Danang-Hoi An
38km
Oggi mi attende una tappa volutamente breve perché la destinazione, Hoi An, merita di essere poi visitata con calma in almeno mezza giornata: il suo centro storico, antica sede di mercanti da tutto l'Estremo Oriente, è patrimonio UNESCO e offre uno scorcio sull'architettura tradizionale locale, in un mix di stili e influenze.
Mi alzo con calma, bevo un caffè doppio in camera e, prima di rimontare le borse sulla bici, mi reco a piedi con la Signorina Felicita per mano in un negozio di bici qui vicino. Vorrei mi gonfiassero un po’ le gomme a modo, con il compressore, perché hanno perso pressione con il caldo e pedalare è faticoso, e aumenta il rischio foratura. Il negozio è molto fornito e il ragazzo che ci lavora estremamente disponibile. Sta lì a grattar via il fango dai copertoni, con le unghie, per leggere la pressione consigliata, e poi gonfia minuziosamente senza voler nulla in cambio. Grazie!
Torno in ostello, carico i bagagli e via che sono in strada. Purtroppo non riesco a salutare Sergeij; ieri sera, vedendolo lì solo soletto nella hall a cercare di far conversazione con il receptionist non speaking english, mi ha fatto tenerezza e mi sono fermata a chiacchierare con lui. Mi ha raccontato tutta la sua vita, la sua infanzia nella Siberia degli Altai, l'aria pulita e il profumo di abeti, e che si arrampicava sul tetto del palazzone dove viveva per riuscire a cogliere il segnale delle radio occidentali. Ed era l'unico del suo paesino a sentire musica americana e inglese! Mi ha raccontato dei suoi anni da professore universitario, del suo emigrare in Corea a svendere le sue conoscenze (in Cina rubano le idee e non pagano, in Europa non ci sono fondi, in Giappone sono xenofobi), e del fatto che in Russia non ci vuole tornare perchè la propaganda putiniana ha lavato il cervello alla gente: sua sorella lo ha denunciato come spia e ha dovuto confrontarsi con la polizia. E' peggio del KGB, corrotta, ottusa. Putin secondo lui è un gangster analfabeta, i suoi titoli di studio sono fasulli. Non come quando c'era l'URSS, che sfornava i migliori scienziati al mondo, che poi sono emigrati degli USA e hanno portato tutta la loro conoscenza là! E poi a lui hanno insegnato a fare sempre tutto insieme agli altri, collaborare, cooperare, muoversi insieme, uniti. Ora regna l'individualismo, la società è disgregata e il divario sociale tra ricchi e poveri sempre più marcato. E Stalin alla fine era una brava persona, umile, discreta, amica del popolo (!). Sergeij è soprattutto orgoglioso del suo metodo di cuocere le uova in microonde senza farle esplodere. Fisica teorica applicata alla cucina! Mi spiega come fa, e lo perculo riguardo al fatto che è venuto in Vietnam a far esplodere altre bombe. Ride. Sembra una brava persona, di quelle sfigate a cui gli eventi storici finiscono in quel posto. E infatti vagola, ha madre, moglie e figlia in Russia, nipote in Corea e chiappe in un ostello vietnamita. Il terzo che cambia. Nel primo ha litigato con la proprietaria, nel secondo c'erano le cimici dei letti. Ma che sfigato veramente!
In ogni caso, mi spiace non salutarlo. Ma devo andare, ora. Ciao Sergeij, cerca di sopravviverti!
Una prima sosta dovuta è al famoso ponte del drago di Danang, che nei weekend spruzza acqua e spira fiamme. Effettivamente constato che è un ponte, e che c'è un drago. Lo vedo molto bene, perché dopo aver pedalato circa 4km, appena fuori dal centro città, mi accorgo di aver dimenticato nella hall il mio tesssssoro, my precious, il non la, il cappello vietnamita. Quindi torno indietro a recuperarlo. E riattraverso il ponte e rivedo il drago.
Finalmente riesco a lasciarmi alle spalle la città, con il suo traffico caotico e il suo rumore. Passo per le Montagne di Marmo, 5 collinette, indovinate?, esatto, di marmo, che un tempo erano isole e ora si ergono solitarie in mezzo alle risaie. Sono considerate sacre da tempo immemore, e prendono ciascuna il nome dai 5 elementi sacri. Le grotte e le gole al loro interno ospitano templi e sculture sacre. Tutt'intorno si susseguono botteghe di scultori e, nell'insieme, si percepisce un'aria di sacralità tutt'intorno. Sarà che fuori da ogni bottega arde un vaso d'incenso…
In un attimo sono di nuovo sul mare. Seguo la costa, tra grandi resort isolati e bancarelle e negozietti pensati per i turisti. Anche le spiagge sono particolarmente attrezzate, con baretti, ristoranti, sdraio, ombrelloni ed escursioni in barca. Dopo un breve sguardo al carnaio di chiappe chiare che affolla la battigia, viro nettamente verso l'entroterra. La sabbia e le onde sembrano invitanti, ma qualcosa mi tiene lontana da questi luoghi dell'apparire, dove turisti del primo mondo vanno a farsi le foto per Instagram sotto alla palma sucando dal cocchino fresco, senza neanche sapere in quale lembo di universo abbiano i piedi. Poi magari esagero eh, ma a colpo d'occhio, per i comportamenti che vedo, la situazione è questa. Fanno bene i local a prendere quella bella sabbia chiara e cospargerla tutta torno torno agli orifizi dei clienti, prima di cacciargliela in quel posto. Si chiama redistribuzione.
