21/8
Muang Khua-Muang Mai
38km
Diluvia tutta notte e tutta mattina, con forza. Il rumore della pioggia sulle tettoie di lamiera rimbomba quanto i tuoni, e se la gioca, in fastidio, con il canto strozzato dei galli. Alle 6 il paese viene svegliato definitivamente da una musichina molesta in stile Zecchino d'oro, ma socialista, seguita da un'ora e mezza di pistolotto monocorde che pare il discorso di Capodanno del presidente. Altra musichina, e finalmente, alle 7.30, gli altoparlanti della filodiffusione tacciono. Torna a sentirsi solo il rumore della pioggia. Vorrei partire presto per affrontare con calma la salita, ma devo aspettare che le nuvole si spostino. Già ci saranno paludi di fango e strade allagate, così non si vede nemmeno nulla... Mi do come tempo limite le 9.30. Se per quell'ora non ha smesso, tiro fuori il vestito della festa, tutto l'abbigliamento waterproof monsoonproof madonaproof. Invece proprio alle 9.30 il temporale si placa ed esce un solicello che pare timido ma è rovente e asciuga tutto. Prima di partire pulisco un po' deragliatore e parti del cambio, e ingrasso la catena. In questi giorni deve cantare, e io devo poter fare affidamento sulla Signorina, anche se comincia a essere provata da tutto questo fango e questi sobbalzi. Parto, finalmente, e pedalo svelta nei primi 10km ancora in valle, lungo il fiume.
Voglio attaccare la salita, non so cosa mi aspetta e ormai ansia e curiosità bruciano. Passo dall'arco che segna la fine dell'abitato, e noto la scritta: "Good luck for your trip". Un po' inquietante! Serve fortuna? I pochi local che incrocio mi mostrano dei gran pollicioni di approvazione e incoraggiamento. Loro sanno cosa mi aspetta, a differenza mia, che ne ho conoscenza solo teorica! Passo le ultime capanne, un bel rogo di spazzatura ed eccoci qua. La strada lascia il corso del fiume e la sua valle, per piegare a nord, tra le fauci dei monti. Subito impenna. Mi insegue un cane, da cui non posso fuggire, ma il padrone dalla casa lo richiama subito. Grazie! Poco oltre un pannello di cemento indica che inizia il distretto di Mai (nel cui capoluogo mi sto dirigendo, Muang Mai), "terra dell'eroe". Credo intendano "degli eroi", cioè i patrioti che si sono sacrificati per l'indipendenza della nazione, i membri del Pathet Lao alleati dei Viet Minh, ovvero i comunisti che hanno mandato a casa i colonialisti francesi con le pive nel sacco e i croissant nel culo.
Inizio a scalare, e sorprendentemente non trovo particolari difficoltà. Il fondo è di asfalto più che decente, il traffico nullo, le pendenze pedalabili. Certo ho un buon allenamento dopo due mesi passati a pedalare 100km al giorno quasi tutti i giorni. Ma non devo mai scendere a spingere la pesante Signorina, neanche sulle temibili rampe al 18%, e non sono mai costretta a fermarmi. Salgo pianino, con il cambio leggero, e mantengo un passo costante tra i 5 e i 7km/h. Certo si suda, ma proprio da sciogliersi. Continuano a cadermi sulle gambe le gocce che colano dal mento, e nelle orecchie quelle dai capelli. E dire che il sole è coperto da un velo grigio di nuvole! Altro fastidio sono gli insetti, mosche e tafani in primis. Andando così piano, hanno il tempo di individuarmi (per come puzzo, poi) e cercare di pungermi, nonostante l'Autan. Mi seguono e io non posso lasciare il manubrio per scacciarle, se non fermandomi, ma questo significa interrompere il ritmo. Che fastidio! Per fortuna i panorami intorno catturano lo sguardo e distraggono dai disagi. Tutto è verdissimo e rigoglioso, strabordante di vegetazione fitta fitta su tutte le sfumature del verde che, nella distanza, vira al blu e si confonde con il cielo e le cime lontane. Su queste pendici non ci sono villaggi, nemmeno case sparse. Tutto è linfa e liane, rami e tronchi e foglie. Foresta viva che respira lenta lenta, quasi quanto il mio incedere. Ogni tanto passano un van o un pullmino diretto in Vietnam, o motorini stracarichi di casse e sacchi da vendere al mercato. A bordo strada noto spesso grossi sacchi di iuta pieni di qualcosa di tondo, bianco, delle dimensioni di un cocco, estremamente maleodorante. Sembrano funghi marci, e ho l'impressione che vengano raccolti nei boschi e poi lasciati lì da caricare quando si passa in motorino. Infatti ogni tanto vedo qualcuno che raccatta questi carichi che puzzano di carogna e bidone dell'umido... Ma no, certo! E' la resina degli alberi della gomma!
