domenica 27 luglio 2025

28-30.Arrivederci Vietnam, si entra in Cambogia via Mekong! Phnom Penh tra pagode, un genocidio, tarantole nel piatto, monaci e quartieri a luci rosse

25/7
Can Tho-Chau Doc
116km

Oggi tappa difficile. Devastante, detonante come amano dire quelli che vanno in bici. Forse per un errore mio di valutazione, in buona fede, dettato da ignoranza; ho percorso una strada, che a vederla sulla mappa non pareva questa grande arteria, che collega in linea quasi retta Can Tho, la capitale del Delta, e Chau Doc, l'ultima città sul confine cambogiano, sempre a un passo dal grande fiume Hau, imponente affluente del Mekong. Vi sta la tranquillità assoluta delle strade nei giorni scorsi, mai avrei pensato che questa, invece, si sarebbe rivelata un inferno caotico e rumorosissimo di mezzi di ogni genere, in ogni direzione, tutti ferocemente strombazzanti, senza requie, fino a farmi sanguinare il cervello e le orecchie. In queste occasioni mi coglie sempre un pensiero (neanche sottilmente) razzista e classista: "Ma dove ca... correte tutti? A essere non la penultima ma la terzultima economia globale?". Lo so, brutto pensiero. Ma se c'è una cosa che solitamente apprezzo nei paesi che definiamo poveri per PIL e ISU è la riappropriazione del tempo. Noi facciamo tanto i gradassi con conti pingui e potere d'acquisto prepotente, ma abbiamo venduto il cul, cioè, il tempo. Altrove la trappola del capitalismo non è scattata del tutto. Qui, santo cielo, non si capisce: è tutto uno sbandierare falci e martelli, non c'è questo benessere diffuso e però tutti corrono corrono. E non come la locomotiva. Avranno il ratto sullo spiedo che si fredda, probabilmente.

E quando dico ratto sullo spiedo, non invento nulla. Per la prima volta oggi sono incappata in numerosi venditori di topi vivi, ammassati in gabbie arrugginite, venduti come prodotto alimentare che deve finire nel piatto. Son venduti a peso. Non voglio sapere se, quando li si compra, li si porta via vivi, che squittiscono e corrono, oppure si provvede a macellarli sul posto. La signora che li vende, comunque, è l'anima più in pace del mondo, sulla sua amaca, con i suoi ratti freschi, in attesa di clienti, a scrollare TikTok.




Passo qualche pagoda in costruzione, qualche chiesa dalla facciata improbabile e pure alcuni coloratissimi templi caodanisti. Mi chiedo se ci sia una correlazione tra visioni mistiche, dieta bizzarra e temperature cui si è esposti. Perchè oggi fa pure un caldo da diventare stupidi, ma proprio con danni neurologici irreversibili. Ed eccallà, oltre ai topi si vendono anche i serponi da spiedinare.


Produco anche un altro pensiero politicamente scorretto, proprio fastidioso. Ma mi perdonerete: in questo delirio rovente e caotico pedalo con due ore di sonno sulle spalle, con un mal di testa da record e le gambe molli molli, quanto la forza di volontà. Stanotte, infatti, un gruppo di ragazzini ha fatto casino fino alle tre di notte, e ci ho pure dovuto litigare. Nel senso che a un ceto punto sono uscita sulle scale, pregando non si trattasse di energumeni ubriachi o violenti campioni di muay thai, e ho iniziato a urlare frasi irripetibili in inglese, italiano, russo e spagnolo. Nessun idioma è giunto al punto, ma il tono ha fatto spaventare assai la combriccola, che si è quietata. Tuttavia, due ore dopo, per le strade del centro di Can Tho aprivano le prime bancarelle, con i loro strilloni e i megafoni con gli spot registrati. Quindi oggi sono stanchissima ed elaboro pensieri cattivi. Uno è questo, appunto: quanto puoi crescere storto, stupido e abbruttito, se vivi tutta la tua vita immerso nel rumore assordante della strada, nel caos del traffico, dei clacson, delle urla, delle sirene, nel caldo, nella polvere? I danni che non ha fatto la diossina degli statunitensi li sta facendo l'inquinamento acustico! D'altronde è il primo segno di abbrutimento, di de-umanizzazione. Dante all'Inferno ricrea bene la sensazione: tutti urlano, piangono, strillano, gridano, berciano... Ma pochi parlano tranquillamente. E ci sono solo rumori, mai musica, ma silenzio di pace.

Dopo 50km, anche se non sono ancora a metà tappa, devo fare una prima sosta. Bevo una Monster, un caffè freddo, metto Coca-Cola nelle borracce e compro un pacchetto di caramelle al caffè. Penso che, probabilmente, tutto questo, sommato alla caldazza e alla tensione nervosa per non centrare un motorino o un carretto, si risolverà in un coccolone. Mi raccoglieranno da terra in stato confusionale, che pedalo nell'aria, come i ratti quando stanno affogando, come certi campioni del secolo scorso che si bombavano di droghe di ogni genere. Invece non solo non collasso, ma neanche mi sveglio un pochino-ino. Nulla. Anzi. Sbadigli, sensi ovattati, vaffanculi che partono a ripetizione ma sempre in leggero ritardo, rallentati. Un disastro.

Affronto così la traversata di Long Xuyen, che, come dice il nome, è lunga. Fa più di 300.000 abitanti e nasce nel Settecento come mercato di pesce e prodotti agricoli. Ancora oggi è un hub economico importantissimo per la compravendita di questi beni, che vengono smeciati da qui a tutto il Paese e pure in Cambogia e Thailandia. E c'è un tale casino per le sue strade, una tale bolgia infernale... Mendicanti, motorini, minivan, pullman, camioncini, camioncioni, Tir, risciò, carri e carretti spinti a braccia, a pedali, tirati dallo zebù o dallo zio... Il delirio! 



Avanzo sempre più lentamente, e per fortuna non ci sono salite nè  vento feroce a rallentarmi, altrimenti non riuscirei a mantenere la velocità minima per stare in equilibrio. Ad ogni ponte, si aprono scorci di palafitte sui canali. L'acqua è limacciosa, color caffè vietnamita, quello lungo con due kili di latte condensato. Ma no, non è caffè e nemmeno cioccolato. E' acqua piena di fango e anche molto inquinata, al punto che ormai non sarebbe più sicuro nemmeno usarla per irrigare o consumare il pesce che ci vive. Figuriamoci. Sarebbe subito carestia.







Quando la strada corre proprio a ridosso dell'Hau, si vedono i chiattoni e le barche, e tutto il movimento di uomini e merci che solca queste correnti. Sono numerose anche le aziende che lavorano riso e cereali, e caricano le farine o i chicchi sui ponti delle navi attraverso enormi rubinettoni che vomitano sul fiume quando l'imbarcazione è posizionata giusto sotto. Idem accade con la ghiaia, e talora non si distingue se sia prodotto ad uso alimentare o edile. Anche perchè è un continuo bruciar spazzatura e sterpaglie, e l'aria è opaca di fumo spesso, grigio, maleodorante, che attacca in gola.




