giovedì 24 luglio 2025

25-27. Dai cunicoli dei Viet Cong al Delta del Mekong, tra storie di vita, giungla e i curiosi culti del Caodanesimo e del Dio Cocco


















22/7
Ho Chi Minh City, Cu Chi

"Mio papà è del Nord, comunista convinto, serio, di quelli che lavorano tutta la vita e se guadagnano 10, spendono 1, per la sicurezza futura della famiglia. Studio, fabbrica, guerra. E anche mio nonno, uguale. Mia mamma invece è del Sud. I comunisti facevano paura, si pensava avrebbero portato la dittatura e la miseria. Al Sud si prende la vita più alla leggera, si mangia cibo dolce, molto zuccherato. Se litighi con la moglie, portala a mangiare una torta al cocco. Se la fidanzata è arrabbiata con te, offrile un Boba Tea. Noi del Sud guadagniamo 10 e spendiamo 11. E tanti se ne sono andati, soprattutto negli USA, a inseguire il sogno di svoltare. Le famiglie di mia mamma, che comunque in casa comanda, e di mio papà, non si sono parlate fino a che ho compiuto 20 anni, e sono del '95. Io volevo fare il soldato, ma se hai genitori del Sud, non puoi fare carriera militare. Infatti mi sono limitato alla leva obbligatoria, che è di due anni per gli uomini e su base volontaria per le donne. A noi alle scuole superiori insegnano a sparare con l'Ak47, a tirare una granata, ad affrontare un combattimento corpo a corpo con i coltelli. I vietnamiti hanno dovuto imparare a cavarsela da soli. Quando c'erano i francesi, hanno lasciato che il Giappone ci invadesse. Poi han fatto loro delle gran porcherie. Poi è venuta la guerra. E finita la guerra, la Cina non vedeva di buon occhio i nostri legami con l'URSS e ha permesso a Pol Pot di fare quel che ha fatto, in Cambogia, dove ha sterminato un quarto della sua popolazione, e persino da noi. Ma noi sappiamo difenderci. Non siamo colonia o proprietà nè sudditi di nessuno. Solo delle nostre mamme e delle nostre mogli!".
Così racconta Lam, aitante ragazzone palestrato e dal largo sorriso, con cappello da giungla, che ci accompagna oggi alla scoperta dei tunnel di Cu Chi. Lui di solito fa la guida in viaggi più avventurosi, in moto, nella foresta, in montagna... Ma è caduto e deve tenere la schiena a riposo per un po'.
"Io mai pensavo di fare la guida turistica. Non ero un bravo ragazzo. Sono nato in un quartiere brutto di Saigon, in una famiglia spaccata e umile. Non ho studiato quando dovevo. E mio papà aveva sempre la bocca piena di comunismo e partito, ma per noi questi non ci sono mai stati. Scuole? A pagamento, se vuoi studiare decentemente. Salute, sport per i bambini? A pagamento. Chi li ha mai visti questi grandi aiuti al popolo? Non noi. Ma io amo il mio Paese e non me ne voglio andare come hanno fatto tanti della mia età. Ora sono uscito dal ghetto e sono grato di essere qui con voi. Mio nonno è morto (e ci mostra la foto di un anziano pluridecorato nel portafogli), mia nonna ha 80 anni e ha perdonato mia mamma. Ora si parlano."
Perdonata di cosa, Lam?
"Di essere del sud".
Ah, certo.
"Ora vi insegno alcune parole in vietnamita, gratis!" e tira fuori degli a4 stampati. "Chao significa hello, come in italiano, Rita ciclista. O bella ciao ciao ciao!". "Cam on, pronunciato con il tono così, come se vi fosse infilati una pannocchia in bocca per orizzontale, significa grazie. Se mettete insieme le due cose, Cam on, chao, avete la frase perfetta per tutte le situazioni: salutare un amico, congedarvi da un collega o dallo staff di un hotel o negozio, e far intendere a un truffatore che avete capito che vi sta truffando in quanto turisti. In quel caso, fuori il telefono e iniziate a filmare, vedrete che i malintenzionati sciameranno via come mosche". Eh buono a sapersi, Lam. Spero non mi serva più come consiglio, ma ok.