Siccome sono quasi arrivata, faccio una breve sosta gelato e… ORRORE! Su WhatsApp ho ricevuto un messaggio dall'hotel che avevo prenotato, e con cui mi ero accordata per lasciare la bici prima del check in. Dicono che hanno problemi di corrente e acqua, e non possono ospitarmi. Non avevo pagato ancora, quindi tocca solo trovare un'altra struttura. Fortunatamente a Hoi An non mancano, è solo questione di scegliere. Mi appollaio su una panchina affacciata ad un lago coperto di loto e, tra una gallina che mi razzola intorno ai piedi e una papera che starnazza in acqua, trovo un alloggio alternativo, il Dolphin Hostel, sempre in centro. Il letto in camerata femminile, con colazione inclusa, costa 4 euro ed è ottimamente recensito. Vada per questo.
Completata la pratica, riparto e questi ultimi km sono di pura campagna. Quasi non sembra che dietro l'angolo sorga una città con oltre 100.000 abitanti, tra le più visitate del Vietnam Centrale! Ci sono risaie e contadini con gli attrezzi in spalla che pedalano suo sentieri, bufali al pascolo e piccoli mercati di prodotti agricoli come ne ho visti nei villaggi più isolati, con le signore sedute a terra accanto alla merce esposta in vassoi di legno intrecciato.
L'ingresso in Hoi An è molto meno problematico rispetto a quello delle altre città grandi finora attraversate. Un po' perchè il numero di abitanti non è così spropositato, un po' perchè arrivo dai sentieri nei campi, e non da stradoni, e soprattutto perchè molte vie del centro storico sono pedonali (poi i motorini e i risciò e i pedoni sbadati sono comunque un bell'impiccio, ma non si rischia il botto violento). Già a primo impatto, la città si mostra nella sua coloratissima bellezza di lanterne, templi e case tradizionali. Oltretutto, essendo le ore più calde, alcuni tratti di strada sono quasi deserti. Una goduria!
Raggiungo l'ostello e devo attendere una mezz'ora perchè è presto per il check-in. Ne approfitto per tracciare la rotta di domani e dopodomani, e prenotare gli alberghi. Mi attendono città costiere dalla storia antichissima, e alcune dolorose cicatrici lasciate dalla guerra. Ma ne parleremo a tempo debito.
Lo staff mi spiega che oggi è il mesiversario della struttura, aperta a dicembre del 2024. Infatti è tutto nuovo e pulito e fervono i preparativi per una serata di festa. Mi spiegano che il personale è interamente vietnamita, tranne un ragazzo che è quello che parla inglese con gli stranieri e mi sta raccontando tutto ciò. E' il primo ostello del Paese, così dice, ad aver un piano riservato esclusivamente alle donne. Si badi bene, il problema non erano i local. Erano i turisti ubriachi che "si perdevano" nelle camerate delle fanciulle. Ci sono piscina, bar e ristorante, giochi e una miriade di attività e servizi. Colazione inclusa, come lenzuola, asciugamano e catenaccio per chiudere gli armadietti sotto ai letti (che son quelli che si chiudono completamente con tende, tipo capsula. Ogni unità ha ventilatore, luce, mensole e prese). La bici sale con me, ma portata dal gentile tuttofare, al terzo piano, sul balcone interno, legata. Insomma una figata!
Il tempo di farmi una doccia e sono di nuovo in strada, a esplorare questa perla che si trova esattamente a metà strada tra Hanoi e Ho Chi Minh city, 1000km già percorsi, 1000 davanti a me prima della prossima sosta.
Ma torniamo a Hoi An. Innanzitutto, è stata chiamata Faifo per secoli e con questo nome era nota anche gli europei che per primi vi misero piede.