Le buone sensazioni fisiche e l'euforia nel non essere troppo lenta in salita (a quanto pare mi sottovaluto ma meglio una sorpresa in positivo che viceversa) mi portano a raggiungere il primo passo molto più in fretta del previsto. Quando mancano ormai poche centinaia di metri a scollinare, su rampe ben ripide, sento avvicinarsi una muta di cani che latrano, abbaiano, ululano e ringhiano. Cani o lupi? Mi fermo, per capire. Da una curva sbuca un uomo in motorino inseguito da almeno una trentina di cani i ogni forma, misura e colore. Non capisco se è un inseguimento, una caccia in branco, o una passeggiata senza guinzagli, ma lascio che la carica dei 101 cani marci passi in discesa, sperando che non cambi focus e preda, anche perchè sono tanti, e io in salita non ho modo di scappare.
Spingo, mi alzo sui pedali, ed ecco le prime capanne del minuscolo insediamento sulla cima. Credo ci abitino una, massimo due famiglie. Vedo una signora anziana che stende il cuore dei germogli di palma su alcuni graticci di legno, a essiccare. Un adolescente che tira bucce di banana a un bambino che dondola appeso a una corda che penzola da un ramo e tre bambini, in giro da soli in mezzo alla strada, che mi salutano più o meno timidamente. Che vita si fa, quassù.
La strada resta in costa e poi scende un poco, permettendomi di prendere un po' d'aria fresca e recuperare fiato. Poi si arrampica di nuovo. Proprio appena ricomincio a salire, sento un curioso rumore e urletti agitati, e in un nanosecondo realizzo che sto per impattare contro una massa indistinta, una palla di bambini sparata da un cannone di Willy Coyote. Ed eccoli qua, belli come il sole. Tutti felicioni nonostante, anzi proprio per il mancato impatto e il loro quasi volo giù dalla curva nella scarpata.
Si sono costruiti degli slittini, degli skate di rami con tappi al posto delle ruote. Su ognuno stanno in due, e si buttano giù sfruttando la pendenza della strada per prendere velocità. Sono gasatissimi e mi mostrano i loro ingegnosi trabiccoli, per poi osservare con cura la bici. Non parlano inglese, è tutto a gesti, sguardi, versi di compiacimento e risate. Quando riparto, decidono di spingermi un po', correndo, fino a quando non prendo un minimo di velocità. Intanto ripetono come una canzoncina "Hello thank you hello thank you!". Che cuori! Potrebbero essere ottimi ingegneri, se avessero la possibilità di studiare. Ma non ce l'hanno. E magari diventeranno bravi artigiani, o tuttofare cui la gente del villaggio si risolve per qualsiasi problema tecnico, cosa che comunque li porterebbe ad avere un posizione rispettabile nella loro comunità. Insomma, mi auguro possano fiorire in questa loro passione e abilità, e non vengano spediti a zappare la terra o abbruttirsi di noia pascolando i bufali.
Scollino di nuovo, presso un altro microvillaggio dove abita palesemente una sola famiglia allargata; sono tutti radunati sotto ad una tettoia e, mentre i bambini giocano, due donne puliscono verdure, una cuce, una coppia di anziani fissa il vuoto e i polli razzolano in strada, dove sonnecchiano i cani. Segue poi una discesa piuttosto ripida, e, dato il fondo, pieno di buche e paludi, zone franate e sassi, anche pericolosa. Si procede a freni tirati, e spero tengano botta fino all'arrivo perchè li sto sollecitando molto. I panorami che si aprono intorno sulle valli e sulle cime creno uno sfondo di pura meraviglia, di verde verde verde totale, assoluto, incontaminato.