Prima di raggiungere il sito dei tunnel, che dista una sessantina di km da Ho Chi Minh city, facciamo una sosta presso un centro dove lavorano artisti che hanno disabilità di qualche tipo causate dalla diossina dei defolianti sparsi insieme alle stelle e alle strisce dagli yankees. Ci viene spiegato come realizzino manufatti in lacca con inserti in madreperla o guscio d'uovo, poi dipinti e lavorati. I prodotti sono apprezzabilissimi, e le ragazze e i ragazzi sembrano lavorarci volentieri. Certo, le condizioni non sono minimamente paragonabili a quanto sarebbe accettabile da noi, ma qui sulla gestione delle problematiche nate con l'aumento vertiginoso di persone con disabilità son dovuti correre ai ripari in fretta e furia, e con pochissimi mezzi, economici ma pure culturali. Infatti si parla ancora serenamente di handicapped, ma alla fine, al di là dei nomi, l'importante è che a queste persone venga riconosciuta la dignità di una vita il più possibile serena. Io di vasi e quadri in lacca non posso comprarne, ma di caffè posso berne eccome, e quindi opto per il bar, che è sempre gestito dai volontari del centro.










un alieno peloso e occhiuto!

Arriviamo finalmente al sito dei tunnel di Cu Chi, la più estesa ragnatela di gallerie sotterranee superata ultimamente solo da quella di Hamas. Questi cunicoli, estesi fino in Cambogia per oltre 250km, che si intrecciano su più livelli e constano anche di magazzini, cucini, sale riunioni, ospedali e luoghi per i civili, iniziarono a essere scavati dai Viet Minh per difendersi da rastrellamenti e bombardamenti francesi, durante la lotta per l'indipendenza dal gioco coloniale. Divennero poi punto strategico fondamentale dei Viet Cong nella Guerra del Vietnam, trovandosi alle porte di Saigon, alla fine del cosiddetto Sentiero di Ho Chi Minh che scendeva da nord a sud. Il fatto è che qui il terreno è molto morbido e facile da scavare nella stagione delle piogge, ma diventa durissimo e super solido in quella secca. Poi c'è la giungla, che copre tutto, e ci sono i contadini, che sono compagni e forniscono riso e tapioca ai soldati del Fronte di liberazione. E quindi si scava. E si costruiscono trappole. E pozzi, e sistemi aerazione. I corridoi sono a zigzag, così non si possono usare lanciafiamme e granate. Bui, alti 80cm, con aperture del tutto invisibili dall'esterno. Quadrate e non tonde, per avere un riferimento ed orientarsi. Ci sono tre regole: parlare senza far rumore, muoversi senza lasciar traccia e cucinare senza fare fumo. Per questo si costruiscono camere sotterranee di dispersione dei vapori di cottura, e si cucina solo all'alba, perchè il fumo paia nebbia.
Ma non è facile. A volte si deve stare sottoterra per giorni, settimane, senza mai uscire. Si vive come ratti. Malaria e infezioni intestinali imperversano, i tunnel sono colmi di insetti velenosi e scorpioni. Si mangiano quelli, quando manca il cibo. L'acqua alle volte scarseggia, e fa caldissimo.
Ma tutti hanno paura ad avventurarsi qui. Il terreno e i corridoio sono disseminati di trappole tanto semplici quanto terribili: punte aguzze di metallo o bambù, infettate con escrementi, tagliole, chiodi che piovono addosso. Solo un manipolo di australiani ha il coraggio di avventurarsi qui sotto, ma i Viet Cong non si fanno trovare. E chi accende una torcia per orientarsi nell'oscurità, diventa immediatamente bersaglio, esca viva. 














E' possibile percorrere alcuni tratti di cunicoli, ed è un'esperienza veramente impegnativa e certo non adatta a chi non è in buona salute, soffre di claustrofobia o semplicemente ha una corporatura non minuta. Ci sono resti di carri armati e mezzi militari rimasti lì da 50 anni, e mai spostati. La giungla, che è ricresciuta, giovane, se li riprenderà e li ricoprirà di vita, dopo tanta morte. Ci sono anche ricostruzioni, con manichini o persone, di come i combattenti gestissero le incombenze del quotidiano, dal costruire armi, recuperando i gusci delle bombe nemiche, al rammentare gli abiti. Particolarmente interessante la questione delle calzature: i Viet Cong combattevano in sandali di gomma recuperata dai copertoni, indossabili anche al contrario, in modo che le impronte sembrassero andare dalla parte opposta. Geniale! E poi c'è una fiera esibizione di tutti i tipi di trappole.

















