La Gi-Phu My
90km
Mentre in Thailandia, l'anno scorso, la stagione dei monsoni portava a riconoscere quotidiane piogge torrenziali regolari, per durata e intensità, qui in Vietnam la stagione delle piogge (temporali tropicali ferocissimi) è variabile e molto soggetta ai microclimi regionali. Ovvero: è imprevedibile se, quando, come e dove ti si rovescerà addosso l'ira di tutti gli dei cham, indù, intrè e buddhisti di ogni confessione. L'unica certezza è che, se capita, è come tuffarsi ripetutamente in un'acqua brodosa e violenta, schiaffata in faccia dal vento , che sale dalla strada e si rovescia dai cieli bassi, e allaga le strade e le trasforma in laghi e paludi. Una piccola apocalisse? Esatto!
Così cattiva, la pioggia, mi era capitata nei primi giorni, da Hanoi e dintorni. Poi più. Caldo umido da Tropico. Ora invece...
Parto da La Gi ben contentona di avere davanti una tappa sotto ai 100km, senza troppe salite nè punti critici; ho solo un gran sonno, ma non è facile dormire qui tra rumori notturni, caldo, insetti e faccende da sbrigare (ad esempio l'e-arrival per la Cambogia, che non è un visto, ma comunque un documento necessario). Purtroppo una contrattura al sartorio sinistro mi acciacca, e mi trovo fin quasi da subito a pedalare con una gamba sola.
Ma ci pensa il cielo a farmi riposare. Non sono partita neanche da 20km, che si addensa alle mie spalle un muro nero, sempre più vasto e minaccioso. Tuoni, un brontolio infero sempre più vicino, il vento che si fa teso (e contrario, ovviamente) e, nel tempo di capire che sta iniziando a piovere, si aprono le cateratte dei cieli. Siccome proprio in quel momento sto passando accanto alla fermata degli autobus, con lunga pensilina e panchine, decido di buttarmici sotto e aspettare un poco. Tanto non ho fretta, oggi non ho nulla da vedere di specifico, devo solo portarmi dal punto X al punto Y. Piove laterale, quindi ci si bagna un po' comunque, ma almeno non del tutto. Scopro che ogni paesino ha un ottimo servizio di autobus locali, e anche a livello regionale. Su entrambi è possibile caricare anche solo merce, che l'autista poi scaricherà alla fermata richiesta, lasciandola a terra. E' un servizio di spedizione pacchi a media percorrenza molto intelligente. Vedo caricare e scaricare frutta, casse di polistirolo piene di pesce, mobili e persino delle galline in gabbia. Le porta un corriere in motorino e poi il destinatario le ritirerà alla fermata. Geniale! Ci sono anche volantini pubblicitari di sevizi privati come taxi e van con autista. Questa cosa mi conforta: dovessi mai aver problemi, di salute, alla bici... Saprei a chi rivolgermi. I giorni scorsi, stracciata e sfibrata dal vento, ho anche pensato: adesso noleggio un triciclo a motore con il cassone, come ne vedo parecchi girare in campagna qui, ci carico su la bici e faccio tutto il viaggio così, dormendoci anche sopra. Sarebbe comunque un'avventura assurda! E quando lo penso, mi rendo conto che sto facendo esattamente quell'avventura assurda, ma senza il motore. Solo con le gambe. Vedrai che il sartorio è contratto e dolorante! Mi massaggio in profondità, con dolore, usando il balsamo di tigre. Di lì a poco escono dei lividi importanti, evidentemente è tutto per aria. Noto con orrore, anche, che, facendo pressione con le dita sulla coscia, il balsamo si mescola a una cremina di unto, sabbia, polvere, smog, sudore e protezione solare "color perso", per citare Dante (rossastro scuro, bruno, tendente al nero). Intanto piove e piove, la strada diventa un fiume, il bordo della pensilina una cascata. Il vento sposta la cortina d'acqua e fa rumor di sferza. Quasi rabbrividisco, dai soliti 40 gradi e passa, ora ce ne saranno neanche 30.
Lentamente gli scrosci si placano, diventano un tamburellio più rado, e poi solo uno sgocciolare laconico. Via che si va, è il momento! E invece no. Dopo 10 minuti ricomincia, anche peggio di prima. Mi appoggio sotto alla tettoia di una casa, a bordo strada, senza neanche scendere dalla bici (non voglio dar cattive impressioni a chi abita lì, deve essere chiaro che sto per andarmene, è solo un momento di emergenza). Nel giro di un attimo esce una ragazza sui vent'anni, in pigiama, con gli occhialoni tondi larghi e un'aria simpatica, e mi porge una sediolina di plastica. Mi fa segno, con inchino e mani di giunte, di accomodarmi. Sono allibita. Era già accaduto in Thailandia, ma ogni volta resto senza parole per questo gesto tanto semplice quanto grande. Immaginate se a casa vostra apparisse uno sconosciuto, fradicio, infangato, puzzolente, straniero, straniero e indecifrabile, che non parla la lingua e chissà cosa diavolo vuole. Gli offrireste una sedia sotto al portico o lo curereste di nascosto, dalla finestra, per vedere che non rubi e non faccia danni? O peggio uscireste a cacciarlo via? Pensate se poi quello straniero potesse essere, e voi non lo sapete, il figlio o il nipote di qualcuno che vi ha ammazzato il nonno, il padre e lo zio, la nonna e tutta la sua famiglia, anche i bambini, buttati nei fossi come le bestie, bruciati vivi, segnati per generazioni da sostanze tossiche che deformano i feti. Pensateci. Offrireste voi a quello straniero una sediolina?