Per una decina di kilometri riesco a lasciare lo stradone e a imboccare una via che taglia per le risaie. Una breve boccata d'ossigeno, anche se, pure qui, non mancano gli sciami di motorini dei contadini che han finito la giornata nei campi. Tra l'altro, noto che su una risaia sta volando basso un drone enorme. Hai capito! Cappelli di foglie intrecciate ed alta tecnologia.




Mancano ancora 21,6km, e sono soprattutto quegli 1,6 a farmi paura. 20 si possono affrontare. 21,6 sono tantissimi. Faccio una sosta gelato (al bubble tea) e limonata frizzante acida da svegliare i morti. Già da stamattina ho notato che nei negozi e supermercatini ci sono i parcheggiatori di motorini/guardie giurate che mi trattano con deferenza e mi aprono la porta. White privilege o faccio proprio pena? Qui consumo la mia merenda seduta su un gradino fuori dal locale, con le gambe tra le ruote calde degli scooter. Mi addormento per frazioni di secondo, ma mi svegliano le continue sclacsonate. Davanti a me un negozio "apple" e uno che vende durian. Tuttifrutti.



Riparto nel casino, tra fumi di griglie su cui sfrigola carne di qualsiasi bestia e un inseguirsi di temporali. A terra è tutto fradicio con pozze enormi, deve averci dato poco fa. Io prendo solo un po' di pioggia a tratti, ma non mi dispiace: almeno abbassa un po' la temperatura e mi tiene sveglia. Conto, anche, da 1 a 100, alla velocità con cui scorrono i decametri sul ciclocomputer. Ogni 100 è passato un kilometro. Il cervello deve stare acceso e ogni sistema è buono.






Arrivo a Chau Doc che son proprio del gatto. Ho prenotato una camera privata in un posto che si chiama "Hostel and billiards", il che fa già capire il tenore del luogo. Ma è in pieno centro, a due passi dal molo dove dovrò imbarcarmi domattina. Prendo la camera, mi spoglio, mi butto sul letto tenendo giù le gambe e i piedi che sono infangati, e usando un asciugamani arrotolato come cuscino, e dormo un'ora, così, senza neanche rendermene conto.


Chau Doc è proprio una città di confine. Divenuta vietnamita solo nel Settecento, ospita comunità cinesi, khmer e cham, queste ultime musulmane, tanto che, sull'altra sponda del fiume, sorge la grande Moschea di Mubarak con tanto di madrasa dove i bambini imparano a leggere il Corano in arabo. A una manciata di kilometri si erge il monte Sam, considerato sacro da buddisti di ogni scuola, pullula di pagode Otto e Novecentesche, con influenze architettoniche hindu, islamiche e cinesi Non distante si trova poi la maestosa foresta di Tra Su Cajuput, 800.000 ettari di mangrovie tappeti di fior di loto, canali e nidi di uccelli migratori. Ovviamente ci sono anche storie meno felici. A Chau Doc, nel '57, furono ammazzate con una sventagliata di mitragliatrice 17 persone che bevevano tranquillamente in un bar. A ucciderle furono i comunisti fomentati dalla propaganda anti-Vietnam del Sud. Si dice che il Viet Cong, per convincere contadini e pescatori ad ammazzare loro compaesani in maniera così feroce e gratuita non stessero lì a spiegare la teoria del Partito o la necessità di riunificare il Paese senza influenze straniere. Dicevano che se ammazzavi 20 persone acquisivi poteri magici, come volare, e a 100 diventavi un angelo. Chissà che delusione scoprire di essere diventati assassini e criminali, e senza ali. Ma non è tutto. Tra 18 e 30 aprile '78, quando la Guerra del Vietnam era finalmente conclusa, un manipolo di khmer rossi dalla Cambogia passò il confine per far strage di 3157 abitanti dei villaggi della zona, compresi neonati e anziani. Sopravvissero solo in due. Ci sono un ossario e un museo a memoria di questo orrore (che andrò ad approfondire per bene proprio dove è nato).

In tutto questo fluire e rifluire di storia, io mi limito a comprare una cenetta e tantisssssima acqua (la seta a sera è indescrivibile) e apprezzare i roncissimi banchetti di street food, e i gruppi di sciure che ballano insieme al parco lungofiume per tenersi in forma. Poi, nonostante un improbabile karaoke che pervade la strada delle sale da biliardo (oh, quanto piacciono ai vietnamiti! Quanto fa macho, trasgressione, virilità! Potrei vomitare in tutte le buche del tavolo, se ci penso), crollo in un sonno a forma di buca profonda. Ah, ho anche prenotato le tre notti di hotel a Phnom Penh... Quando si dice far le cose day by day... Sveglia alle 6, alle 6.30 mi attende il traghetto. Domani si passa il confine. 


 
26/7
Chau Doc-Phnom Penh
110km in traghetto

Durante la notte mi sveglio più volte, convinta sia tardi. La mia mancanza cronica di puntualità mi tiene all'erta, perchè mi conosco fin troppo bene. Ma no, questa volta è tutto in ordine. Alle 6 suona la sveglia, alle 6.20 sono in strada, con il ragazzo dell'hotel che mi insegue tutto addormentato perchè si è accorto adesso che non ho pagato la notte. In effetti Booking non ha scalato la somma... Che figura, l'ho salutato venti volte tra sorrisoni e manine alzate, come potevo immaginare che nella sua testa stavo cercando di fuggire con il debito? In ogni caso, alle 6.30 sono al molo, che si raggiunge entrando nei giardini del Victoria Hotel, unico albergo di lusso, in stile coloniale, costruito dai francesi e tenuto così, con il suo fascino decadente, le barche in legno che galleggiano sulle ninfee e pochi occidentali cafoni ad alloggiarci, con la spocchia disgraziata dei ricchi ignoranti. Sono la seconda ad arrivare. Prima di me un Neozelandese con cui chiacchiero circa un'ora, il tempo maledetto che arrivino questi altri compagni di traversata che pensano che il mondo ruoti attorno ai loro comodi. E trattano male lo staff del traghetto, cosa che mi fa ribollire il sangue. Due coppie un po' attempate, poi, parlano in francese pensando che io non capisca, e mi accorgo che fanno commenti sulla bici (eh, ma non ci sta, ma dove la caricano, ma cos'è, ma perchè) e sulle cicatrici che ho ai gomiti (hai visto, che roba, eh ad andare in bici da queste parti... Come se non mi fossi fatta i danni a Bareggio e Turbigo). Infatti rispondo in inglese, e dico che purtroppo questa faccenda è tutta italiana. Da lì, non faranno più commenti.










Nonostante l'ora, fa già un caldo che si sguascia. Finalmente lorsignori arrivano tutti, vengono caricati i bagagli, le persone, la Signorina Felicita, e si parte. Il primo tratto di navigazione è lungo il fiume Hau, tra le famose case galleggianti (in lamiera, su barili di plastica. Sotto ci sono reti in cui vengono allevati i pesci) e un via vai di barchini di pescatori e chiatte cariche di granaglie, legname e frutta. Ci sono anche dei barconi-gabbia che trasportano pollame. Vuoi mai che resti senza.