Dal II al XV secolo qui intorno c'erano influenze Sa Huyn e Champa, e questi ultimi controllavano i commerci delle spezie con i cinesi. Infatti qui vicino sorge My Son, antica capitale spirituale Cham. Le merci si muovevano via acqua, dal mare ai fiumi fino all'entroterra, anche in Laos e Thailandia. Nel XV secolo, però, il territorio cadde sotto al dominio Dai Viet, e ne divenne motore economico. Tra lotte interne tra potenti signorotti e instabilità politica, portoghesi, inglesi e giapponesi ne approfittarono per trarne vantaggi commerciali a scapito dell'economia locale. Tra 1600 e 1800 Hoi An divenne un porto internazionale dove si intrecciavano le rotte di mercanti cinesi, nipponici, europei e indiani. Alcuni resti di navi naufragate dimostrano che le ceramiche prodotte qui arrivavano fino in Sinai, per poi entrare nel Vecchio Continente. Negli stessi anni, tanti cinesi si trasferirono qui a causa delle ricorrenti carestie e instabilità politiche nel Celeste Impero. Dopo anni di lento declino per la chiusura ai traffici commerciali, arrivarono i francesi, poi i giapponesi e tutte le guerre del Novecento in infilata. Isolata e non più al centro dell'economia, Hoi An mantenne così intatte le sue caratteristiche di città mercantile storica, con la fusione di stili che la contraddistingue da sempre, perchè qui, sì, è un porto di mare (e di fiume) e genti diverse venute da paesi lontani si sono insediate, portando la propria cultura.
La spina dorsale di tutta questa complessità è il fiume Thu Bon. Il centro storico, oggi trasformato in una piccola bomboniera per turisti, vi si affaccia e si specchia nelle sue acque verdastre. I ponti collegano canali, isolotti e terraferma, e segnano i passaggi tra quartieri di etnie diverse. Uno dei più famosi è sicuramente il ponte coperto giapponese, in pietra, costruito nel XVI secolo per collegare la città al quartiere nipponico. Al suo interno si trova un tempio buddista con delle curiose statue di scimmie e cani con il capo velato.
Prima di proseguire la visita, mi concedo un bubble milk tea eccellente, che finisco ancor prima di averlo guardato. Con il caldo che fa, di questo nettare divino se ne berrebbero ettolitri! In mano vedete anche il biglietto cumulativo che si fa per visitare tutti i luoghi storici e i musei del centro. Costa poco meno di 4 euro e vale 3 giorni.
Proseguo poi la visita nei vari quartieri cinesi (ogni etnia aveva il proprio, con un tempio e una "sala del consiglio"). Mantenere la propria identità culturale era fondamentale per questi "ospiti residenti", e poi il commercio è cosa seria, e sacra, e necessita di incenso e offerte e preghiere. Gli edifici sono riccamente decorati, e manifestano la potenza di queste comunità di mercanti.
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Altro focus di interesse storico sono le case tradizionali, ideate per essere dimora e bottega, e ancora oggi utilizzate in questo medesimo modo. Tutto è poi abbellito con lanterne colorate, e molti artisti espongono le loro opere verso la strada. Non è tutta paccottiglia da souvenir a poco prezzo, ci sono anche pezzi davvero degni! La città comunque è famosa per la produzione di ceramica e vasellame, seta, abiti sartoriali e una cucina fusion che mescola i sapori e le armonie di tutto l'Estremo Oriente, che qui conviveva.
Altro punto imperdibile di Hoi An, inevitabilmente, sono i mercati. Oltre a negozi e botteghe raffinate in centro, oltre agli ambulanti e alle bancarelle sparse, ci sono un mercato coperto (diurno) e uno all'aperto (notturno).
Non mancano poi i musei, tutti molto raccolti e custoditi nel prezioso scrigno delle abitazioni storiche in legno scuro e lacca. Alcuni particolarmente interessanti sono quelli dedicati alla medicina tradizionale, alla navigazione, ai prodotti tipici che venivano commerciati e alle culture locali.
Ciò che, però, più di tutto affascina qui è la vita che pullula e si riversa per le strade, tra gente da tutto il mondo, artigiani, abili venditori, turisti in risciò e street food dal profumo incredibilmente invitante.
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canna da zucchero spremuta per farne succo da bere on the go |
Mentre torno all'ostello dopo questo breve lungo giro in città (inizio a essere provata dal caldo e dalla sete, e dal "troppo tutto insieme" -il mio cervello ha una capacità massima di informazioni e stimoli che riesce a incamerare, raggiunta la quale, torna animale: cibo, acqua, fresco, riposo), mi imbatto nel mercato notturno in allestimento. Tornerò sicuramente stasera a godermi lo spettacolo della "Città delle lanterne" illuminata. Oggi poi c'è luna piena, e si festeggia.
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questo ragazzo tutto tatuato in motorino si trascina dietro un cassone su rotelle in cui tiene tutta la sua bancarella |
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non ho resistito: ho comprato il balsamo di tigre viet style. E' potentissimo! |
Dopo qualche momento di relax (leggi: collasso) in camera, decido che è l'ora giusta per cenare e poi fare un giro tra le luci colorate che si sono ormai accese. Qui il sole tramonta intorno alle 18.30.