Piove e piove. Ne approfitto per sbrigare alcune faccende logistiche. Prenoto l'hotel a Ho Chi Minh city, per tre notti. Che tempo infinito pare! E' da Hanoi che non sto così a lungo nello stesso luogo, mi sembra quasi ci sia un errore. E invece è giusto: un giorno ancora mi seve per arrivare, un giorno per visitare la città e un giorno per esplorare i tunnel di Cu Chi. E' il minimo, anzi, per dedicare un poco di attenzione ad una città così importante. Inoltre devo lavare i vestiti, perchè sono luridi e puzzolenti e sto esaurendo i cambi. Poi devo anche riposare. Il mio corpo me lo sta facendo capire: le mani sono indolenzite, le ginocchia scricchiolano, la schiena è sofferente, i muscoli sfibrati. Il vento contrario di questi giorni mi ha messa a dura prova e ora necessito di un po' di recupero. O almeno di cambiare postura, tornare vulpis erecta.
Iniziano a chiudermisi gli occhi. Mi sto proprio addormentando sulla sediolina. Il freschetto, il sonno accumulato, il rumore della pioggia e il calo di tensione stanno agendo. Ed è un grave problema, perchè ho davanti a me ancora gran parte della tappa da pedalare! E' come quando si prende una botta in testa e si sospetta trauma cranico: non bisogna cedere al pisolino, potrebbe rivelarsi fatale!
Ergo decido di ripartire. Tiro fuori da una borsa che non apro da giorni il vestito bello, l'abito della festa. Il completo total body da monsone. Consta di: giacchina leggera antivento, pantaloni impermeabili, k-way spesso con cappuccio, copricasco impermeabile giallo che mi fa sembrare veramente una cogliona, un Minion deforme, ma è ad altissima visibilità. E altissimissima ridicolaggine. Non ho portato guanti e copriscarpe impermeabili perchè, come ho notato lo scorso anno, il caldo li rende inutilizzabili, e sono più scomodi che utili.
Pronti, via. E' come tuffarsi. Non fa freddo, anzi. E' solo un cambio di condizione, da asciutti a fradici. Uno volta passati di stato, nemmeno ci si accorge più.
La tappa procede lenta, in una sonnolenza subacquea, fatta di lunghi sbadigli, occhi socchiusi nella poca luce e rumori ovattati. Per fortuna le strade sono in condizioni decenti e ci sono poche svolte, per cui le briciole di attenzione che ho da spendere sono tutte rivolte al (pochissimo) traffico. Attraverso in lunghi rettilinei un entroterra da cui il mare non si vede più. Ci sono estensioni spropositate di coltivazioni di albero della gomma, con tutti i tronchi feriti e sanguinanti, boschi cupi, bananeti e qualche risaia o campo di mais. Tantissimi sono anche i prati dove pascolano gli zebù, a volte con qualche collina verde sullo sfondo e una chiesa. Per qualche metro pare Svizzera. Poi vedo i venditori ambulanti di frutta, i poveri cagnolini nelle gabbie ammassati, sui motorini, destinati al macello, e i disabili che chiedono l'elemosina sui loro carretti e no, non è la Svizzera. E' proprio il Vietnam.
Di oggi mi restano impresse due scene. La prima: in un villaggio miserrimo un bambino sui 5 anni sta a bordo strada, e imbraccia un bastone come fosse un fucile. Finge di mirare ai motorini e alle auto e di sparare loro alle spalle. Io vedo da lontano quel che fa e, quando sono alla sua altezza, mentre lui non mi ha ancora vista, alzo le mani e faccio come il gesto di resa, sorridendo. Lui rimane così colpito che si mette a ridere e la sua espressione da soldatino serissimo si scioglie una serie di hello sbracciati e saltellanti. Quel bambino lì, in un'altra, recentissima, epoca, non avrebbe giocato alla guerra. L'avrebbe vissuta. Subita. Magari pure combattuta, chè i Viet Cong lo facevano, a volte. Oppure sarebbe stato "evacuato" (deportato?) in Usa, o Australia, come accadde ai neonati e bimbi dell'Operazione Babylift, nel '75. In teoria, serviva a far adottare a famiglie benestanti i minori rimasti senza famiglia, e non lasciarli nelle mani dei comunisti che stavano prendendo Saigon. Si sa, i comunisti hanno particolari gusti alimentari, soprattutto se si parla di cuccioli d'uomo. La cosa bella è che mica tutti i bambini portati via erano orfani! Anzi. Infatti l'Operazione Reunite, condotta da volontari vietnamiti e senza scopo di lucro, serve a ricongiungere, ancora oggi, tramite test del DNA, famiglie spezzate due volte: dal conflitto e dalle adozioni forzate, ovvero rapimenti. Mentre qui son rimasti numerosi "figli con la faccia del nemico", cioè i nati dalle avventure (leggi: violenze e stupri, spesso) dei soldati americani con le donne locali.