Entriamo quindi nel Mekong, immenso e maròn, che ad ogni schizzo d'acqua che arriva in faccia ti fa pensare di aver preso ALMENO tre malattie, di cui una rara e difficile da diagnosticare. Ma dura poco. In neanche un'oretta siamo al confine.



Dal lato vietnamita devono solo controllare che nessuno sia fuori regola con scadenze di visti e simili. La frontiera consiste di un pontile e una chiatta ormeggiata, dove si trovano gli uffici della polizia, un bagno che non vi dico, un baretto che pare addobbato per una festa di compleanno triste in RSA e, in loco, una sciura che cambia valuta e vende i classici pantaloni bracaloni con gli elefanti. Dobbiamo sbarcare, attendere che finiscano i controlli (20 minuti circa) e possiamo ripartire.





Neanche tre minuti dopo siamo alla frontiera Cambogiana. Qui è tutto un po' meno festoso. Si scende proprio sulla terraferma, tramite rampa metallica ripidissima che pare quella dei percorsi a ostacoli che si vedono in tv. In cima, come premio, due cani marci, tre guardie assopite e qualche tempietto. Noto subito la bellezza dei caratteri dell'alfabeto cambogiano, e la volontà estetica di ricreare, nelle porte e negli edifici, le forme tradizionali dei tetti delle pagode. In Vietnam il realismo/brutalismo ha molto stemperato questo gusto per il bello-antico. Certo non è luogo dove ti auguri di aver problemi. La polizia è estremamente seriosa e fa ottocento controlli incrociati dei passaporti. Scatta foto, prende le impronte digitali. Mentre siamo in fila per queste pratiche tra una baracca di lamiera e l'altra, in nuguli di zanzare, passano tre monaci con le toghe color zafferano per la questua del mattino. Altro mondo proprio, in Vietnam, in un mese, li ho visti solo una volta. Nel giro di un'ora abbiamo tutti il visto, il timbro e la migration card sul passaporto, scherzuccio che costa 35 dollari (compresa la commissione che si tiene lo staff del traghetto per "agevolare" la pratica). Che figata! Un nuovo paese sbloccato!






Risaliamo in barca. Al mio posto trovo un anziano che non solo finge di non capire cosa gli stia dicendo, ma fa pure finta di non sapere che sul sedile avevo lasciato il borsetto a manubrio (senza nulla di valore dentro, ma tante cose utili). Alla fine lo aveva solo spostato sul ponte... Ma si vergogna abbastanza da levarsi di culo, pur brbottando. Ci danno un pacchettino con una merenda, e da qui piombo in tre ore di sonno profondissimo, agevolato dall'arietta dell'andatura rapida del traghetto. Una goduria!



Quando apro gli occhi, mi si parano davanti palazzoni moderni e grattacieli scuri, quasi color dell'acqua. Ma allora siamo arrivati! Questa deve essere per forza Phnom Penh! E infatti è proprio lo skyline della capitale cambogiana.



Sbarco, rimonto le borse sulla bici, e percorro i 600m che separano il molo di attracco dall'hotel. Ne ho prenotato uno in centro e facile da raggiungere anche senza navigatore, perchè attualmente sono disconnessa, ma non voglio acquistare la Sim con la bici al seguito, che mi costringerebbe a tenere sempre un occhio alla strada. L'ordine delle pratiche è questo; check in, atm per cash (ho i dollari, che qui sono usati legalmente al pari dei riel, ma non voglio spenderli tutti perchè, per emergenza e ai confini per i visti, servono), sim, inizio visita della città. Dopo aver schivato un paio di proposte per una corsa in tuktuk, cammino fino alla guesthouse. Abituata al Vietnam, neanche mi viene in mente di usare i marciapiedi, e procedo sul margine destro della carreggiata. Ma noto, da qui, che i marciapiedi ci sono e sono utilizzabili (per lo più), ampi e sufficientemente sgombri. Incredibile, il ritorno della civiltà! Noto anche che c'è molto, molto più silenzio: l'uso del clacson è limitatissimo, quasi inesistente; da commuoversi, cambogiani già vi si ama! Si sentono le voci dei mercati, dei venditori ambulanti, i campanelli dei gelatai con il loro carretto... Ma non quel delirio di strombazzate cui non mi ero affatto abituata. Inoltre noto, in generale, un flusso di traffico più ordinato. Ci sono molti meno motorini e più auto, tantissimi tuktuk e risciò, sia a pedali sia trainati da motorini o tricicli (remork), e ci sono semafori, strisce pedonali e un senso generale di regole civili. Il codice della strada, insomma. Tutto questo mi dà subito un senso di pace interiore e ottimismo per i prossimi giorni che non vi dico. Perchè un conto è visitare i luoghi da turisti, un conto è pedalarci dentro metro a metro. Oltretutto questa sensazione stride con le aspettative e con il livello generale di povertà diffusa che vedo. Mi spiego: la Cambogia, rispetto al Vietnam, è un po' meno sicura; soprattutto nelle località turistiche, come qui, nella capitale, si sono registrati casi di scippo e rapina, talora con esiti nefasti; è noto il caso di una turista francese che è morta perchè, mentre pedalava, è stata aggredita da ladri in moto che, nello strapparle la borsa, l'hanno trascinata contro un'auto. Ovunque si leggono richiami all'attenzione, a non vagolare con il cellulare in mano e la faccia da pirla... Insomma, ocio ma anche orecio. E non deve stupire questa microcriminalità più diffusa: rispetto al Vietnam, la Cambogia è più povera. E più sfigata. Dopo il crollo dell'impero Khmer, infatti, si è dovuta difendere dalle continue aggressioni da parte dei più forti e ingombranti vicini, il Siam e il Vietnam, per poi finire nelle grinfie dei francesi, bombardata a scanno durante la Guerre d'Indocina (800.000 morti solo nella seconda), sotto l'egida del più folle dittatore di tutti i tempi, che ha sterminato 1/4 dei suoi concittadini, invasa ancora dal Vietnam (e meno male, a questo punto, visto quel che Pol Pot stava facendo) e, ora come allora, economicamente un burattino nelle mani dei cinesi. Insomma, non proprio un Carnevale. Quindi c'è più povertà diffusa, quindi i sistemi di redistribuzione della ricchezza passano anche da canali illegali e violenti. Ora, io vorrei evitare di finirci immischiata. Si vede, eh, che ci sono tante più persone che vivono per strada, che chiedono l'elemosina, e bambini che lavorano, vendono cose, si arrabattano.

Insomma, c'è più miseria, ma c'è anche più ordine. C'è più degrado, ma anche più ricerca della bellezza nella sue forme tradizionali. Come in Thailandia, noto che anche qui, se una cosa si può far funzionale e brutta o funzionale e bella, si opta per la seconda. C'è un senso estetico forte e diffuso, condito da orgoglio nostalgico, forse, di un passato di grandezza che si sospira di continuo. Quante cose si percepiscono in 600 metri!