Tutta la visita si svolge sotto a un costante frastuono di colpi esplosi; infatti nel sito è presente un poligono di tiro dove, per cifre importanti per un local ma non per un turista, è possibile sparare con Ak-47, M-16 e pistole di vario tipo. Io me ne guardo bene, ovviamente, e, anzi, mi trovo costretta a indossare le cuffie fonoassorbenti perchè, nei pressi del poligono, il rumore è davvero insopportabile. Altro che traumi! Ma come si fa?














A conclusione dell'esperienza, con tanto di passaggio in 500m di cunicolo veramente opprimente, non illuminato, minuscolo, come un tubo di fango brulicante di insetti, un intestino delle profondità che inghiotte e risputa, ci viene offerto il tipico pasto dei Viet Cong: tè pandan e tapioca bollita da condire con arachidi sbriciolate e sale. Non male, per una volta. Camparci vent'anni, magari, anche no. 






Queste esperienze mi stanno facendo molto riflettere, come è inevitabile, vista la portata emotiva. Son sempre stata pacifista a pelle, disgustata da ogni forma di violenza e prevaricazione. Ma forse lo studio della storia, forse un grado di pessimismo nei confronti dell'essere umano, mi hanno portata nel tempo a diventare cinica. A riconoscere nell'uomo una tara, il marchio di Caino, un punto marcio e corrotto insanabile. E quindi mi son spesso detta: le guerre sono inevitabili non per le ragioni che vengono raccontate. Sono inevitabili perchè l'essere umano è un legno storto che si rivolta contro se stesso e contro i propri simili. Pur non approvandone nessuna e aborrendo l'uso della forza, ho anche spesso pensato che, alle volte, per difendere la propria vita, la propria libertà, e quella dei propri cari, imbracciare un'arma è l'unica soluzione. Forse è vero, forse no. Fatto sta che io le guerre le ho sempre viste da lontano. Nei libri, in tv. Distanti nello spazio e nel tempo. Qui invece è più vicina. E' passata ieri, e se ne vedono ancora le chiare, cruente, disgustose, inaccettabili tracce. Non so se me ne vado dal Vietnam meno cinica di prima. Sicuramente più consapevole.

Di ritorno dai tunnel, mi faccio lasciare a qualche km dall'albergo, così da fare due passi e godere di qualche scorcio nuovo di Ho Chi Minh city. Mi imbatto in un mix di modernità e vorticoso consumismo, e povertà di famiglie che vivono per strada, senzatetto e persone con disabilità che chiedono l'elemosina. Dai vicoli, dove la gente vive in minuscoli cubi con saracinesche al posto delle porte e dei muri, si leva il fumo dei banchetti dello street food. Poi iniziano ad accendersi le luci, e il crepuscolo impasta le molte ombre, che finiscono per non vedersi più nel turbinare della movida delle walking street, dove ancora stasera tanti si ubriacheranno, tanti verranno truffati e tanti andranno a letto con ragazzine prezzolate, pensando di star vivendo al massimo la loro vita.
Io controllo la situazione del tifone, che pare stia un poco placando la sua devastante violenza.


E preparo le ultime 3 tappe vietnamite, per quanto tornerò su Hanoi alla fine del viaggio. Quindi è solo un arrivederci a presto! In ogni caso, i prossimi tre giorni saranno dedicati all'esplorazione pedalata dell'affascinante delta del Mekong, che percorrerò per intero fino a Chau Doc. Qui, mi imbarcherò all'alba per raggiungere la capitale cambogiana via fiume. Ho prenotato il biglietto poco fa, dopo aver contattato telefonicamente l'agenzia dei traghetti per chiedere del trasporto bici. Si possono caricare, evviva! E dunque il 26 alle 6 mi attendono al molo. Nel frattempo, mi godrò questi ultimi tre giorni tra canali, mercati galleggianti, foreste di mangrovie e pagode che si specchiano nell'acqua. Domani si riparte.