L'altra scena che mi colpisce è quella del ragazzo che gestisce un negozietto sordido a bordo strada; siccome non mi fermo per tutta la tappa, andando pianissimo e quasi in trance, e non svuoto le borracce perchè fa meno caldo del solito, mi accorgo quasi alla fine che sto avendo un calo di zuccheri e devo assolutamente ricaricare un poco le energie. Tra quando realizzo questa consapevolezza e quando trovo un negozio, passa abbastanza tempo da non farmi questionare troppo sulla qualità del locale. Entro, e mi si para davanti un uomo, credo della mia età, che non capisco se abbia qualche difficoltà cognitiva o sia solo molto impacciato. Mi segue quasi placcandomi nei 2x2m quadrati di bottega, pieni di merce alla rinfusa. Mi rende molto complesso il guardarmi intorno, scegliere e prendere qualcosa che mi ispiri, o che almeno capisca cosa sia. Ricado su una misteriosa bevanda alla gelatina di erbe, quella scura che so che mi piace, bella zuccherosa e calorica come deve essere. Lui è superstranito e ceca di rifilarmi una Mirinda (le aranciate della PepsiCo che si trovano ovunque tranne che in Europa), che secondo il suo avviso si confà maggiormente al mio aspetto e quindi ai miei gusti. Gli dico che no, grazie, preferisco la grass jelly. Fa una faccia come a dire "Oh, cocciuta, se poi non ti piace non ti lamentare!". E poi continua a ripetermi il prezzo in vietnamita. Gli chiedo di fare i numeri con le dita, perchè non capisco, e allora lui inizia a lanciare dei segnali di gang o alla Naruto incomprensibili. Sicchè faccio prima a dargli una banconota media e aspettare che mi dia il resto. Pensavo si trattasse di un numero strano da comunicare, invece la bottiglia costava 10(mila) dong. 30 centesimi di euro. Madonna che fatica. E chissà pure lui, che stress. Ma sti tay (occidentali, come farang per i tailandesi) non possono starsene a casa loro con ste bici e sto modo strano di fare?
Dopo aver attraversato un ultimo tratto di gran campagna, tutto campi e orti ordinatissimi, dove coppie di contadini ancora son curvi e dalle case esce schiamazzare di bambini misto a musica, arrivo finalmente alla città di destinazione, Phu My. E' tutta un cantiere, e non si capisce se la stiano costruendo o demolendo. Con la pioggia, poi, transitarci è una delizia.
L'albergo si trova, come gran parte degli edifici isolati che sorgono qui, in un quartiere che pare abbandonato, con ruderi di edifici mezzi costruiti, mezzi in rovina, ampi pratoni invasi da erbacce e zone recintate piene di macerie. Sembra un luogo in rinascita dopo una catastrofe, o un Far West in espansione con i primi coloni che piazzano alcuni servizi essenziali.
Il Ruby hotel, lungo e stretto come spesso gli alberghi qui, spicca su tutto. La reception è il solito garage pieno di motorino, nonchè salotto e cucina della casa dei proprietari. Una signora controlla la prenotazione e mi dà la chiave, il figlio ventenne mi tartassa di domande su Sinner, il tennista, quando scopre che sono italiana. Se c'è qualcuno che non sa NIENTE di Sinner sono io. Lui se ne esce deluso a fumare una sigaretta. E comunque la globalizzazione è un fenomeno incredibile.
La sera, dopo aver steso tutti i miei fradici vestiti sull'unica apertura all0esterno della camera, ovvero l'uscita di emergenza, che è anche la canna fumaria della cucina dei proprietari, da cui salgono vaporini di fritto untissimo, esco a far la spesa. Mi si confermano le impressioni dell'arrivo: una città mezza costruita e abbandonata, mezza in costruzione. Speculazione edilizia, investimenti malandati, riciclaggio di denaro o troppo ottimismo nell'espansione di un centro urbano che poi non ha vissuto le sorti felici che ci si aspettava? Mi colpiscono i localini molto moderni, curati, esteticamente piacevoli con le loro lucine, accanto a scheletri di cemento armato, palazzoni dagli occhi cavi senza vetri alle finestre e risorantini tutti moderni, in generale tra piacevole e orribile, accogliente e terrificante. Una via è asfaltata e tutta colorata di decorazioni luminose, l'altra sterrata e fangosa, piena di immondizia e detriti. Vedo correre pantegane grosse come scimmie e scimmie snelle e rapide che, inizialmente, scambio anch'esse per ratti. Non mancano poi ambulanti che vendono frutta o pesce o spiedini, con il loro megafoni con i messaggi registrati e sparati nell'etere a tutto volume. Ubriachi e abbruttiti generici che cristano e sputano nell'oscurità e poi studenti e famigliole nei caffè carini. Insomma, non manca nulla!
E dire che qui, tra tutto, vivono 200.000 anime! Davvero è un luogo strano, che pare di frontiera. Leggo che è città industriale, con l'impianto di produzione di pale eoliche più grande del Paese. Inoltre è sede di una centrale elettrica (gas naturale) che produce il 40% dell'energia del Vietnam, nonchè raffinerie e un porto fluviale collegato a quello in acque profonde che ha sostituito Ho Chi Minh City per volume di traffico. Ecco perchè sa di città di pionieri! Lo è! Qui ci abita gente da 3500 anni ma fino a ieri l'altro erano 4 contadini...
Concludo con la scoperta odierna che tanto mi ha fatto ridere: in inglese questo spruzzino lavaculo (presente in tutto il Sud Est asiatico, sostituisce la carta igienica e permette anche di pulire il wc) viene chiamato bum gun. La pistola da culo. In effetti il getto è potentissimo e potrebbe scuoiare a viva carne. Bum gun!