Arrivo così in rifrullo alla Guesthouse, e mi accoglie un ragazzo che è il prototipo dello khmer: pelle scuretta, capello lungo mosso, baffo e barba decisamente più folti di quelli spelacchiatelli dei viet, occhi mogano, naso un po' schiacciato e un sorriso candido e larghissimo. Mentre chiede di preparare anticipatamente la stanza, mi intrattiene sui divanetti, dell'ingresso raccontandomi di come abbia rilevato la proprietà e stia cercando di avviare ristorante e bar/lounge, vista le felice posizione centralissima. Credo che i proprietari siano lui, il fratello, uguale ma più chiaro e con i capelli corti, gli occhiali tondi grandi e camicie hawaiane improbabili e la moglie di uno dei due, una bellissima donna fieramente khmer che mi viene presentata come "head chef". Sì chef!
Quando la camera è pronta, salgo e isso anche la Signorina Felicita, che trova il suo posto sul balcone. Che meraviglia! 





Dopo una doccia rapida e un istante di decompressione (fa MOLTO caldo anche qui... Ma dai?) mi tuffo nel cuore di questa che fu "Perla dell'Asia", oggi centro economico e di cultura dove vivono tre milioni di anime. La leggenda narra che fu fondata quando una donna, Penh, trovò quattro statue del Buddha sulle sponde del Mekong, e decise di porle su una collina (Phnom), dove nacque un centro abitato; la storia spiega più chiaramente che, intorno al 1440, Angkor, capitale dell'Impero khmer, fu abbandonata perchè lontana dai fiumi, vie di commercio, e non difendibile dal regno thai di Ayutthaya (se avete seguito il mio viaggio dello scorso anno sapete già tutto). Qui invece c'erano il fiume e i traffici aperti con Cina e Laos, ma pure con la lontana Indonesia. Così la città crebbe e divenne florida, con un apice nel XVI secolo. Poi, però, la Cambogia, come dicevo, si trovò schiacciata tra le mire espansionistiche dei regni siamese e vietnamita, e nel 1863 divenne protettorato francese. Fu nel periodo coloniale che la città prese l'aspetto attuale, con i suoi quartieri, le vie che non hanno nome ma numero, gli edifici governatici imponenti e i mercati coperti. 90 anni i francesi se ne andarono, e, nel breve periodo di pace e indipendenza, la città prosperò, fino a toccare il mezzo milione di abitanti nel 1970, anno in cui il re fu deposto come un ovetto. Quando la Guerra del Vietnam coinvolse anche la Cambogia, Phnom Penh si riempì di profughi (3 milioni). Il 17 aprile 1975 i khmer rossi presero la capitale e deportarono quasi tutta la popolazione, nel loro assurdo, folle e suicida programma di rivoluzione radicale. Durante il periodo terribile della Kampuchea democratica, tutte le classi più colte furono sterminate, e chi viveva in città fu costretto a bastonate e minacce di morte, spesso attuate, a spostarsi in campagna, a coltivare riso senza saperlo fare, per due cucchiai di zuppa al giorno e 19 ore di lavoro nei campi. Phnom Penh non superò mai, in quegli anni, i 50000 abitanti, per lo più quadri del partito e mestieranti analfabeti con le mani sporche di sangue. Solo nel '79, con l'arrivo dei vietnamiti, la città si ripopolò, anche se fino agli anni '90 per le vie c'erano ancora più mucche che automobili. Poi, anche grazie a un discreto afflusso di denaro da parte delle Nazioni Unite, ci fu un boom economico che prosegue ancora oggi; si è partiti dalle basi: fogne, strade, case. Poi parchi, lungofiume, piazze, mercati. Infine grattacieli, sedi di investitori che considerano Phnom Penh una buona alternativa a Bangkok e Hanoi, ristoranti, hotel e mall di lusso. Insomma, la storia anche qui corre in fretta, e non fa prigionieri.





Tra caotici mercati rionali, grattacieli, conducenti di risciò e tuktuk che pisolano sui loro mezzi e gabbie piene di animali che non capisco neanche più se siano venduti per compagnia o scopi alimentari (e ormai fatico a guardare, sono abbastanza satura di dolore taciuto che traspare dagli sguardi tra le sbarre), mi dirigo ad un negozio Metfone, compagnia telefonica che, stando alle mie ricerche, dovrebbe garantire una miglior copertura nelle aree rurali (quelle in cui già mi vedo a cristare in khmer, con il fango alle ginocchia e la paura di finire su una mina inesplosa o in una fossa comune piena di nemici del Partito). Nel tragitto, ritiro un po' di riel, cosa non immediata visto molti atm emettono solo dollari. Che poi questa dollarizzazione si capisce, eh: dopo la Guerra del Vietnam, il riel si era completamente svalutato. E durante il regime di Pol Pot, il denaro era proprio stato abolito. E negli anni '90 c'è stato un massiccio afflusso di truppe dagli Usa, ergo...
In ogni caso, riesco a sbrigare tutte le faccende. La sim costa 2 dollari, più 4 di piano da 60 giga che mi basta e avanza. Qui nei negozi considerati di lusso (un provider telefonico lo è) c'è il portiere anziano ed emaciato che ti apre e chiude, con mille riverenze. La ragazza che sbriga la mia pratica è gentilissima e fa tutto in un attimo. Si rivolge a me come "sister". Noto poi che è uso. Sorella, fratello. All'inizio mi fa sorridere, sembra il nostro "bro". Poi penso che forse è rimasto in uso dal periodo della Kampuchea Democratica, quando, tra le mille follie, c'era anche l'idea dell'anonimato per i dirigenti (fratello numero 1, 2 ecc) e della spersonalizzazione dell'individuo, per cui non si aveva più nemmeno la proprietà privata della propria identità, e nemmeno dei pronomi maschile o femminile (si usava il neutro). Mi vengono i brividi, sister suona ora decisamente meno simpatico.

Con molti pensieri e tutte le incombenze logistiche sbrigate, mi metto in cammino verso il centro, che è a breve distanza. Passo tra fabbriche di statue sacre, Buddha e Naga (sono molti gli artigiani che si occupano di questa attività, tanto più dopo le feroci distruzioni degli khmer rossi, che se la presero con i luoghi sacri di tutte le fedi, comprese le chiese cristiane e le moschee cham); noto ancora come, pure nei luoghi pubblici, nei parchi, nelle recinzioni delle pagode, ci sia la volontà di richiamare lo stile architettonico classico. E di costruire bellezza diffusa. Fa bene agli occhi e al cuore, dopo tanto cemento a cubi.