Mi affido allo squisito ristorante dell'ostello, così da poter capire cosa sto ordinando, perchè ci sono le traduzioni (più o meno) in inglese. Alla fine ricado su un tofu cotto con verdure e spezie, delizioso, servito con la sua brava ciotolina di riso. E una vista sul fiume che da sola vale tutta la strada fatta fin qui.
Mi addentro poi nel dedalo di vie illuminate a festa, e subito noto la quantità di barche a remi che solcano silenziose il fiume, con le loro lanterne, e le signore che vendono lumini galleggianti da depositare a pelo d'acqua con il lungo bastone di bambù che finisce a cucchiaio.
Ad animare le vie non ci sono solo servizi per turisti, ma anche ristorantini improvvisati per i local, con le classiche sedioline in plastica e i grandi vassoi ricolmi di carni, verdure e dolci da cui si pesca la propria porzione.
Tutte queste luci, che poi son semplici lanterne di carta colorata, danno alla città un'atmosfera davvero magica, come se si trattasse di un mondo altro, parallelo, abitato da spiriti in festa che galleggiano su un tempo liquido tra la notte e la luna. Qua e là ci sono anche musicisti che si esibiscono con strumenti tradizionali.
Mi tuffo nell'allegro caos del night market e mi lascio incuriosire dai baracchini dello street food. Sul fronte salato, dominano spiedini minuscoli di tutte le forme e colori, di carni varie, pesce e verdure, le baguette farcite, le patatine fritte a elica e le grigliate, soprattutto di granchi e aragoste intere. ma pure "piadine" di riso schiacciato croccante farcite con carne e verdura. Sul fronte dolce: frutta, spesso tagliata e servita con polvere di peperoncino e zucchero, succhi freschi e frullati, gelato al vapore, ice cream rolls e pancake/crepes con mango, banana, ananas, nutella e burro di arachidi, e tortini di patata dolce al cocco o cannella. Io mi limito alla frutta, perchè timeo danaos, o meglio batterios, et dona ferentes, ma tutto ha un aspetta da acquolina potente.
E finisce qui la giornata, a scrivere in veranda con il mondo delle luci in festa che pian piano si fa più quieto e silenzioso, fino a spegnersi lontano come il canto di chi se ne va. Buonanotte, dalla mia capsula. Sappiate che puzzo. Ma, a differenza delle altre ospiti qui, che abusano dell'aircon, io non ho raffreddore nè tosse.
11/7
Hoi An-Qaung Ngai
109km
Mi sveglio alle 7, giusto in tempo per gustarmi la colazione dei vietcampioni: il loro caffè nero e lungo, arricchito con una badilata di latte condensato dolce (ecco dove Raymond ha imparato! D'altronde suo fratello viveva qui, e si era sposato con una vietnamita). Due fette di pane con marmellata (la prima sa di mango e sapone, la seconda di buone ciliegie). Riso e noodles saltati con pepe e tante verdure. Che vi devo dire? E' tutto buono, e digeribile, e mi permette di tirar sera con solo qualche spuntino di frutta in mezzo.
La preparazione delle borse è farraginosa: non voglio disturbare le compagne di camerata, che stanno ancora dormendo, e quindi devo portare fuori, in corridoio, tutte le mie cose sparse, e controllare con la torcia del telefono di non aver dimenticato nulla nella capsula e negli armadi sotto al letto. Poi porto giù bici e borse per tutte le case che il buon Signore ha messo ad Hoi An, e sono già madida di sudore e unta saponosa. E dire che non c'è nemmeno il sole!
Uscire dalla città è facilissimo: in primis, per l'ora, e poi perchè, dall'isola sul fiume in cui sono, è un attimo imboccare la via che porta ai campi sul delta, dove il turismo non guarda e la vita prosegue tra le risaie e i porticcioli dei pescatori. C'è proprio una linea invisibile che demarca i due mondi. In uno, i negozi, le lanterne colorate, i locali, la musica, il cibo che sfrigola e la gente che si diverte; nell'altro, silenzio, acqua, linfa, schiene piegate nei campi, gente di una magrezza antica e dai volti di cuoio. Piccoli mercati, l'essenziale. Anche meno dell'essenziale.
A segnare il confine, una serie di ponti "motopedonali", insomma, troppo stretti e traballanti per le auto; alcuni cadono letteralmente a pezzi sotto ai miei occhi, mentre ci passo sopra in punta di chiappe per la paura di finire in acqua. Pezzi di lamieraccia si staccano e cascano nel fiume, lasciando sotto alle ruote piccole voragini. Cerco di arrivare di là più in fretta che posso, ma proprio in questo momento la bici sembra pesare due quintali e mezzo.