20/7
Phu My-Ho Chi Minh city
68km
Poco più di 50 anni fa, il 30 aprile del 1975, Saigon cadeva, o veniva liberata, a seconda dei punti di vista; dopo giorni di intensi bombardamenti, le truppe dell'Esercito popolare del Vietnam del Nord e dei Viet Cong entravano senza incontrare particolari resistenze, ormai, evacuato tutto il personale civile e militare statunitense, nonchè migliaia di sud-vietnamiti con l'operazione Frequent wind, per mezzo di elicotteri. Si temevano rappresaglie come a Hué, dove i soldati comunisti non erano stati gentili con chi aveva collaborato con le stelle e le strisce, finite nelle fosse comuni con centinaia di corpi. Sul palazzo del governo fu innalzata la bandiera del Nord, e la città venne intitolata allo zio Ho, che era gabbato nel '69. Da Washington si era già deciso, e da tempo, di non stanziare più fondi per una guerra logorante, costosa, ormai osteggiata dai più e che non portava frutti. Il presidente del Sud Thieu, rassegnando le dimissioni in diretta tv, tra le lacrime, denunciò gli statunitensi per aver chiesto al Sud qualcosa di impossibile, "riempire gli oceani con le pietre" e definì il mancato sostegno del Pentagono come un atto disumano da parte di alleati disumani. Fu Kissinger a dire che "Essere nemici degli Usa è pericoloso, ma esserne amici è fatale".
Oggi anch'io entro nella fu Saigon, ma vengo in pace, e spero di trovarne. Però sono molto eccitata all'idea di aver compiuto la prima tratta simbolica di questo viaggio, la lunga marcia dal Nord, da Hanoi, fino a qui. I primi 2000km di strada! Oltretutto la tappa di oggi è quasi una mezza giornata, circa 60km. Ma va bene così: HCM city conta 14 milioni di abitanti, almeno altrettanti motorini e sa dio quanti turisti e pendolari che ci lavorano. E' estesissima e sicuramente parecchio incasinata: meglio arrivarci freschi e senza fretta. Ipsa dixit.
I primi 30km sono un alternarsi di stradoni-oni, tra anonimi paesi di mercatacci polverosi e smog, traffico e fumo di roghi di immondizia, e scorci tra le campagne e villaggi rurali. Sembrano due mondi diversi, coesistenti in realtà parallele. Il primo sulla strada, il secondo appena la si lascia di pochi metri alle spalle. Non c'è il sole, ma non piove. Si sta bene, nel caldiccio umido e sudizzo. Incappo in grandi pagode in costruzione e altrettanto grandi chiese, anch'esse in costruzione. Una casa bruciata e distrutta, che ancora sprigiona colonne di fumo, e un grande posto di blocco della polizia stradale, dove son fermi camionisti e motociclisti occidentali. Spero non mi capiti... E infatti no, via diritti.
Sulla strada:
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il polletto del distributore di benzina |
Nelle campagne a venti metri dalla strada:
Di nuovo sulla strada (poveri canetti...):
Dopodichè imbocco una serie di vialoni deserti, ancora in costruzione, probabilmente nuove strade che serviranno ad alleggerire il traffico della metropoli. Vi si affacciano grandi stabilimenti industriali e insediamenti che definire villaggi è un complimento: quattro baracche di lamiera, cani randagi, discariche, spiedi a terra in cui cuoce qualsiasi tipo di animale, gente che raccoglie la spazzatura per rivenderla, In questo panorama desolato spiccano qua e là alcune belle scuole, ben tenute, con i loro manifestoni di propaganda del partito, i muri verniciati di fresco, i cortili curati e, all'ingresso, atm e guardiola.
Non faccio in tempo a pensare che la luce sta drasticamente diminuendo, che si levano raffiche di vento violentissime e davanti a me si para un muro di nubi nere nere nere e basse, mugghianti, da Apocalisse. Chi è in motorino si ferma a bordo strada e indossa preventivamente la mantellina. E se lo fanno loro... Mentre recupero la mia, inizia a piovere. Una goccia, due. Un fiume. Una cascata del Niagara. E vento teso che sposta i motorini e fa volare gli alberi, le lamiere, l'immondizia, gli spiedi con i cani cotti. Komoot mi manda su una sterrata che, nel giro di pochi minuti, è diventata una palude con fango al ginocchio. Ricalcolo la traccia, ma a spanne, a intuito: non posso tenere il telefono in vista. Finisco su una strada dove è in corso un cantiere, ed è quindi strettissima, piena di buche che ora son laghi dalla profondità insondabile e con 400m di fango per lato , fuori dalla striscia asfaltata. Il vento mi fa sbandare, devo evitare le buche e anche gli altri mezzi che passano non sono ben saldi sulle ruote. E' davvero una situazione di merda.
Nel tentativo di tagliare e riprendere la traccia, finisco in una zona inaccessibile controllata dalla Marina militare. Per 200m chiusi, devo fare 6km in più, e a nulla valgono i miei tentativi di intenerire i militari che sorvegliano gli ingressi. "Ma piove". "Non puoi passare di qui". "Ma guarda quanto diluvia, ci metto un minuto". Non puoi, devi tornare indietro". E giro sui tacchi, con il thank you very much più passivo aggressivo che mi sia mai uscito di bocca. Un poco rallenta la violenza del temporale, ance se non smette affatto di piovere e le strade sono in condizioni sempre peggiori. Riprendo finalmente la traccia, e raggiungo il paese dove devo imbarcarmi per attraversare il fiume ed entrare in città. Niente ponti, qui, solo traghetti. Il paese ha una sola strada, ed è completamente intasata dalla fila di auto che devono imbarcarsi. Ne salgono una decina per volta, non oltre, e la barca impiega una decina di minuti ad andare e tornare. Immaginatevi voi che colonna infame. Per fortuna io scorro nella via rapida dei motorini e raggiungo il corridoio coperto da lamiere dove si vendono i biglietti. Costa 0,06 euro la corsa, e il biglietto è una tessera che viene venduta qui e ritirata 10 metri più avanti da persone in divisa tutte affette da disabilità fisica. I corridoi coperti, tutti fatti di pezzacci di metallo taglienti e pieni di chiodi e robaccia che potrebbe essermi esiziale, sono intasati di motorini che scaricano gas e quasi non si respira. Ma l'attesa dura poco e, in una corsa e chi sale e chi finisce in acqua, riesco a imbarcarmi al pelo. Il traghetto non è provvisto di tettoia e si resta alla mercè della bufera. In breve, però, sono di là, e, con la stessa foga, si scende.
