siano suicidati, pur di non finire prigionieri nelle mani dei conquistadores guidati da Diego de Mazariego, nel 1528. Qui i chiapa avevano la loro capitale, Nandalumì, zona abitata fin dal 1200 a.C.. Mazariego, dopo aver fondato una città, la abbondonò per spostarsi nella più tranquilla e fresca San Cristobal (e i chiapa dormono nel letto del fiume).


scimmie ragno

altre scimmie ragno

avvoltoio posato

baby drillo con mamma di 4m in acqua

grotta con madonnina guadalupana



abbordaggio da parte di barchetta-bar che vende cibo e bevande

la diga


una cascata dalla stranissima forma ad albero di Natale (a me pare più un fungo)



pellicani


L'esperienza vale tutti e 15 gli euro che costa! E' un giro veramente incredibile, e poi vogliamo palare dei coccodrilli? Ma chi li ha mai visti così liberi, nel loro ambiente naturale, da vicino, mentre fanno le loro cosine da rettiloni? Scendo dalla barca tutta storta per il dondolio prolungato e gli otoliti lasciati ai pellicani e ai pelligatti, ma soddisfattissima. I coccodrilli!

Approfittiamo dell'ora ancora presta per fare un giro sul malecon



e alla chiese seicentesca costuita dai domenicani. Ci lasciamo casualmente sfuggire il museo della lacca, che espone una pregiatissima collezione di zucche laccate anche antiche, che sono la specialità artigianale della zona. Non ci lasciamo scappare invece la ricca collezione di statue custodita in chiesa, dove compaiono, in ordine,



Cristo palestrato

Gesù fronte alta su ciuco testa grossa

Melchiorre drag queen

una Maddalena color prugna 

la famiglia belle ciglia

l'anonimo del trenino

Gesù che si è scofanato una teglia di lasagne e dice: ancora due?


Blasfemia scema a parte, usciti dal tempio facciamo un giro nella plaza de armas, circondata da freschi portici invasi di prodotti artigianali, dai tessuti al pox, dal miele alle zucche laccate, ai suonatori di marimba. Perchè il Chiapas è la terra della marimba!







Il cuore della piazza è la Pila, o fuente colonial, fontana in mattoni in stile gotico mudejar che si dice ricordi la forma della corona spagnola. Risale al 1563.



Poco distante si erge la Pochota, grande albero millenario (dicunt) venerato dai nativi come ceiba. Nel 1945 è stato in parte bruciato da un incendio, ma, grazie all'intervento della comunità, si è salvato e le sue radici si sono fatte più profonde e forti.



Stanchini e puzzolini torniamo in albergo per, finalmente, la doccia e un po' di riposo. Approfitto delle ore libere per organizzare dettagliatamente le tappe dei prossimi giorni. Domani staremo ancora in Chiapas, ma da dopodomani entreremo in Oaxaca. Pedaleremo lungo la costa per qualche giorno, fino a Puerto Escondido. Da lì attaccheremo la Sierra per scavalcarne le vette meridionali e portarci sugli altipiani centrali. Direzione Città del Messico. 

la porta della camera è, nemmeno a dirlo, decorata con la zucca laccata

posada in stile coloniale

Nessun commento:

Posta un commento