Per i primi 40km pedalo su stradelle lastricate e sentieri tra campi e villaggi. Do molto nell'occhio, inevitabilmente, e attiro lunghi sguardi curiosi e sonori "Hello! How are you? Where are you from?". Ho le sensazione che tanti non abbiano idea di cosa sia l'Italia, e forse è meglio così. Vedo il dispiegarsi delle attività contadine durante la mattina: c'è chi va al lavoro in motorino, con la zappa lunga in spalla, chi porta i polli, o la canna da zucchero, o i mangostani al mercato. Chi ha comprato le uova e sta tornando a casa per preparare la colazione ai bimbi. A proposito. Le scuole sono chiuse, come da noi; ma siccome ci sono tantissimi bambini, perchè è una popolazione molto giovane, ci sono scuole private e "centri estivi" per pargoli di tutte le età. Alcuni sono vere e proprie strutture apposite con aule, banchi e lavagna. Altri sembrano garage dove i piccoli vengono parcheggiati alle 8 e ripresi alle 17, dopo aver passato la giornata a giocare con le educatrici. Intorno, vegetazione rigogliosa che si rimangia la strada, zebù, fiumi coperti di ninfee e loto, ruderi di torrette e magazzini, risaie.
Tutti i villaggi hanno sontuosi portali che, a differenza di quelli thai, non riportano l'immagine del re, ma grandi falci e martelli, stelle gialle su sfondo rosso e spesso citazioni di Ho Chi Minh. Tutti i villaggi hanno il cimitero di guerra, con i monumenti grandi e le tombe piccoline, e tante, troppe. Tutti i villaggi hanno un sospetto numero di persone con qualche disabilità fisica e/o mentale. Non so perchè, ma temo sia un bel regalo lasciato qui dagli USA, che, per privare i Viet Cong dei loro nascondigli nel fogliame, usarono in abbondanza prodotti tossici come l'Agente arancio, contenente grandi quantità di diossina. In effetti i ragazzi incontrati a Hué mi avevano detto che a Ho Chi Minh avevano visto un sacco di "disfigurati"... Ecco, pure qui, nelle campagne inquinate con continue irrorazioni di defolianti ad uso militare, ci sono centinaia di poveri cristi, ultimi tra gli ultimi, costretti a campare in qualche modo in zone già povere, dove la gente è magra di magrezza antica, di fame atavica, di denutrizione per generazioni. Si muovono su carretti e carrozzine, spinte con gli arti disponibili, spesso piuttosto creative per venire incontro alla situazione del singolo. Però che disastro. Che sconfitta dell'umanità.
Proprio in concomitanza di una serie di brevi acquazzoni (che almeno un poco rinfrescano) lascio i sentieri tra i villaggi e imbocco uno stradone ancora in costruzione, probabilmente una futura alternativa alla statale, che corre pochi kilometri più nell'entroterra. Non passa nessuno, se non qualche contadino in motorino o bici che poi si rituffa verso i campi. Intorno, una terra desolata e grigia, senza case, senza strutture, senza nemmeno foresta nè campagna. Una lunga lunga distesa di tombe. Una wasteland abitata da morti, un cimitero ininterrotto per 30km. Metto un po' di musica perchè qui l'aria è pesante. Il vento a favore, poi, mi aiuta a uscirne in fretta e raggiungere una zona di nuovo popolata, con qualche allevamento ittico e sparse casette.
Incredibilmente, ho già percorso buona parte della tappa ed è prestissimo. Mi fermo quindi a riempire le borracce e mangiare una banana che, da verde, è diventata nera in questi 90km. Avviso il motel che arriverò prima del previsto. Mi dicono ok, sir. In tutti i messaggi, mi han sempre definita così. Sir. Mah.
Riparto per l'ultimo strappo, e son stradoni ben trafficati di mezzi pesanti, oltrechè di trabiccoli a due o tre ruote con cassoni annessi, che trasportano la qualsiasi: i mobili di intere abitazioni, set da 10 copertoni di trattore, tonnellate di legna o lamiere... Il tutto nel caotico polverone di cantieri stradali che riducono di molto lo spazio in carreggiata. Ed è quindi un gran concerto di sclacsonate da far saltare i timpani; assisto anche al primo incidente (incredibile, SOLO il primo) da che son qui. Nessuno si fa male, per fortuna, ma l'auto che si stava immettendo in strada è stata centrata in pieno da un TIR ed è distrutta. A sorvegliare, i soliti operai-manichini.
Raggiungo il motel dopo aver superato la cittadella fortificata ottocentesca, ormai trasformata in ristorante. E' proprio un motel a ore, con parcheggio per i motorini direttamente nella hall, luce viola per le cosacce e numero due profilattici lasciati in omaggio sul comodino.