Una volta scesa, la situazione non è tanto più idilliaca: le strade sono larghissime, ma le corsie divise da blocchi di cemento che le rendono strette. Se passa un'auto, mi sfiora. In più sono completamente allagate e non si capisce se sotto alle pozze ci siano buche di due metri in cui precipitare lasciando giusto qualche bolla d'aria che scoppietta in superficie oppure semplici avvallamenti. Scruto le ruote dei motorini per capire, e seguo le loro tracce.
Quando mi avvicino al centro, ovvero al Distretto 1 (dove ho l'albergo) la situazione migliora, le strade sono in condizioni più decenti e, per assurdo, anche il traffico si fa meno aggressivo. Mi colpisce tutta questa città moderna all'improvviso. I grattacieli nuovissimi, specchiati, e i palazzi residenziali, i locali, i negozi, le piazze e gli edifici storici... Neanche ad Hanoi ne ho visti, così. E' da quando son partita, ad eccezione dello scalo in Shangai, che non vedo nulla di simile. Rimango quasi stordita da queste altezze vertiginose, da questo senso di contemporaneo. Lo shock si dà soprattutto quando percorro il ponte sul fiume Saigon. Qui lo skyline grida forte. Io non sono una fan della verticalità architettonica e dell'ultramodernismo, però dopo tre settimane di villaggi, baracche, capanne e casupole, vi dirò...
Ormai sono quasi arrivata. Sono molle di fango, e ben stanca, ma felicissima. Qui c'è tanto da vedere, da esplorare, da fare, e anche da riposare. Passo nella piazza del Teatro dell'Opera, edificio coloniale francese che vedrò bene domani, e davanti alla statua di Ho Chi Minh.
Poi, seguendo la traccia, mi infilo nel dedalo assurdo di vicoletti strettissimi, affollati di ristoranti, bancarelle e casine minuscole grandi come una scatoletta di tonno, affacciate alla strada, dove chi ci vive condivide la quotidianità con i passanti.
Raggiungo l'hotel che ho prenotato per 3 notti e... Lo lascio pochi minuti dopo. Due i motivi: il primo, è che il proprietario, che vive nella hall, era schifato dal mio essere fradicia e infangata, e pretendeva che restassi in braghetti e calzini in mezzo alla strada per non portargli lo sporco in casa. Il secondo è che, nella sua testa, lasciare la bici in strada per tre giorni fossi una bella idea. Gli avevo anche scritto, eh. Gli avevo spiegato del mio viaggio e della necessità di mettere la bici al sicuro. E lui mi aveva risposto con entusiasmo, subito, dicendo di non preoccuparmi. E vedrai! Quando gli dico che "on the street is not an option", lui ci pensa su, mi guarda ancora schifato e spaventato dal fango che potrei portargli in camera, e, quindi lo saluto. "Cancellazione gratuita eh", lo minaccio. "Ti avevo anche avvisato della bici (imbecille cretino minus habens spocchioso e incapace)!". "Sì sì te la faccio subito". E si adopera. Siccome qui c'è una densità di 30 alberghi al metro quadrato, nei venti metri successivi ne incrocio 3. Scelgo quello più grande, che sicuramente ha un posto per la Signorina, entro, chiedo il prezzo, la disponibilità, faccio i complimenti al receptionist per le unghie lunghissime fucsia viola e rosa glitterate "Slayyyyyyy" e via che ho una bella camera al sesto piano del Distretto 1 di Ho Chi Minh City, e la bici è al sicuro in un parcheggio sotterraneo chiuso.
Appena entro in camera inizio a spogliarmi e buttare a terra in un mucchio i vestiti luridi, puzzolenti, pieni di fango e strada. Infatti, immediatamente dopo la doccia, mi fiondo nell'agognata laundromat che sta a 150m dall'hotel. E' ben recensita, quindi vado sul sicuro. Sono 3 lavatrici e 3 asciugatrici in un "negozio" che è talmente piccolo da non avere nemmeno la porta, ma pace, è aperto 24/7. Con 2,5 euro lavo e asciugo tutto il carico di stracci lerci che mi accompagna da tre settimane, e la goduria nell'estrarre i vestiti profumati e caldi la conosce solo chi è dovuto rimanere sporco per tanto tempo. Tra un carico e l'altro, intanto, esploro i dintorni. Mi trovo proprio accanto a Bui Vien Street, la via della nightlife e dei backpackers occidentali.