23/7
Ho Chi Minh city-My Tho
71km

Con oggi inizi il secondo terzo di questo viaggio, in termini sia di giorni sia di kilometri. Supero i 2000, nel secondo caso, e arrivo a 4 settimane, nel primo. Di strada ne ho già percorsa, in effetti. Siccome è una ri-partenza importante, la celebro e consacro con tutti i riti del caso. Mi alzo con calma, faccio la doccia, colazione in camera, prenoto un hotel che già avevo adocchiato e preparo la traccia. Indosso tutti vestiti puliti, che rimarranno tali sono in ascensore tra la camera e la reception dove riconsegno le chiavi. Mi cospargo largamente di Autan Jungle formula, perchè sto per attraversare luoghi flagellati dalla dengue, e non per esagerare, e controllo il Tifone Wipha come stia procedendo. Saluto la receptionist, che mi chiede dove andrò nei prossimi giorni e resta estasiata alla risposta, recupero la bici, che ieri ho pulito e oliato un poco, monto le borse, e, finalmente, sono pronta.
Uscire da Ho Chi Minh city è piuttosto agevole, nonostante il traffico già intenso. Forse mi sto abituando a questo caos controllato. L'importante è andare, sempre, senza fermarsi, qualsiasi cosa succeda. L'importante è schivare gli ostacoli davanti. Chi è dietro di me, schiverà me. Così procedo tra vialoni e ponti brulicanti di motorini, fino alle zone di periferia, dove spiccano piccoli mercati incasinatissimi, all'ombra di teli e ombrelloni, e grandi chiese, molto più imponenti delle pagode. Che potenza questa croce, ha attecchito più di un'infestante. 



Nel giro di poco mi ritrovo in mezzo a sentierini di campagna, tra discariche e bananeti, capanne e macerie. La città sembra distante anni luce, ma è qui dietro l'angolo ancora.








Infatti per allontanarmene davvero devo zigzagare evitando stradoni e autostrade; fortunatamente, per ciascuna di queste grosse arterie, ci sono viuzze parallele o quasi, che a volte corrono accanto, a volte sotto, e permettono a chi si è trovato la superstrada davanti all'uscio di muoversi liberamente con lo zebù e il carretto. Il problema è che molti di questi passaggi sono funestati da cantieri che, sì, riguardano le stradone, ma usano queste laterali come discarica di fango e acque reflue, deposito di ingombranti, dai tubi ai piloni, e generico parcheggio e letamaio. Ergo, a tratti, non si riesce a pedalare, ma nemmeno a spingere a mano la bici. E quindi mi incastro, affondo, strattono, smadonno e ricomincio. Ah, come erano puliti e profumati i miei vestiti, stamattina! E cose saranno luridi da ora e per i prossimi giorni! A volte davvero sono in difficoltà e ho il timore di restare lì nel pantano come un carrarmato statunitense nel '75. Poi, tra un colpo di reni e un Gesù Bambino, riesco a procedere di un passo o due, e così via, tenendo anche lontani i numerosi cani randagi. "Guarda che oggi è il giorno sbagliato, non ci provare", dico loro, più con serietà che con rabbia, e funziona.


Finalmente riesco a lasciarmi alle spalle anche questo tratto impestato, e, tra microscopici rovesci di pioggia e un vento sempre più teso, a dirigermi a sud, davvero verso la vasta pianura del Delta del Mekong. Passo qualche città polverosa e incasinata di tuttivendoli a bordo strada, e finalmente ecco che si percepisce un netto cambiamento nel paesaggio circostante. Ci siamo. Si moltiplicano i corsi d'acqua, piccoli o grandi, numerosissimi, e la vegetazione diventa fitta, talora sommersa. Nel fango fertile pongono radice mangrovie, banani e colture di ogni genere, e sull'acqua si contendono lo spazio i fiori di loto, le barche e le palafitte. Le nuvole basse, che orlano le già sfrangiate foglie di palma, sanno proprio di Tropici.