Ultima salita, che si condensa in una lunga rampa (2km) tra il 10 e il 15%, un muro spezzagambe. Ma so che poi si scende e basta, quindi mi alzo sui pedali e butto lì le ultime energie. Lungo questo ripido tratto si sviluppa un villaggio più grande degli altri incontrati finora. Ci sono tanti ragazzini in giro a gruppi, e anche qui sono tutti entusiasti e salutano, ma a tratti diventano un po' molesti. Mi si assiepano intorno, strattonano la bici, mi rincorrono, mi tirano addosso acqua. Lo fanno per giocare o nell'idea che sia una cosa buona e giusta, ma io rischio di cadere, o andar loro addosso, e mi ritrovo fradicia di liquidi che chissà da dove arrivino. Per fortuna quando inizia la discesa li semino tutti, anche i più agili nello sport tradizionale di qui, la corsa in sciavatte. In un soffio ecco Muang Mai, l'ultima Thule laotiana, l'ultima cittadina prima del confine. Da qui passa solo una strada, e porta a nord, in Vietnam.
Proprio per la sua posizione, pur essendo di suo un villaggetto da nulla, ha numerose guesthouse. Sono tutte da incubo, recensite malissimo, senza acqua corrente, luride, piene di insetti e muffa. Una sola viene descritta come passabile, e punto lì. quando arrivo, però, la trovo chiusa e sventrata da lavori di ristrutturazione. Mi tocca quindi virare sull'unico hotel, una cattedrale nel deserto, un albergone a 7 piani, con facciate a specchio blu tamarrissime e la brutta fama di esser teatro di furti. Soprattutto di bici. E di parti di bici (borracce, ciclocomputer, pompe, specchietti...). Per ovviare al problema, dopo aver pagato la stanza, senza nè chiedere il permesso nè proferire verbo alcuno, isso la bici su per la grande scalinata e poi in ascensore, e la porto in camera. Il receptionist, un ragazzo che potrebbe avere 15 o 45 anni e ha qualche malattia della pelle che lo riempie di bolle e croste su tutto il corpo, non solo non si lamenta, ma, anzi, mi aiuta nell'operazione.
La camera sembra bella, ma è un disagio unico. Lo sciacquone non funziona, e mi improvviso idraulico per capire il problema e risolverlo. Ma così perde la bum gun, la doccetta da culo, e allaga tutto. Non ci sono asciugamani. C'è una puzza di fumo di sigaretta da intossicarsi e il pavimento è lercio, pieno pure di insetti morti. Nei cestini ci sono ancora i rifiuti di altri, e in bagno due rasoi aperti, usati e pieni di peli. Il peggio, però, lo scopro solo a sera, quando mi butto nel letto. Federe e lenzuola non sono state lavate nè cambiate dopo la permanenza dell'ospite precedente. Puzzano di sudore e sughi corporei, di alito di tabagista e di un fondo di dado alimentare. Una roba da vomitare. Mi auguro solo non siano gli effluvi del ragazzo con la malattia della pelle, che potrebbe essere un'innocua (per me) allergia oppure sifilide o scabbia. In tal caso, ora ce l'ho anch'io. L'unica cosa di cui non posso proprio lamentarmi è la vasca a idromassaggio, di cui approfitto dopo averla un po' lavata. I getti d'acqua mi massaggiano le zampine affaticate, e tutto sommato non si sta così male neanche qui.
Quando si avvicina l'ora di cena inizia a diluviare, quindi faccio una corsa al mercato coperto, che è proprio davanti all'hotel, e raccatto quel che trovo: noodles, pomodori, longan... E' tutto un po' a caso, ma le bancarelle sono particolarmente luride e disordinate, e la pioggia aggiunge quel pizzino che umido e fanghiglia che smerda anche i pochi angoli rimasti vagamente puliti. Vedo da vicino i simil favi di miele in cui vengono allevati i grassi bacherozzi che poi le signore, con il pollicione, spingono fuori dalla crisalide in sacchetti porzionati per la vendita. Sono orribili. Si muovono, pulsano, ballano. E altri insetti, come mosche e moscerini, li prendono d'assalto perchè son pur sempre proteine. E' materiale per incubi di lungo corso e anche solo a scriverne mi viene da vomitare. Spero per loro, che li mangiano, che siano almeno buoni di sapore.