Intatnto appare evidente come il consumismo, qui, sia esploso in tutte le sue più mirabolanti e accattivanti forme, tra mall, negozi, centri commerciali, ristoranti, pub e locali che scimmiottano lo stile americano, discoteche e strip club, centri massaggi sospetti e palesi bordelli. Il che è una novità qui in Vietnam, per quanto ho visto. A differenza della Thailandia, dove questo tipo di uffizio è diffuso anche nelle cittadine e la lascivia del primo mondo ha trovato pronta risposta nella cultura e nella povertà del terzo, qui il partito comunista ha messo al bando i vizi, la prostituzione, le droghe, anche leggere, e la pornografia, puntando invece ad educare ai valori della famiglia tradizionale e delle virtù morali del lavoro e della morigeratezza. Quindi qui in Vietnam non ho ancora visto luoghi così, con le insegne con le donnine nude o le ladyboy che chiamano i passanti con voce suadente. Ovviamente, qui compare anche un certo tipo di clientela: maschi bianchi occidentali, australiani, statunitensi, europei, sopra i sessant'anni, sovrappeso, disfatti dall'alcool, in cerca di ragazzine o avventure a pagamento. Cosa che mi fa abbastanza schifo, ma i giudizi morali li sospendiamo per un attimo. Ci sono anche tanti turisti incuriositi da una città in crescita vertiginosa, dove sono ricomparsi 7-Eleven, Circle K e Family Mart come non ci fosse un domani, e i venditori sono un po' più aggressivi e molesti. Per non parlare dei prezzi, triplicati e più rispetto alle altre città, dieci volte più alti che nei villaggi. E adattati al PIL del paese di provenienza, ovviamente. Me ne accorgo sia facendo spesa, sia quando mi informo per eventuali tour guidati della città e dei tunnel di Cu Chi, che voglio assolutamente visitare. I prezzi sono bassi per i nostri standard, ma fuori di testa per il Vietnam! Prenoto su Get our guide, che conviene, e faccio acquisti alla Coop, dove vanno i local. E per la città, me la cavo a piedi, senza mezzi. Che è un po' il mood del viaggio; in fondo quel che mi interessa è tutto qui in zona.
Per la cena, mi affido a un ristorantino sulla strada che sta proprio all'ingresso dell'hotel, e fa asporto. E' frequentatissimo da gente del posto, quindi ritengo sia buono. Assaggio uno spiedino di pollo speziato avvolto in foglie di betel, quelle che in tanti paesi si mastica e fa sputare rosso, uno spiedino di pollo fritto piccante, un'insalatina di tofu con peperoncino e una zuppetta di pasta di riso con mais e uovo. Devo dire: tutto eccellente!
Domani mi aspetta una bella giornata di esplorazione a piedi di due quartieri, i Distretti 1 e 3, della città. Andrò alla ricerca delle tracce di due filoni storici in particolare: il periodo coloniale francese e la guerra del Vietnam. A questo poi si aggiungono mercati, vie pedonali e parchi. Ma l'itinerario che mi sono approntata con Maps è un anello perfetto che comprende tutti i principali punti di mio interesse. Sono curiosissima di scoprire tutto! Mi addormento mentre dalla finestra salgono i rumori lontani dei locali, di musica, grida, e poi, su tutto, la pioggia che frantuma le luci di Ho Chi Minh in un caleidoscopio di goccioline al neon.
21/7
Ho Chi Minh city
10km pedibus
Che bello stamattina poter fare tutto con calma, e non incazzarsi per il fatto che i telefoni non si sono caricati (qui ogni tanto la corrente va via a buffo) e stare nel letto un po' di più, godersi il materasso, i cuscini morbidi... Che bello indugiare nell'ozio! Con calma mi metto in moto sotto ad un cielo grigio che però spisciola solo qualche gocciolina di pioggia, riservandola forse per quando tornerò in sella. Ho saputo della tragedia dei morti ad Ha Long. Io ci sono stata a inizio viaggio... E' incredibile essere così vicini, così papabili... Ed è un ulteriore monito: qui il maltempo non è uno scherzo. Si può perdere la vita.
La mia passeggiata inizia su vialoni densi di grattacieli di banche e aziende, dove un fiume di motorini e auto scorre a ondate regolari e, sui marciapiedi, si svolgono attività che vanno dal classico street food al gonfiagomme con compressore sotto all'ombrellone. La differenza con Hanoi si respira in ogni via. Là storia, cultura, edifici antichi. Qui vorticosa modernità, economia rampante, moda, gioventù che vuole divertirsi e viver bene, 24 ore su 24. In origine era un paludoso villaggio di pescatori khmer noto come Prey Nokor. Dal XVII secolo, con lo stanziamento dei vietnamiti, iniziò a crescere e svilupparsi, tanto che i francesi ne fecero un centro commerciale e culturale di primaria importanza in epoca coloniale: era la capitale dell Cocincina. Dal '49 al '55 lo fu del Vietnam, e dal '55 al '75 del Vietnam del Sud. In tutto ciò, nel suo rapido sviluppo che l'ha portata a essere la città più ricca e popolosa del Vietnam, ha attirato genti dalle campagne e dagli Stati vicini, al punto da avere una delle Chinatown più grandi e popolose al mondo (chiamata ChoLon, grande mercato) e comunità indiane estesissime e ben radicate.
La prima cosa che decido di visitare è il monumento dedicato al Venerabile Thich Quang Duc, monaco buddista di 66 anni che, nel '63, si immolò a questo incrocio per protestare contro la politica antibuddista del presidente del Vietnam del Sud supportato dagli Usa; aveva, ad esempio, vietato di poter esporre la bandiera buddista. al suo gesto di ribellione e l'incendio di sommosse che accese si attribuisce in parte la decisione da parte della Casa Bianca di entrare in guerra. Questo memoriale esprime tutta la serietà gravissima (12 tonnellate di bronzo!) della vicenda, anche se è molto recente, del 2010.
Proseguo su marciapiedi usati per qualsiasi scopo tranne far passare i pedoni: ci sono parcheggi di motorini con tanto di biglietto e guardiani, bancarelle, immondizia e street food. Ma per camminare tocca stare sulla strada nel traffico.