A farla da padrone, su tutti questo tripudio di linfa, sono proprio le palme da cocco e i loro frutti. Le piantagioni sono ovunque, e ovunque ci sono magazzini con accumulate tonnellate di noci, che vengono continuamente caricate e scaricate, traportate, vendute e comprate. Non a caso mi sto dirigendo a My Tho, la cui frazione, Ben Tre, è considerata una sorta di capitale del cocco, al punto che un tizio, tale ingegner Nguyen Thanh Nam (classe 1910), negli anni Sessanta, ha fondato anche una religione del cocco, dopo esser tornato dai suoi studi in Francia, mollando la famiglia per farsi monaco cocchista. La chiamerei cocchismo. E' una new wave buddista, che si basa sull'amore e la professione di pace, la convivenza serena con tutte le creature (quindi non si mangia carne). Fun fact: nell'isolotto sul Mekong che ospita il suo santuario, sono allevati coccodrilli. Perchè? Ma è ovvio. Se è sacro il cocco, come non devono esserlo i cocco-drilli?
Al di là del pesante uso di droghe che il nostro Nguyen deve aver fatto nella Parigi libertaria, è interessante sapere che qui non solo si coltiva il cocco, ma lo si lavora per produrne farina e dolci tradizionali apprezzati in tutto il paese. Se ne sente il profumo delizioso uscire dalle case e dai piccoli stabilimenti artigianali. Passo in numerosi villaggi, piccoli piccoli, stretti tra canali e fiumi e la strada. Si respira un'aria rilassata, quasi soporifera. Sarà il caldo, saranno gli zuccheri, ma davvero questa campagna semplice e umida sa di serenità.


più facile portare una tonnellata di noci di cocco o una carriola e una scala?







dragon fruit!


In tutta questa zona ci sono comunità cinesi, stabilitesi qui fin dal Seicento per l'instabilità politica nel Celeste Impero, e poi attratte dalle possibilità economiche offerte dalla Francia coloniale, comunità khmer, e un mix di fedi più o meno tradizionali. Oltre al già citato (e non molto diffuso, invero) cocchismo, c'è anche il caodanismo. Questo culto nasche nel '26, quando tale Ngo van Chieu e altri suoi discepoli annunciano di aver ricevuto una rivelazione dall'essere supremo, il dio unico: devono fondare una religione sincretica che mescoli elementi di tutte le religioni, occidentali e orientali. Il nostro era un funzionario dell'amministrazione parigina, e aveva fatto numerose sedute spiritiche con ragazze medium, prima di giungere a tale conclusione, proprio la notte di Natale del '25. Il caodanesimo si basa sulla non-violenza, anche se ha contato tra i suoi adepti numerose milizie armate attive anche nelle guerre d'Indocina, il culto degli antenati, vegetarianesimo e reicarnazione. Alcune manifestazioni di dio sono: Giovanna d'Arco, Victor Hugo, Krishna, Buddha, Gesù, Mosè, Sant'Antonio abate, Confucio...  Mancano solo tre calciatori e due popstar e li abbiamo tutti! L'organizzazione è simile a quella della chiesa cattolica, con papa, vescovi, le donne possono diventar cardinali... E conta 8 milioni di seguaci, qui in Vietnam! I templi si riconoscono perchè sulla facciata hanno un grande occhio, simbolo di dio. 







Arrivo a My Tho che è ancora presto, anche perchè non ho fatto pause lungo il percorso, se non un istante per riempire le borracce (nelle ore più calde la sensazione di sete, nonostante il continuo bere, è bruciante e inestinguibile). My Tho è una città che supera i 200.000 abitanti, e, dopo tanti villaggi, si percepisce l'importanza di questo storico snodo commerciale che fa da porta al Delta del Mekong, dal lato di Saigon. Subito si stagliano palazzoni nuovi e candidi con le insegne delle banche, un ospedale di recente costruzione, un centro commerciale... Ma le periferie mantengono quel sapore autentico di villaggio su palafitta. A proposito di sapori: oltre ai dolci al cocco, qui sono famosi degli spaghetti di riso in brodo che vengono conditi con tutte le proteine animali che riuscite a immaginare, tutte insieme: pesce, frutti di mare e gamberi, maiale, manzo e pollo. Solo non si vedono i due leocorni, ma se li portate in un ristorante vietnamita, vi cucinano sicuramente anche quelli. a My Tho, fondata dai cinesi e diventata un grande mercato di prodotti agricoli soprattutto durante il dominio coloniale, ci sono anche numerose chiese cattoliche, e pure una pagoda confuciana che funge da orfanotrofio. 