I passi mi portano a quello che ritengo uno dei punti chiave da visitare per comprendere questo Paese nuovo in cui a corrente di un gran fiume mi ha condotta: il Museo Nazionale Cambogiano. A parte il prezzo del biglietto d'ingresso, che non è più viet style (10 dollari), è un luogo di pura meraviglia. Innanzitutto la sede è un palazzo in terracotta che ha solo 100 anni ma è costruito in stile tradizionale, con i naga sui tetti e i guardiani di pietra alle scalinate. Custodisce al suo interno la più bella collezione di arte cambogiana, che vanta un ricchissimo patrimonio millenario che gran parte di noi occidentali neanche sospetta, e io non mi escludo. Si accede da un delizioso giardino, popolato da studenti che festeggiano la maturità e monaci in tunica color zafferano che si fanno fotografare perchè magari vengono da paesini remoti nelle campagne e sono orgogliosi della loro visita alla capitale; sono tutti giovanissimi. Qui usa ancora che gli adolescenti, per completare la loro formazione, compiano qualche anno di studio in monastero, come in Thailandia. 





La visita si snoda tra pezzi incredibili che mostrano l'evoluzione dell'arte khmer, dalla preistoria al Novecento. Le prime sculture e bassorilievi manifestano fortissime influenze indiane, rappresentano divinità o animali mitologici induisti che poi vengono sostituiti da Buddha di vario genere. Gran parte della collezione risale al periodo dell'impero di Angkor, ma è sorprendente ammirare la raffinatezza delle produzioni precedenti, oltre alle preziosi iscrizioni che, in ogni epoca, sono rimaste a testimoniare eventi storici, nomi e usanze rilevanti. Le foto che vedete sotto sono in ordine cronologico dal V al XIII secolo.
















Fun fact non troppo fun: il museo nacque pe volontà di storici e archeologi francesi, ma fu poi degnamente potato avanti fino all'arrivo di Pol Pot. Allora fu abbandonato, e nel tetto si insediò una gigantesca colonia di pipistrelli, la cui presenza (e il cui guano) causarono ingenti danni alla struttura e alle opere (quelle rimaste non trafugate). Ma il guano dei pipistrelli è un ottimo fertilizzante e si vende a prezzo interessante sul mercato. Ergo, ancora oggi nel tetto ci sono i pipistrelli cagoni, e son fonte di reddito.
Esco rigenerata da tanta bellezza, e con le idee più chiare su stili e periodi della storia di Cambogia. Mi sarà utile poi quando incapperò in templi e pagode inattese, per via. Siccome ho sete, entro in un C Mart (tipo 7-11) e noto con orrore che qui ancor meno che in Vietnam hanno bevande "zero". Voi direte: ma che problema c'è? Nessuno, di fondo. Ma. Bevo tutto il giorno acqua sempre mezza calda simil-pipì gusto plastica di borraccia. Quando non sono in sella gradisco sapori diversi, ma non posso pensare, vista la sete immensa che mi perseguita, di ingurgitare kili di zucchero via tè freddi e limonate, succhi e cocacole. Ergo, finisco sull'unica cosa non zuccherata che trovo: un tè che sa di pneumatico bruciato (e dovrebbe contenere riso/barbe di granturco, ma chissà).


Mentre mi pento, ma solo in parte, delle mie scelte, passeggio per le vie del centro, intorno al Palazzo reale che visiterò domani. Ci sono molti bagni pubblici intorno ai parchi, tutti con una popolazione di senzatetto, bambini e donne inclusi, che ci vivono intorno. I cartelli recitano due regole fondamentali da rispettare nei bagni: non drogarsi e non lavarsi i piedi. Ok. Le vie intanto si popolano di banchetti e bancarelle, e, tra lo street food, qui compare spesso l'insetto, in ogni sua forma: grilli, cavallette, bacherozzi più o meno carnosi... E ragni. O quanti grossi ragni pelosi si vedono sugli spiedini!




Come ultimo luogo da visitare, per questa mezza giornata, scelgo il Wat Ounalom, che non è il più antico nè il più maestoso tempio della nazione, ma è il più importante in quanto sede del patriarcato buddhista cambogiano. Risale al 1443 ed è un complesso di 44 edifici. Durante il regime della Kampuchea democratica fu devastato e massacrati i monaci, ma oggi è tornato a splendere e ospita una nutrita comunità. Oltre a numerose statue di Buddha e monaci fatte a pezzi dagli khmer rossi  e recuperate poi dal fondo del Mekong, una stupa conserva la reliquia di un pelo di sopracciglio di Sakyamuni. Meno male è di sopracciglio.







Rientrando sul lungofiume, mi imbatto in quella che forse è l'attrazione più interessante: il mercato, di street food e non solo, che apre la sera su Sisowath Quay, quando il vialone viene chiuso al traffico e diventa una grande isola pedonale illuminata a festa.

































Ci sono bancarelle di abiti, scarpe (ciabatte), artigianato e giocattoli, ma soprattutto cibo. Alcune sono molto fighette e ricordano i nostri stand delle fiere; propongono prodotti particolari, stranieri (come il tiramisù, i churros, il gelato, le crepes o il sushi) o DOP, come lavorazioni del durian, miele o caffè. I più, però, vendono cibo di consumo quotidiano, come spiedini di pesce, carne o verdure, noodles, riso saltato e zuppe, molluschi, insetti, fritture e frutta tagliata e guarnita con sale e peperoncino. Tutto costa tra 1 e 5 dollari, e ci sono tavoli e sedioline in giro dove ci si può accomodare. Non mancano poi gli assaggini gratuiti, che io non manco di acchiappare al volo, con mucho gusto.








Mi spingo fino all'estremità opposta, rispetto a dove son partita, dell'area pedonale, che coincide con il Night market vero e proprio. Qui c'è più merce che cibo, ma non mancano i baracchini che propongono persino l'hotpot su tappeti e cuscini stesi a terra, in una sorta di area comune per tutti i clienti del mercato.




Torno sui miei passi, anche perchè tutti questi profumini cominciano a stuzzicarmi l'appetito e son tentata. Sarebbe uno sgarro alle mie rigidissime regole per non ammalarmi, ma qui sembra abbastanza sicuro: viene tutto preparato al momento, cotto in acqua o olio bollenti e i prodotti paiono freschi. Quasi quasi... Mentre cammino, passa un piccolo corteo di giovanissimi con le bandiere della pace e cartelloni che inneggiano a cessare le ostilità con la Thailandia. Sarebbe un'ottima idea, ragazzi miei. La condivido in pieno.




















In questo mar di gente, tra cibo da sfamare tre nazioni, luci, turisti, mendicanti e relitti della storia, trovo la mia bancarella. Oltre agli involtini di carta di riso (sicuramente buonissimi ma pieni di verdura cruda lavata chissà come, forse), ha un assortimento di prodotti (carne, interiora, polpette, pesce, salsicce, verdura, uova...) pastellati che si possono friggere al momento. Riempio il mio cestello con verdurine varie tutte belle speziate e giù che finiscono nell'olio bollente, che, mi auguro, dovrebbe annichilire la carica batterica.