Dopo la doccia e qualche momento di inevitabile collasso, esco a fare un giro in centro. La città è, solitamente, snobbata perchè il suo unico focus di interesse è il memoriale di Son My Lai, che visiterò domattina. Dista una decina di kilometri. E le spiagge, più a sud. Ma ha parecchie strutture, ristoranti, negozi e un'atmosfera vacanziera e rilassata. Ancora prima della Seconda guerra mondiale, questo era un centro importante della resistenza anti-francese, ed è qui che, nel 1962, il governo Sud-vietnamita introdusse il fallimentare piano dei Villaggi strategici: gli abitanti furono costretti ad abbandonare le loro case per essere forzatamente re-insediati in villaggi fortificati, cosa che suscitò grande malcontento e alimentò le simpatie della popolazione per il Viet Cong.
Due parole su quest'ultima foto del cane tinto. Ne ho visti altri, qui in città, colorati di arancione, verde, fucsia e altre aberrazioni. Quelli che non vengono mangiati, fanno comunque una vita grama. Mi mette molto in difficoltà assistere quotidianamente alla violenza e all'insesibilità che la gran parte dei vietnamiti usa nei confronti degli animali. Sono trattati alla stregua di oggetti, ad uso e consumo degli esseri umani. Allevati malamente, stipati, trasportati e ammazzati per finire nel piatto, o tenuti in gabbie inadatte, piccole, resi ridicoli e costretti a un inferno per il diletto di chi li tiene in casa. Vale per uccelli, gatti, e cani colorati. Faccio fatica, davvero, a gestire emotivamente questa situazione, perchè è diffusissima e culturalmente accettata. Da loro. Ma non da me.
Ergo, sto mangiando il più possibile vegetariano o persino vegano. Un trick è cercare i ristoranti dei monaci buddisti più rigorosi. Stasera ne trovo uno, consigliato anche dalla guida. Per questo me lo aspettavo fighetto e chicchettoso, invece è molto umile e frequentato da local. Solo un ragazzo parla un po' inglese e ci intendiamo in qualche modo sull'ordinazione (santo Google Lens!). Mi godo quindi un'insalatona di germogli di banano, con salsa al tamarindo, menta e altre erbette aromatiche, freschissima, da accompagnare con una ruota di cracker di riso artigianale. Poi una terrina di tofu fumante cotto in salsa di peperoni piccanti, con il riso al vapore ad accompagnare. In sottofondo musiche sacre e canti di monaci. Tutto questo, compresa l'acqua e degli assaggini misti che non saprei definire, costa 4 euro. Dico al ragazzo che il loro ristorante è consigliato dalla Lonely Planet, una guida famosa in tutto il mondo. Lui mi ringrazia tantissimo, e sono certa si sia convinto di non aver capito. Nel tornare, compro un po' di frutta per stasera e domani, e poi sguascio di caldo camminando e pure nel letto dove mi butto incapace di fare alcunchè.
Questo Vietnam, con i primi 1000km alle spalle, si sta rivelando facile da pedalare ma molto intenso, emotivamente, da "assorbire". Ci sono meraviglie incredibili, bellezza grande, luci grandiose e coloratissime, e insieme miseria, un dolore universale, problemi gravi e irrisolti per le persone, gli animali, l'ambiente. Tante ombre, anche, insomma. Sentirle addosso, essere empatici, è l'unico modo per comprendere.
12/7
Quang Ngai-Tam Quan
99km
Premetto che oggi sono stata così a lungo sotto al sole, così tanto esposta al calore, che potrei aver subito dei danni permanenti a livello neurologico. Per esempio, perchè questo paesicchio nascosto tra la jungla (leggi "iungla") e il Mar cinese meridionale, si chiama come le particelle correlative del latino? Tam (tanto) Quam (quanto). Oggi infatti sono rimasta in sella circa 8 ore, sotto ad un sole cocente, un occhio spalancato di Sauron che non ha chiuso le palpebre nemmeno per un istante. L'unica vaga fonte di frescura è stata il vento, contrario, che, in quanto tale, ha però prolungato di molto i tempi di percorrenza, e quindi anche di esposizione alla caldazza tropicale. E quindi eccomi qua, rincoglionita e con il cervello in pappa, a raccontare la tappa odierna. Che è stata bella intensa, per altro.
La notte trascorre serena e, dopo una colazione in camera e i soliti molti piani di scale da affrontare con armi e bagagli, mi metto in strada per uscire dalla città dei cani colorati. In generale andrò a sud, ma ora sto muovendo a Oriente, verso la costa, per raggiungere il museo del massacro di Son My (o My Lai, a seconda che lo si citi con il nome noto negli USA o in Vietnam).
Attraverso paesotti in pieno fermento da mercati mattutini e inizio del lavoro. Anche qui noto tantissime persone con disabilità che chiedono l'elemosina o vendo qualcosa a bordo strada. Mi colpisce un uomo, in particolare, che ha tutti gli arti atrofizzati e sta sdraiato a pancia in giù su un'asse di legno con le rotelle, a una spanna da terra, e si trascina con l'unica mano che tocca il suolo e riesce a muovere. Ha una cassa che emette un canto e chiede due spicci ai venditori delle bancarelle.