Ma soprattutto c'è il Mekong, con le sue acque limacciose e appena spettinate dal vento teso. Non lo vedo dallo scorso anno, quando ne ho fatto conoscenza in Thailandia, sol confine con il Laos, per poi seguirne il corso per un tratto. Anche quest'anno andrà così. Ora ne esploro il delta, ma poi lo seguo su su fino in Cambogia, e ancora, sempre, lungo le sue sponde, in Laos. Il solo nome evoca storie antiche, maestose estensioni dai monti più puri dell'Asia a questo mare. Ed è grazie a lui che questa regione è così fertile, la ciotola di riso del Vietnam. Qui il suo corso è ampio, e solcato da barche e barconi, mercati galleggianti e traghetti per turisti (vietnamiti, di stranieri oggi non ne ho visti).




Ciao Mekong, che piacere rivederti. Staremo insieme a lungo, in questo viaggio. Sii gentile, fammi essere lieve sulle tue acque.

In un attimo raggiungo l'hotel che ho prenotato stamani, Minh Kieu. Il Minchieu. Insomma, questo. Non è affatto male, per gli 8 euro che costa! Mi butto sul letto ancor prima della doccia, bollita dal caldo e dal vento, e collasso per un'oretta. Poi trovo le forze per lavarmi, e preparo la tappa di domani, che mi condurrà fino alla città più grande del delta, Can Tho, attraverso canali e villaggi. Dovrò prendere ben 4 traghetti, perchè ci sono molti più fiumi che ponti!



Ceno in camera, anche se la città offre numerosi ristorantini, non sono turistici e intendersi non è facile. Opto per un bel riso saltato con la qualsiasi, l'anguria che è una forma rossa di felicità e persino un dolcetto al matcha con la panna asiatica, che non è panna ma crema di burro. Buona, calorica, fresca. Insomma, giusta per la situazione. La sera scendo a recuperare dell'acqua, perchè sono ancora riarsa e bevo più di quanto immagini, e vedo che My Tho ha una vivace vita di caffetterie e ristorantini di street food, con tanti giovani che passano la serata così in compagnia a godersi una parvenza di fresco tra le lucine. Non è nulla di urlato e pacchiano come in certi quartieri di Ho Chi Minh city. E' tutto quieto e piacevole, quasi in sordina, con insegne non troppo luminose e locali non troppo appariscenti. Mi piace questo delta!






dalla finestra osservo il fluire come Pessoa


24/7
My Tho-Can Tho
85km

E' sera ed il vento ulula tra le matasse di cavi, i tetti e le insegne illuminate di Can Tho, il punto più meridionale che questo viaggio tra Vietnam, Cambogia e Laos mi porta a lambire. Sono seduta a terra, a gambe incrociate, sul pavimento di legno di una stanza minuscola. Dalla strada sale a tratti un vociare di donne, sicuramente impegnate a bollire o friggere qualcosa nelle loro bancarelle di street food. Io tengo sulle gambe la guida del Vietnam, mentre sulla mensola, accanto al pc, sta quella, ancora nuova e non spiegazzata e ondulata per le piogge prese, della Cambogia. Dopodomani mattina passerò il confine. Ogni volta questa linea da varcare porta con sè emozione, curiosità e timore. Non devono essere belle le carceri di Kampuchea, preferirei non visitarle. A proposito di galere, proprio qui accanto all'hotel si trovano i resti di una delle più grandi prigioni del Vietnam, costruita dai francesi e usata poi anche durante la guerra per "concentrare" i comunisti del Nord.
D'altronde Can Tho è la quarta città del Paese per numero di abitanti: supera i 4 milioni, anche se la placida corrente dei fiumi intorno e l'atmosfera del Delta la rendono tranquilla come un piccolo borgo in cui convivono, ora pacificamente, khmer, cinesi e viet. E' famosa per i mercati galleggianti, gli spiedini di carne e la carta di riso, la frutta tropicale e i numerosi canali che si diramano dal fiume Hau, affluente del Mekong e altrettanto sconfinato e limaccioso. Un detto popolare recita che, con il suo riso candido e le acque limpide (ma dove?), chi viene a Can Tho non se ne vuole più andare. Non sarei così drastica, io ho un traghetto per Phnom Penh all'alba di dopodomani, e una bella mazzetta di dollari cavata fuori dagli scomparti segreti e pieni di meraviglie delle mie borse, per il passaggio in frontiera (niente di losco, eh, ma il visto e la corsa in barca si devono pur pagare! E in Cambogia si usano riel e dollari statunitensi legalmente, del pari, purchè questi ultimi siano "crispy new").