Ed eccomi qua, sullo sgabellino di plastica basso basso, in mezzo alla folla vociante, con un piattino delizioso davanti e tutta la Cambogia intorno. Spazzolo anche le salsine e la verdura cruda, pregando il dio delle intossicazioni alimentari di essere buono, con me, che sto cercando di comportarmi a modo. Credo mi ascolti e accolga la mia prece, perchè, finora, tutto bene. Domani e dopo mi attendono due giornate tranquille di visita. Mi servono anche per capire come funzionano qui le cose, almeno in parte, e per preparare le tappe. O meglio, pomeriggio ne ho approfittato e le ho affinate. Da qui ad Angkor Wat, per la via lunga che imboccherò io, sono 5 giorni in sella, che finiscono tutti in paesi o città. Da Angkor al confine con il Laos tre giorni e mezzo, invece, piuttosto wild, in zone remote e non turistiche del paese, dove alloggi e servizi sono proprio ai minima moralia. Ma sono curiosissima anche di questo volto più umile e forse più autentico della Cambogia, che, per ora, mi si è mostrata solo nel suo lato sgargiante e pirotecnico.

27/7
Phnom Penh

Allacciate le cinture, perchè oggi si vola su un rollercoaster storico-emotivo altamente destabilizzante. Ho visto tantissime cose, tutte interessantissime, fondamentali per comprendere questo Paese in cui sono appena sbarcata. Sto iniziando a vedere meglio, a mettere a fuoco. Seguitemi.

Esco con calma, stamattina dormo volentieri un po' più a lungo del solito, con quel raro gusto di star nel letto anche quando la luce già inonda la stanza. Oh, sembra quasi di essere in vacanza! Doccia e via, a dare il buongiorno al capo del patriarcato buddhista di Cambogia. Ciao!



Mi dirigo poi lesta al Palazzo reale, schivando tutti i guidatori di tuk tuk che cercano di convincermi che il sito sia chiuso, o inaccessibile oggi, per propormi destinazioni alternative che porterebbero un po' di soldini nelle loro tasche. Cari miei, se c'è un lato positivo dei social, è che quando l'algoritmo si geolocalizza, propone reel a tema, e ora conosco, per il racconto di altri viaggiatori, tutte le truffe e i raggiri più diffusi a danno dei turisti che visitano Phnom Penh. Quindi via diritta a passi lunghi e ben distesi, fino al palazzo. Che ovviamente è apertissimo e visitabile, e ci sono anche frotte di neodiplomati con la loro divisa scolastica a farsi foto con la il diploma in mano. Belli loro!





Il Palazzo reale domina lo skyline sul lungofiume e spicca con i suoi tetti tradizionali con le decorazioni dorate, le guglie e i naga khmer. Assomiglia, in tono minore, a quello di Bangkok, che, personalmente, ho trovato molto più ricco ed elaborato. Alcune zone sono interdette al pubblico in quanto ancora in uso per cerimonie o uffici del sovrano. Perchè sì, dopo larghissimi e tragici giri, la Cambogia è tornata a essere monarchia. La domenica gli abitanti delle campagne vengono a rendere omaggio al re, e in effetti ci sono più cambogiani che turisti stranieri. Ci si deve coprire spalle e ginocchia, non si possono indossare cappelli, ma è lecito sputare rumorosamente a terra e lasciare immondizia in giro. Il concetto di rispetto pure varia di cultura in cultura.







Si accede al complesso da un palazzo in cui venivano messi in scena spettacoli di danza tradizionale, molto apprezzati dalla famiglia reale; si raggiunge subito l'imponente sala del trono, sormontata da una torre di 59m che richiama il Bayon di Angkor. Questo edificio è ancora oggi sede di incoronazioni, cerimonie ufficiali e incontri diplomatici. Molti degli oggetti preziosi che la decoravano sono stati razziati dalle milizie di Pol Pot.







L'ultima foto qui sopra, questa struttura in ferro che stona con tutto il resto ed è del tutto inadatta al clima cambogiano perchè diventa una graticola, è il padiglione di Napoleone III, dono dell'imperatore francese al re Norodom, in epoca di colonizzazione. Che figuraccia, Napo! Potevi degnarti di qualcosa di più degno!

In una delle poche strutture aperte si trova un microscopico museo che espone abiti da cerimonia sia del sovrano sia del personale che lavora a palazzo. Si usa un colore diverso per ogni giorno della settimana... Praticamente un calendario umano? "Caro, che giorno è oggi?" -"Non ricordo, guarda come mi è vestito l'Ambrogio così ci leviamo il dubbio!"





Il pezzo forte nel complesso resta però la Pagoda d'argento, chiamata così per il pavimento composto da 5000 piastrelle d'argento massiccio, da 1kg l'una (sì, 5 tonnellate in totale). Vi si accede da scalinate n marmo italiano e, all'interno, si trova un Buddha di smeraldo su piedistallo in oro. Se ciò non bastasse, aggiungete la statua del Sakyamuni a grandezza naturale in oro (90kg), con 2086 diamanti, il più grande dei quali è di 25 carati. Ci sono anhe altre statue di dimensioni minori in argento e oro, che basterebbero comunque da sole a risolvere il problema delle bidonville in periferia di questa città. Questa pagoda del 1862 fu risparmiata dagli khmer rossi, che volevano dimostrare al mondo quanto interesse avessero nel conservare la storia e la cultura locali (oh!). In ogni caso molti oggetti preziosi sono andati persi o distrutti, ma quel che resta è sufficiente a capire la ricchezza  e lo sfarzo dell'arte khmer al suo apice.








Tutto intorno al complesso corre un portico meravigliosamente decorato con un dipinto murale che illustra scene del poema epico indiano Ramayana (chiamato Reamker in Cambogia). Questo affresco è del Novecento ed è attualmente in restauro, ma, per ricchezza e cura dei dettagli, ricorda da vicino quello del Palazzo reale di Bangkok (a cui tutto qui si ispira, evidentemente). 















Negli edifici circostanti si trovano pagode straripanti di statue votive, doni e offerte, altari, guardie assonnate che stanno sbracate a terra e gatti schivi che approfittano del fresco. Perchè sì, oggi per la prima volta posso dirlo davvero: il clima è mite e piacevole, pioviggina, ma non troppo, e tira un venticello frizzante. Una goduria!






Prima di uscire, mentre un musicista suona strumenti tradizionali ricreando un'atmosfera quasi sacrale, visito alcune curiose esposizioni: quella delle portantine reali (una prevede che il re penzoli su un'amaca), quella delle selle reali da elefante reale (bianco), quella dedicata alla difficile vita del penultimo re, che ha abdicato in favore di suo figlio, attualmente al trono, e quella che spiega come funzionino i cortei reali, con tanto di modellini-bambolotti così brutti da fare il giro e diventare bellissimi.













Esco dal Palazzo reale e passeggio piacevolmente tra parchi, ampie piazze e vialoni dal verde curato. Il traffico scorre silenzioso e liscio, lontano, e intorno si intravedono tetti di pagode, stupa, e palazzi coloniali, ma pure grattacieli e mall tutti vetri e luci. Davvero questa città sta cercando di rinascere, e pare pure ci stia ben riuscendo. 