Dopo una decina di kilometri, sono a Son My, ancora oggi villaggio rurale, tristemente famoso per il massacro di civili inermi qui avvenuto nel 1968 per mano di soldati statunitensi. In breve: i militari della 23^ divisione di fanteria, sotto la guida del comandante Calley, entrarono nei villaggi di pescatori e contadini, trovando solo donne (17 incinte), anziani e bambini (molti in fasce, 210 sotto ai 13 anni). Come vendetta per un attacco subito da parte di Viet Cong mescolati ai civili, decisero di abbandonarsi a stupri, torture e poi una strage di massa, a colpi di mitraglia e baionetta, dopo aver ammassato questa povera gente in alcuni fossi per l'irrigazione. 504 morti. I pochi sopravvissuti, si salvarono perchè protetti dai cadaveri ammucchiati sopra di loro. Le case furono bruciate e tutta l'area devastata. A evacuare gli unici 11 superstiti furono altri soldati americani, in ricognizione su un elicottero, che si accorsero dell'atrocità in corso e puntarono le loro armi contro i compatrioti, per convincerli "con le buone" a smetterla. Si tentò di insabbiare questo orrendo crimine di guerra, nonostante la richiesta, da parte di alcuni testimoni, di indagare. Colin Powell, a capo dell'inchiesta, fece una operazione di "white-washing", negando tutto e asserendo che i rapporti tra soldati USA e civili vietnamiti fossero ottimi e cordialissimi. Meno male! A diffondere, faticosamente, la notizia, fu un giornalista americano indipendente, che si vide l'articolo rifiutato da tutte le più importanti riviste, che tornarono però sui loro passi una volta pubblicato da indipendente e ottenuto ascolto a livello internazionale. Solo nel 1970 si diffuse la consapevolezza e l'opinione pubblica iniziò a rendersi conto di quanto stava accadendo in Vietnam. I responsabili andarono a processo, ma, nonostante le condanne e un continuo rimbalzarsi di responsabilità tra gradi dell'esercito, tutti ricevettero indulgenza da Nixon in persona. Che belle le stelle, e che meraviglia le strisce!
Arrivo sul luogo dove un tempo si trovava il villaggio; ci sono alcune famiglie di vietnamiti che mangiano un gelato nel grande parco che precede il sito. Nessuno pare particolarmente compunto, ma forse va bene così. Pago il biglietto (0,5 euro) ed entro nel museo. Davanti a tutto sta una lastra di marrmo nero con i nomi delle 504 vittime, e un orologio fermo alle 7.30 del 16 marzo del '68. Seguono poi ricostruzioni di come fosse la vita nel villaggio, prima della strage, di chi ci vivesse (gente umile, pescatori e contadini, non legata in alcun modo a nessuna forza armata), e di come brutalmente abbiano agito i soldati, torturando, stuprando e poi trascinando questa povera gente impotente in fossi tra le risaie, per ammazzarli più facilmente. Ci sono numerose foto, estremamente crude e disturbanti, perchè l'esercito decise di documentare questa prodezza per filo e per segno, con orgoglio. Ci sono poi i volti dei carnefici, ma anche quelli di chi cercò di porre fine al disastro, gli articoli di giornale e i miseri resti delle vittime (scarpine, abiti di un monaco, giocattoli semplici e qualche strumento di lavoro e di ita quotidiana). Viene mostrato tutto, così com'è. Bisogna immergersi nell'orrore per poterne trarre qualche insegnamento. Evitarlo, girarsi dall'altra parte, è un'ingiustizia nei confronti di chi è morto così, per la pura stupida disumana crudeltà di quattro criminali in divisa.
Al centro di quel che era il villaggio, si erge la statua simbolo della resilienza vietnamita, creata dal marito di una delle sopravvissute al massacro, che all'epoca aveva solo 13 anni. Una donna anziana, con in braccio un neonato morto, leva il pugno al cielo, stagliandosi tra figure curve e derelitte.
La visita prosegue poi in ciò che resta del villaggio: ci sono le fondamenta bruciacchiate delle case, con una lapide con i nomi di chi ci viveva, e i fossi dentro ai quali furono ammassate le vittime. Ora ci galleggiano sornione noci di cocco, ma erano pieni di cadaveri. Una casa è stata ricostruita per mostrare quanto innocua e lontana dagli avvenimenti bellici fosse la vita qui. I sentieri sono stati coperti da cemento, con impresse orme di pesanti stivali militari americani e di leggeri piedi nudi degli abitanti. Rende bene l'assurdo squilibrio di forze.