Arrivare qui nella metropoli dell'Ovest è stato faticoso, ma bellissimo. Davvero oggi non mi sono annoiata neanche un minuto, pedalando, non ho avuto momenti di sopore cerebrale o di stanchezza mentale. A mettermi alla prova sono stati il caldo feroce, umido, appiccicoso, propriamente tropicale. e il vento sempre contrario e teso, bastardo, che butta polvere negli occhi e frusta la faccia, spezza il respiro, rallenta fino quasi a fermare. In quel quasi, la mia tappa.
Sapevo inoltre di dover prendere 4 traghetti, per il solito discorso che qui ci son più fiumi che ponti, e quindi, per passare da una sponda all'altra, tocca imbarcarsi per quella manciata di centinaia di metri. Temevo che il processo sarebbe stato lento e farraginoso, invece è andato proprio tutto liscissimo. E bravi i miei barcaioli Caronti vietnamiti!

Mi alzo sconvolta dal poco sonno, per il molto caldo fino a tarda notte e le urla dei venditori ambulanti all'alba. Il sole già martella e uscire in strada dà l'impressione di soffocare. Pedalo per i primi 25 lungo il Mekong, tra paesini e paesotti tutti dediti alla vendita di prodotti agricoli e povere bestie di ogni genere chiuse in gabbia, o già macellate. Noto che va alla grande fare la porchetta, nel senso che si prende il maiale intero, con testa, unghie, coda e tutto, infilzare i suoi 400kg su un gande spiedo a bordo strada e far girare sul fuoco il bestione così, intero, sano. Mi sembra una scena da Asterix e Obelix, con i cinghiali, ma pace. Peggio sono i baracchini dove viene venduta carne di cane, con tanto di insegna con foto di cagnolino coccoloso... E poi te lo vedi lì, infilzato, pronto da mettere nel panino. I prodotti più frequenti, però, sono frutta e pesce, e si capisce. I paesi, oltre che dai mercati, sono contraddistinti da chiese dall'architettura improbabile e grandiosi monumenti ai caduti, perchè qui si è combattuto alla grande, e la giungla e le mangrovie erano riparo perfetto per i Viet Cong.






Arrivo all'imbarco del primo traghetto, un barchino. Tutto è semplicissimo: la strada finisce in acqua, nel fiume. Ci si mette in coda (io sto con i motorini, che hanno un accesso privilegiato), raggiunto un certo limite si incappa nel bigliettaio, che con si aggira tra i mezzi in attesa con in mano una mazzetta di banconote e fa segno con le dita quanto si debba pagare, e, quando arriva il traghetto, si aspetta che sbarchino tutti poi si sale nel modo più caotico e disordinato possibile, perchè tutti ambiscono alle poche fettine di ombra disponibili. I 4 passaggi, oggi, mi costeranno un totale di 11.000 dong, cioè 0,35 euro. Bene, direi. La traversata dura pochi minuti, e altrettanti lo sbarco, facendo lo slalom tra i venditori ambulanti che offrono bicchieroni di plastica pieni di liquidi colorati, credo succhi di frutta, snack artigianali non confezionati e biglietti della lotteria. Qualche anziano o persone con gravi disabilità si limitano a chiedere l'elemosina direttamente. A me capita con un bambino grande e grosso, proprio sovrappeso, che mi viene a fare una scenata dicendo che vuole soldi per mangiare. Non so, vedo che anche gli altri lo trattano con sufficienza... Cam on, chao!