Raggiungo quindi la pagoda di Xa Loi, santuario modernista, del '56, che custodisce anche una reliquia del Buddha. Il luogo è noto perchè nel '63 fu attaccato da schiere di soldati che fecero strage di monaci, in quanto era sede delle proteste contro il Governo antibuddista. Oggi è tornato un luogo santo e tranquillo, gonfio di fiori, offerte e incenso, e poveri uccellini in gabbie piccole piccole... Forse in vendita, forse da spiedinare, qui non si sa mai!
Esce il sole e il caldo umido rende pesanti i passi. Mi muovo su vialoni intelligentemente alberati, ora tra alti palazzi di vetro e cemento, ultramoderni, ora tra vecchi condomini brutalisti in cementaccio coperto di rampicanti. Il mix è abbastanza straniante, ma nell'insieme non mi dispiace affatto.
Raggiungo quello che è il punto per me di maggior interesse della giornata: il Museo dei residuati bellici. Che non si capisce se si riferisca a cose, persone, fatti... Tutti i tre, in realtà. Si tratta di uno dei luoghi più ardui che io abbia mai visitato. E' proprio difficile assistere a tutto l'orrore che viene raccontato qui, e farsi permeare, e comprenderlo, e sentirlo addosso. Ma è necessario. La guerra è questa merda qui, ha questi volti straziati, porta questo dolore. Senza fronzoli, senza giri di parole. L'ingresso costa poco più di un euro. Si accede a un cortile stipato di mezzi americani, dai famigerati elicotteri, grandi come autobus, ai carri armati, ai caccia, ai lanciafiamme su cingoli. Sembrano giocattoli, visti così. Portano morte. Giocattoli di morte. C'è anche una campana dal suono lugubre creata con il guscio di una bomba. Il vento la suona e pare un lamento straziante, un requiem mai rimarginato. E si capisce perchè, proseguendo.
Un angolo del cotile è dedicato alle famigerate prigioni francesi e sudvietnamite di Phu Quoc e Con Son, dove i ribelli, i patrioti, e i comunisti furono privati della libertà, dei diritti minimi, della dignità e spesso della vita. Pian piano si scende in un abisso di orrore sempre più spalancato.
Vengono mostrate le celle e le torture. Cosa semplici: a volte, restare chiusi nudi sotto al sole in celle senza tetto, o in gabbie microscopiche, come quelle del pollame destinato al macello.
C'è una ghigliottina, che è stata usata per le esecuzioni capitali fino agli anni Sessanta. Ah, vive la France! C'è anche la foto della testa dell'ultimo decapitato. Perchè questo museo funziona così: mostra le cose come sono state, senza indorare la pillola.
Poi ci sono le testimonianze dei prigionieri, le foto dei poveri resti trovati in quei luoghi e la descrizione delle torture. Cose basiche, banali quasi. Chiodi arrugginiti infilati a martellate qua e là nel corpo, bastonate e ossa rotte, poco cibo marcio e infetto, pochissima acqua, ferite, calci, sospensioni con corde e altre ideone da Inquisizione, ma anche graticole, corrente elettrica, waterboading, denti cavati, unghie strappate. Non manca nulla all'elenco delle nefandezze. E tutto è testimoniato con foto di reduci e morti. Senza censure. Crude, terribili, da incubo. Perchè non si dimentichi cosa ha passato questo popolo.
Anche il museo per sè è così: una serie di foto estremamente disturbanti che raccontano tutti gli orrori della guerra, i crimini commessi a danno dei civili, la reazione dell'opinione pubblica, le armi devastanti utilizzate, il costo in vite umane e le conseguenze a lungo termine del conflitto: ancora oggi tanti bambini nascono con disabilità di ogni genere per l'esposizione alla diossina presente nei diserbanti, come l'Agente arancio, ancora oggi si salta per aria per mine inesplose e il napalm ha lasciato ferite indelebili. Gli Usa hanno sperimentato qui tutto il peggio della tecnologia militare, hanno creato vuoti, cancellato generazioni, fatto voragini. Per perdere, e tornare a casa con reduci traumatizzati e una generazione disgraziata anche da loro. Un ottimo lavoro!
Sono interessantissimi anche gli scatti "famosi" dei giornalisti che, al tempo, hanno raccontato il conflitto. Sono tasselli di storia contemporanea di rara importanza.
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un fotografo salvato da un proiettile proprio dalla sua macchina |
Ogni scatto è un colpo al cuore. Mi colpisce soprattutto la violenza con la quale i soldati se presero con i civili. Donne, bambini, anziani. Un vietnamita morto è sicuramente un Vien Cong morto, dicevano. E giù di bombe incendiarie al fosforo e mine, granate con chiodi e napalm.
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l'ira di Achille? |
Una sezione è dedicata anche alle generazioni di disabili nate a causa delle sostanze tossiche impiegate. La cosa più crudele, che mi colpisce, perchè con ragazzi con disabilità lavoro a scuola ogni giorno da dieci anni, è che qui non c'erano cultura e strutture per poter aiutare queste persone, che quindi son finite a vivere, e vivono tutt'ora, ai margini della società, spesso tenute come bestie. Ad esempio si racconta, come fosse cosa normalissima, la storia di una ragazzina con disabilità cognitiva che, siccome mangia tutto ciò che le capita a tiro, viene tenuta dai genitori in una gabbietta di legno. Eh già.
Molti muoiono prematuramente, tra atroci sofferenze e una vita disumana. Altri nemmeno nascono. C'è una nutrita collezione di vasetti con feti malformati in formalina.