Passo accanto al Monumento dell'Amicizia tra Vietnam e Cambogia, del '79. Ci sono due soldati che pare proteggano con le loro armi una donna. C'è dell'ottimismo? C'è della coscienza sporca? Pare certo che qui la sera si radunino i local per giocare a calcio, a takraw (pallavolo con i piedi) e fare aerobica insieme.








Cammina e cammina, raggiungo la statua di Norodom Sihanouk, anch'essa location per le foto dei diplomati. Re, primo ministro, statista... Morto nel 2012 e da allora consacrato al rango di eroe nazionale. In effetti, anche solo per la quantità e portata di accolli e pigne in culo che ha dovuto affrontare quest'uomo... Re dal '41 al '55 e dal '93 al 2004, ma pure 10 volte primo ministro, tre volte Capo di Stato con altri titoli e presidente del governo di coalizione della Kampuchea Democratica. Non se ne è fatta mancare una! Tendente alla dittatura, vicino ai comunisti, ma nemico di Pol Pot. Un personaggione.


A proposito di pigne in cu


Lo vedete questo bel monumento? E' dedicato all'indipendenza dalla Francia nel '54, e dovrebbe richiamare la torre centrale dell'Angkor Wat. Oggi commemora anche i morti della guerra civile. 


Cammino un altro paio di kilometri in quartieri sempre meno curati e più maleodoranti, cadenti, degradati, pieni di ratti e spazzatura, e con un bel canale di acque nere che scorre in mezzo alle abitazioni, da cui sale un aroma degno del Fiume dei Profumi di Hué.


La mia meta è il Museo del Genocidio Tuol Sleng. Se approfondire le atrocità della Guerra del Vietnam è stato emotivamente d'impatto, entrare e uscire da qui è stato come affrontare il Minotauro nel labirinto, e senza alcuna Arianna a tenere il filo. Qui la follia umana ha raggiunto vertici di crudeltà e orrore che davvero risultano incomprensibili, insondabili. Non si può che accogliere quel che è stato, farne memoria, raccontare e agire perchè nulla di simile mai si ripeta più. L'Unesco ha inserito questo luogo nei siti della Memoria del mondo. Forse per ricordare che l'Onu sapeva perfettamente cosa stessero facendo gli Khmer Rossi, ma... Andava bene così. Farò una sintesi perchè resto a visitare il museo per oltre 3 ore, grazie anche all'audioguida dettagliatissima e mai noiosa, in italiano, capace di trasportare direttamente nel cuore della tragedia, con anche voci di sopravvissuti (sette, e solo perchè utili ai quadri) e testimonianze dirette dei processi agli aguzzini.


Questo luogo, in origine, era una scuola. Un liceo. "Del mango selvatico", perchè nel cortile crescevano tanti alberi da frutto, che ancora oggi sono lì, e han visto tutto. Nel 1975 gli Khmer Rossi ne fecero un carcere di massima sicurezza, dopo aver preso Phnom Penh, distrutta e colma di profughi, e averla svuotata con deportazioni forzate ai campi di lavoro nelle risaie. Con carcere di massima sicurezza, Security prison 21 (s-21) si intende luogo dove chiunque, per il più futile dei motivi, venisse sospettato di essere nemico della rivoluzione, veniva portato, torturato nei modi più atroci anche 3 volte al giorno, finchè non confessava qualcosa, quale che fosse, e veniva tenuto in celle microscopiche, nudo, senza nome, senza cibo, tra insetti, escrementi e cadaveri. Uomini di ogni età, anziani, donne, bambini. Nessuno era escluso. Anzi. Quando qualcuno veniva sospettato, tutta la famiglia subiva la medesima sorte. I bambini, solitamente, venivano strappati subito alle madri e, se abbastanza piccoli, ammazzati sbattendoli contro i tronchi degli alberi, tenendoli per le gambe. Tra il '75 e il '78 almeno 17.000 persone sono morte qui o nel vicino campo di sterminio di Choeung Ek. Qui infatti non si doveva morire: qui si veniva processati. E c'erano medici a tenere in vita i detenuti moribondi, perchè potessero essere torturati ancora. Una volta stabilita la condanna, allora sì, via alle fosse comuni, dove si veniva ammazzati a bastonate in testa, perchè i proiettili costavano troppo.
Ho detto medici a tenere in vita i moribondi... In realtà analfabeti macellai che iniettavano latte di cocco in vena e imparavano l'anatomia vivisezionando esseri umani. Perchè i medici veri, quelli laureati, erano già stati tutti ammazzati. Le persone colte erano sospette: aumentavano la distanza tra classi sociali, che, nell'utopia folle di Pol Pot, non dovevano più esistere. Chi aveva studiato era nemico della rivoluzione, oltrechè spocchioso e inutile all'agricoltura. Portavi gli occhiali? Intellettuale, a morte. Avevi le mani morbide? Intellettuale, a morte. Sapevi leggere e scrivere? Intellettuale, a morte. Negli anni della Kampuchea, i bambini andavano a scuola ad imparare a scavare canali e zappare la terra e tutti gli adulti erano costretti ai lavori agricoli, anche se mai se ne erano occupati, in zone remote e infertili. Se la terra non dava frutto, a morte. Ma i macchinari, i trattori, almeno le bestie da soma? Vizi borghesi che corrompono, vietati. La proprietà privata, abolita. Mangiare insetti raccolti nel fango e nel pus dei compagni cella? Vietato, 50 bastonate e due denti cavati con la pinza da fabbro.  




Nel cortile appena si entra ci sono le tombe delle ultime vittime, lasciate là dagli aguzzini in fuga e trovate dai vietnamiti che avevano ormai conquistato la capitale. Oltre alle tombe, ci sono anche le foto di dove son stati trovati, e come, con il corpo martoriato, in pozze enormi di sangue, a terra o legati a letti di metallo con ceppi. Il tutto in aule scolastiche, che si riconoscono perfettamente come tali e, per il lavoro che svolgo, mi porta ad aggiungere orrore all'orrore.






sui letti si vedono i ceppi per le caviglie e una scatola di munizioni che veniva usata per i bisogni corporali dei detenuti. Chi sporcava, doveva pulire il pavimento con la lingua






Al piano superiore del primo edificio c'è un approfondimento sui bambini ammazzati qui. Da altri ragazzini, spesso. Infatti gli aguzzini erano giovani o giovanissimi figli delle campagne, analfabeti, cui la propaganda aveva fatto il lavaggio del cervello. Più si è ignoranti, più è facile. Il direttore di questo carcere, tale Duch, un tempo professore di matematica (un omino magro con la faccia da toporagno), li addestrava personalmente a diventare crudeli, insensibili, addirittura capaci di godere del dolore altrui. Partiva con animali, per poi farli sperimentare con le persone. E tutto diventava sistematico e preciso. Si racconta anche di come alcuni bambini siano riusciti a sopravvivere, proprio il giorno in cui sono scappati gli Khmer rossi, nascondendosi tra cadaveri gonfi e pozze di sangue e pus, tra nuguli di insetti e un fetore insopportabile persino per i Viet Cong, che pure erano abituati a sopportare.