Inizia qui, sulla sponda meridionale del Mekong, un meraviglioso intrico di villaggetti su palafitte, attraversati da microscopiche stradine larghe giuste giuste per passarci a piedi o in bici (in motorino solo sei un local), tra palme, banani, marcite, risaie, canali rigonfi di loto e mangrovie. E' una giungla addomesticata, tenuta a bada e messa a coltura. Nel folto della vegetazione cantano uccelli di cui non riconosco la voce, e l'odore di acqua ferma mista a fiori fin troppo dolci  e frutta matura o marcia impregna l'aria. Procedo lentamente, perchè il fondo è di lastroni sconnessi o sterrato, e il rischio di finire in acqua è alto, ma mi godo ogni colpo di pedale. Sono in un documentario, in una cartolina! Questo è il delta fango e linfa, che ha raccolto le storie di molti popoli e li ha perdonati tutti.






come tenere i cavi elettrici lontani dall'acqua

Pedala e pedala, arrivo al secondo traghetto. La news, su questo, è che tra i venditori c'è anche un tizio che propone bestie vive e molto mobili, tra cui serpenti di terra (da mangiare) chiusi in retine che si attorcigliano tra loro, rane enormi (da spiedinare), chiuse in mazzi da dieci con grosse fascette, granchi in bacinelle di plastica e due poverissime anatre che credo abbiano le ali spezzate e hanno lo sguardo di chi attende la morte.








Giù di nuovo, e via ancora nella jungla, tra ombre di palme che proiettano frange orlate a terra e si contendono la polvere con i profili delle foglie di banane. A volte tocca attraversare un ponticello di legno traballante, sospeso sui canali... Trattengo il fiato, su, giù.



Terzo traghetto. Questo è il più grande. Salgono anche numerose auto, rare da vedere, da queste parti, e si scende dalla parte opposta rispetto a dove si è saliti, senza bisogno di fare inversione.






Gli ultimi 30km sono di stradone, compagno fedele di questa traversata del Vietnam, la statale 1, che corre da Nord a Sud ed è una spina dorsale delle vie di comunicazione. Qui le corsie sono solo due, e piuttosto ridotte, e non si incrociano grandi città. Il vento diventa feroce e devo pedalare a testa bassa e con il rapportino, per procedere.



questo è un canale coperto di loto, e c'è una signora, di cui si vede solo il cappello, che, su una barchina, li sta raccogliendo

Dopo essermi lasciata alle spalle la cittadina di Vinh Long, nota al turismo per i suoi alloggi in famiglia su palafitte, arrivo al quarto e ultimo traghetto. O meglio, un anziano e due signore quasi mi ci portano, perchè l'imbarcadero è crollato ed è stato spostato più ad ovest, nascosto tra ruderi e macerie. Mi fanno grandi gesti e segnali, e sorrisoni, e quando sfoggio il mio "cam on" si compiacciono grandemente.










Entro così in Can Tho, direttamente in centro, evitando tutto il traffico e gli snodi stradali che la circondano. Tra palazzoni moderni, negozi e vie di mercato, raggiungo l'hotel, che oggi è davvero minimal (ma per i 5 euro che ho pagato va benone). Siccome non c'è nessuno alla reception, di me si occupa la signora che vende frittelle nel baracchino sul marciapiede. E' lei che accoglie i clienti quando lo staff è momentaneamente assente!



Esco nell'ultima luce per procacciarmi la cena, e mi imbatto in vivaci ristorantini, marciapiedi dove le ragazze filmano TikTok con coreografie k-pop ed edifici coloniali dal fascino decadente.



Per i curiosi: stasera si va di offerte del supermercato; i piatti che vedete costano tutti 7000 dong (0,23 euro). Sono riso con sesamo, uovo e peperoncino, riso con frittata di verdure, torta di pasta di cocco e sesamo e dragon fruit tagliato a fettone. Con neanche un euro sono stra-sazia!





Domani mi attende una lunga tappa pianeggiante tutta sulle sponde del fiume Hua, da qui a Chau Doc. Ho prenotato un hotel, qui, proprio a ridosso del porto, dove mi imbarcherò dopodomani mattina per sbarcare, sei ore dopo, nel centro della capitale cambogiana. Quindi domani è l'ultima tappa interamente vietnamita di questa prima parte di viaggio. Tornerò in questo Paese alla fine del viaggio, dopo aver raccolto tutta la bellezza che avrò la fortuna di incrociare sulle strade di questi incredibili Paesi.

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