La visita a questo museo mi prova, emotivamente, e devo fermarmi un attimo ad elaborare quel che ho visto. Noto che non sono l'unica, che tanti hanno gli occhi arrossati e lucidi e fissano il vuoto. E dire che di guerre intorno a noi ce ne sono, adesso, in corso, con tutto l'orrore che comportano. Ma le vediamo da lontano, attraverso lo schermo. E si sa, "Il dolore degli altri, è dolore a metà".
Quando mi sono un poco ripresa, mi rimetto in cammino e raggiungo il famosissimo Palazzo della riunificazione, ex residenza del presidente vietnamita; la struttura, realizzata da un architetto viet formatosi a Parigi, sembra essersi cristallizzata negli anni Sessanta, con i carri armati in cortile e la palme reali che ombreggiano i viali. Decido di non visitarne gli interni, che, a quanto leggo, sono spogli e con dettagli kitsch, dalle zampe di elefante mozzate e usate come elemento d'arredo alle sale per giocare a carte, cinema, nightclub e pista per atterraggio elicotteri sul tetto. Al di là dei dettagli, questo palazzo è il luogo esatto nel quale si può dire sia finita la Guerra del Vietnam: caduta Saigon, un carro armato si schiantò contro le porte della residenza del presidente del Vietnam del Sud, e fu quello l'ultimo atto di una lunga tragedia.
Bastano pochi passi per raggiungere il quartiere di Dong Khoi, storico e appariscente, con tutti i più importanti resti di architettura coloniale francese a far bella mostra di sè. Qui le strade prima erano canali navigabili, ora interrati. La prima struttura che balza allo sguardo è la Cattedrale di Notre Dame, costruita tra il 1877 e il 1883. I campanili gemelli di 60 metri e le mura in mattoni rossi sono impacchettate per lavori di restauro che proseguono dal 2017... Altro che il Duomo di Milano!
Proprio accanto si erge un altro edificio simbolico di Ho Chi Minh: la Posta centrale. Anch'esso ottocentesco, di costruzione francese e ancora pienamente funzionante, viene spesso attribuito erroneamente ad Eiffel, ma è di Foulhoux, un suo meno noto contemporaneo. Tutta la struttura è stata mantenuta con gli elementi originali, dalla facciata alla volta a botte, dalle targhe dedicate agli scienziati come Morse e Franklin alle grandi mappe del Vietnam. E su tutto lo zio Ho getta uno sguardo di sereno controllo.
A lato delle Poste si trova una piacevolissima viuzza pedonale su cui si affacciano solo librerie e cartolerie, banchetti di artisti e qualche caffè per godersi una buona lettura al fresco. Nella frenesia della città in corsa, qui il tempo rallenta per un istante.
Poco oltre, sempre stando in tema edifici coloniali, si trova il Teatro dell'opera, che ho già visto ieri di sfuggita, passando in bici. E' del 1897 e manifesta senza un briciolo di umiltà lo sfarzo della Francia nella Belle Epoque; a quanto pare gli interni sono un tripudio di statue, lampadari e velluti, ma si possono visitare solo assistendo a uno spettacolo.
Tornando verso l'hotel su grandi vialoni monumentali tappezzati di foto e manifesti di propaganda, si arriva al municipio della città, sempre in stile coloniale, costruito tra 1902 e 1908. Davanti, per sicurezza, è stata piazzata una bella statua dello zio Ho che saluta le folle e indica il luogo dove sorge il Sol dell'Avvenire.
Più oltre si erge l'imponente struttura del mercato di Ben Thanh, inaugurato nel 1914 e simbolo di Saigon con il suo ingresso sovrastato da una torre con orologio. Sono 13.000 metri quadrati di merce impilata in torri apparentemente pericolanti, e si dice che quel che non si trova qui, probabilmente non esiste. Leggo che la qualità della merce venduta, che sia caffè, frutta secca, pesce, o abiti, non è malvagia, ma i prezzi sono tarati più sui turisti che sui local. In effetti, nonostante il discreto casino, mi sembra tutto molto pettinato e ordinato rispetto ai mercati che ho visto finora nei paesi, quelli veraci, con le mosche e la carne in terra. Va alla grande il caffè cacato dal furetto, ve lo dico.
Anche le vie circostanti son tutte un gran mercato di ambulanti, venditori di frutta in bici e parcheggiatori di motorini su marciapiedi che si fanno il pisolino sulle sedie, sul posto di lavoro.
Ultimo focus di interesse è il tempio induista di Mariamman, considerato sacro anche da vietnamiti e cinesi. Il tempio ha la fama di essere miracoloso contro malattie e infertilità, risale al XIX secolo ed è stato costruito da chettyar di lingua tamil. Stupiscono sempre i colori sgargianti delle statue, le corone floreali e le offerte di cibo che vengono spalmate, anzi, spiaccicate proprio sugli altari.
Passando per ampi parchi e minuscole viuzze dove sono inseguita da una continua richiesta di fermarmi per un "massage massage", rientro in camera. Sono stanchissima! Un po' per questo, un po' per la tempesta che si scatena nel tardo pomeriggio, esco solo per procacciarmi una cenetta molto easy a base di noodles istantanei e frutta.
Domani mi attende la visita guidata ai Tunnel di Cu Chi, dove combatterono nella giungla i Viet Cong. E nel pomeriggio visiterò la Chinatown di ChoLon, con le sue pagode e le erboristerie tradizionali. Poi, sarà già il momento di salutare questa metropoli dalle infinite luci e altrettante ombre. Mi attende l'esplorazione pedalata del delta del Mekong, con i suoi villaggi su palafitte, e poi un traghetto che mi porterà direttamente nel cuore della capitale cambogiana.
La Volpe è una fantastica cicloscrittrice!
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