Nel cortile gli attrezzi per educazione fisica furono usati come luoghi di tortura, per sospensioni con corde, annegamenti controllati nei liquami degli altri detenuti e generiche percosse, frustate, bastonate.



Come spesso accade nei regimi che attuano queste barbarie, c'era anche una profonda volontà di registrare, annotare, tener traccia, fotografare e schedare tutto. Per ogni detenuto entrato e mai uscito qui, ci sono foto, numero di matricola (che sostituiva il nome), pagine e pagine di dati raccolti e di confessioni completamente inventate sotto tortura. Alcuni prigionieri stranieri (perchè sì, ce ne sono stati) avevano fatto i nomi del Colonello Sander di KFC, l'ufficiale di marina Popeye, gli agenti della CIA Rolling Stones... Gli aguzzini erano talmente ignoranti e isolati da non capire la perculata. E giù di mazzate. Tanto la verità non era importante.



sopra Pol Pot, sotto Duch, il direttore del carcere, autodenunciatosi solo nel '99 e condannato poi da un tribunale Internazionale negli anni Duemila




Tra le foto dei corpi martoriati, i registri dei "processi", gli strumenti di tortura esposti, le regole (vietato piangere o urlare durante le frustate o l'elettroshock. Vietato mostrarsi seri o tristi mentre si tortura: bisogna ridere, perchè stiamo facendo il bene del partito), e le testimonianze dei prigionieri (tra cui fotografi e un pittore sopravvissuti) si apprendono gli infiniti modi in cui è possibile infliggere dolore a una persona, prima, e a un corpo poi. Senza contare i vari "esperimenti medici" e le "donazioni" di sangue per i soldati khmer rossi. Si attaccavano quattro sacche ai prigionieri, gambe e braccia, e si pompavano fuori svariati litri di sangue. Le vittime sopravvivevano ancora qualche momento "respirando come grilli, senza sentire nulla". Ah, tra le torture i ragazzi qui erano specializzati anche nell'uso di millepiedi velenosi e insetti urticanti da inserire nelle ferite o nelle parti intime.






Molti aguzzini han poi fatto la stessa fine, perchè già dal '76, in un clima di follia e sospetto sempre crescenti, iniziarono le purghe interne. Qui sotto si vedono i ceppi per le detenzioni di massa: in un'aula erano incarcerate anche 80 persone, stese a terra una accanto all'altra, piedi contro piedi in doppia fila.


quando una statua di Pol Pot veniva male, non si poteva distruggere, andava sepolta



Il secondo edificio è rimasto esattamente come è stato lasciato. Con filo spinato e reti per evitare che i prigionieri si suicidassero (qualcuno ci è riuscito, conficcandosi nella giugulare la penna datagli per scrivere la confessione). Nelle classi sono state costruire minuscole celle per detenzione singola, in mattoni o in legno. Tra le aule è stato aperto un varco così che una sola guardia potesse controllarne 10. Da come sono disposte le chiavi, e come sono segnate, si capisce che gli aguzzini non sapessero leggere nè scrivere i numeri. All'interno delle celle ci sono invece scritte con il gesso massime degli khmer rossi, come "Un eccesso di libertà è controrivoluzionario".













Nel terzo e ultimo edificio sono presenti le opere del pittore incarcerato e sopravvissuto, cui gli stessi carcerieri avevano chiesto di raffigurare le atrocità del lager, senza sapere che sarebbero poi diventate prove a loro carico per crimini contro l'umanità; alcune foto, gli strumenti di tortura e i crani delle prime vittime. I numeri divennero poi tali da rendere necessarie fosse comuni generiche.







armadio rovesciati e annaffiatoio per waterboarding

gabbie per gli insetti velenosi da inserire nelle ferite




morte a mazzate in testa nei campi di sterminio

Al termine della visita mi fermo a lungo su una panchina del bel cortile, dai cui alberi cadono fiori bianchi come una lenta nevicata di profumo. Sono abbastanza sconvolta. Ascolto dall'audioguida le testimonianze dei sopravvissuti, i processi, le voci dei condannati, il racconto di chi ha vissuto quegli anni, e ora ne ha dai 50 in su, e ha trovato dei modi per gestire la sindrome da stress post-traumatico. Chi con la fede, chi con la meditazione, chi con il volontariato... Tanto si sottolinea l'importanza di aver costruito questo luogo della memoria, con organizzazioni indipendenti e lo sforzo dei singoli di tornare a rivivere l'orrore.
Domani completerò il quadro visitando il campo di sterminio, che si trova una decina di kilometri fuori dalla città.

Quando esco, dopo aver schivato alcuni monaci (per le donne è vietatissimo anche solo sfiorarli) che si piantano ai tornelli di uscita, mi imbatto in un pilota di tuktuk che mi stordisce di parole e battute al punto da convincermi a farmi portare da lui al Mercato centrale, che dista circa 3km. Contrattiamo sul prezzo e questo mi dà punti aura ai suoi occhi. Mi chiede di dove io sia, e quando dico Italia, attacca un filone sul calcio e continua a chiedermi se io tifi Inter o Milan. Non riesco a spiegargli che non me ne frega niente, ma niente-niente! Ma pace, è contento lo stesso, col suo piedino da onlyfanser e le unghie delle mani lunghe e luride, con una bella riga nera di "crocco" che fa effetto nail-art.



Lo Psar Thmei, Mercato nuovo, anche detto centrale, è uno dei tanti mercati della città, ma sicuramente quello che sorge nell'edificio più particolare: una sorta di ziqqurat in stile art decò, con cupola immensa per garantire la ventilazione e orologio al centro. Si vende di tutto: dai souvenir alla bigiotteria, dall'abbigliamento all'alimentare. Vale la pena farci un giro per alleggerire una giornata densa, ma, dopo un mese in Sud Est Asiatico, di mercati ne ho ormai visti, diciamo, abbastanza. E ne ho ancora una fila da inanellare!


la sciura ha appena tirato una "pesciada in dal cu" alla sua amica






tarantole pelosette al peperoncino?


Rientro in albergo e mi dedico alla scrittura, che in questi giorni è ben densa, con tutto quel che sto vedendo. Esco per procacciarmi la cena e passo in una via, proprio accanto alla mia guesthouse, dove si susseguono localacci notturni di basso rango e night club. La strategia di marketing è questa: prendere parecchie signorine, vestirle in modo succinto, piazzarle su sedie fuori dal locale, sul marciapiede, a far le moine ai passanti. Più sono vecchi e bavosi, occidentali o giapponesi, coreani o indiani, meglio è. Diciamo che c'è tanta merce in vendita, quindi la domanda deve pur essere alta. Sui marciapiedi intorno famiglie con bambini si preparano per la notte in strada, su cartoni o a terra proprio, e i baracchini dello street food sono ormai quasi vuoti. Vedo su una griglia un serpente, con tanto di pelle retata ancora riconoscibile. Penso che è ora di tornare, e che davvero l'essere umano è uno strano animale.








1 commento:

  1. Topi,tarantole come cibo... sembra abbiano mantenuto la dieta che tenevano nei loro tempi peggiori.

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