Infine c'è un tempio buddhista nel quale si commemorano le vittime con offerte e preghiere. Ci sono montagne di doni sugli altari e tantissime corone di fiori freschi. I loro nomi e i loro volti non sono stati dimenticati. Qui si crede che gli spiriti dei morti si aggirino per l'eternità intorno alle tombe, senza mai andarsene, così da poter rimanere vicini alla famiglia. Se è vero, qui ci sono 504 fantasmi che fanno un poco più leggeri e meno cupi, come volute di fumo d'incenso, nel vedere che son diventati simboli di pace, un urlo muto contro ogni guerra.
Dopo questa importantissima deviazione, che deviazione non è, perchè son qui proprio per questo, viene il momento di ripartire. Mi metto in sella e, quasi fino alla meta, resto in stradine secondarie e sentieri tra campi e villaggi. Prima, però, mi imbatto in una gigantesca pagoda, affiancata da una mastogiganorme statua (125m) di Guayina, bodhisattva della Compassione, qui veneratissima (come anche in Cina, dove ha assunto aspetto femminile -in India è maschio. Ma quindi Buddha è fluido? Boh). La statuona è ancora in costruzione, e spicca su una collinetta anche nella distanza. Attraverso un fiume e ne approfitto per un selfie a due.
Inizia qui un'erranza, che a me è parsa infinita, tra paesucoli e zone di campagna, su strade ora sterrate di sabbia, ora lastricate male, controvento, sotto a un sole impietoso. In giro, nessuno. Tutti sono in casa a rifugiarsi dal caldo, o al lavoro a spaccarsi la schiena. Si sentono solo voci lontane di bambini e delle poderosissime cicale. Alcuni villaggi sono curatissimi, con piante in ordine, fiori ovunque, nessuna sporcizia e casette semplici ma esteticamente piacevoli. Altri sono decisamente più polverosi, gravati dal fumo dell'immondizia o delle sterpaglie che bruciano, con baracche in lamiera o paglia e legno. In ogni caso, a parte la lentezza con cui procedo e qualche cane che cerca di inseguirmi, ma fa troppo caldo pure per loro, è un bel pedalare.
In un punto in mezzo al nulla mi imbatto persino nelle giostre, e mai visione fu più triste, tra i giochini fermi arrugginiti, le bandierine stinte e strappate, e il filo spinato tutt'attorno. Con pure la vista sul cimitero!
A un certo punto, superato l'ennesimo fiume dove i pescatori stanno trafficando con lenze e grandi reti a caduta, decido di tornare su una strada un po' più grande e asfaltata, perchè pedalo da ore e ho bisogno di mettere il cervello in frigorifero perchè sta andando a male. Nel primo paese dotato di negozi (ma chi vive nei villaggi è autarchico? Non comprano nulla? O devono venire fin qui ogni volta?) mi compro un gelatino ai frutti di bosco che mi risana l'anima. I telefono da tempo sono in blocco. Compare la scritta "il dispositivo si deve raffreddare". Anch'io.
Ultime salitelle (sì, a ridosso della costa ci sono collinette coperta di vegetazione fittissima), ultimi sentieri di sabbia, ultime pozze marcescenti piene di larve e zanzare in cui mettere ben bene i piedi, ed eccomi all'Hotel Lavender, un'oasi in stile coloniale in mezzo alla jungla, come accennavo all'inizio. Infatti mi trovo a Tam Quan (tanto quanto), ma non proprio in città. In mezzo agli alberi tropicali, ai banani, alle risaie. Ma l'albergo è ottimo, la stanza enorme, offre cucina e lavanderia, aree comuni e un bendiddio di cibo da fucilare in un nanosecondo (perchè quando si viaggia in bici, nulla sopravvive alla fame grande).
Andare a fare la spesa, stasera, è un'avventura di per sè. Le strade sono poco illuminate, ci sono roghi che ardono e cani che spuntano fuori dalla vegetazione ringhiando. I motorini sfrecciano e io devo tenere la torcia del telefono accesa per non fami investire. La gente sta cenando, a terra o su sedie basse basse, in veranda, ovvero nell'estensione all'aperto dell'unica stanzona di cui è composta la loro casa. Non si sentono tv accese, solo gran chiacchiericcio.
Poi, sulla strada, improvvisamente, la civiltà tutta di colpo. Il minimarket, e la mia cenetta. Stasera si prova un nuovo tipo di gelatina alle erbe e una salsiccia di tofu che mi ispira molto (e infatti è buonona).
Domani seguirò la costa, il mare sempre in vista. La meta è Qui Nhon (qui non cosa? E lì invece sì?), con le sue belle spiagge e lo street food di pesce. Intanto Ho Chi Minh city si avvicina! Chiudo notando le corsette di due gechi pallidi che condividono la camera con me. Ciao gechi, mangiatemi tutte le zanzare!
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