Rientro fradicia nella mia stanza puzzolente e ceno, mentre preparo la traccia di domani. Questa è l'ultima notte laotiana. Si torna nel prospero Vietnam, che, per ridere, con i miei, chiamo "la Svizzera", perchè paragonato a qui la qualità dei servizi e in generale della vita è altissima. Certo, poi ci sono ancora un sacco di montagne da scalare... Ma sono gli ultimi giorni di questo lungo viaggio, è giusto che prendano quel che resta.
22/8
Muang Mai (Laos)-Dien Bien Phu (Vietnam)
65km
Dormo poco e male, nonostante i buoni propositi di andare a letto presto. Le immagini delle pustole del ragazzo si mescolano a quelle delle larve pulsanti, e sento irrazionalmente prurito ovunque. Tutto mi sembra sporco e infetto. In più, passata la mezzanotte, arriva un gruppone di motociclisti da viaggio organizzato con guida. Gentaglia che crede di vivere la "grande avventura" con un motore grosso come una casa sotto al culo, due auto al seguito, la guida e una dose di cafonaggine e mancanza di rispetto da prenderli a sberle. Ne ho incontrati ovunque, dall'Asia centrale al Sud Est, in Europa, negli States. Sono tutti uguali. Sgasano, fanno rumore, puzza e tanta scena. Poi vedono me, da sola, senza cavalli a spingere, e si rendono conto di quanto poco avventurosa sia la loro scappatella, e come siano ridicoli quei tutoni, quei bagagli immensi, quella spocchia. Come sempre, quando arrivano si comportano come se fossero i padroni della città, e fanno casino, sgasano, urlano, schiamazzano e poi lavano TUTTE le moto con la canna dell'acqua, disturbando mezzo Laos. Dopodichè, alle 6, parte il solito jingle in filodiffusione, che si mescola al canto dei galli (che son tanti) e alle voci del mercato. Mi affaccio alla finestra, l'aria è chiara e giallognola e sui monti vicini riposano le nubi basse come strascichi di sogno. Buongiorno.
Scendo a comprarmi la colazione, che ieri non ho acquistato per l'improvviso temporale. Recupero: caffè istantaneo 3 in 1, un bricchetto di latte di soia e due merendine al cocco. Mi sono portata dietro una bottiglia d'acqua vuota, che, rientrando in hotel, riempio al distributore di acqua calda che si trova nella hall. Poi allestisco il capolavoro: non ho la tazza (non l'ho portata) e non voglio usare la ciotola dei noodles, perchè sa di sugo e gambero. Allora recupero una vaschetta di gelato (mangiato settimane fa) in cui tengo le bustine di tè e caffè di emergenza, ci verso il caffè solubile, l'acqua calda, il latte et voilà. Per non fare casino, bevo con la cannuccia come una persona con disabilità pesanti, e pensarci mi fa così ridere che comunque mi sbrodolo. Questa la dedico agli amici viaggiatori che stanno via solo tre giorni e si portano comunque la caffettiera, perchè l'espresso signora mia, bevuto nero come quelli che son più intelligenti degli altri... Ma state a casa se non riuscite a staccarvi neanche dalle più piccole abitudini! Scherzo, eh. Che qui rischio di farmi nemici potenti. Vi voglio bene anche se viaggiate con la moka. Però no, dai.
Porto giù bici e borse, per tre piani di scale, perchè gli ascensori sono occupati dalle signore delle pulizie che non ce la possono fare, e bloccano le porte con bidoni e scope. Ora capisco perchè le camere sono sporche... Non è dolo, è proprio ritardo cognitivo di media entità. Oggi ne ho per tutti, compresi i motociclisti maledetti che si stanno vestendo come gli eroi omerici prima della battaglia. Mavaffanculo va'.
Alle 7 sto pedalando. La strada segue inizialmente un vallone, lungo il fiume, a risalire. La città finisce e torna la giungla umidissima e verde, e intorno i monti si fanno più alti e vicini, come si assiepassero a guardare. Non li vedo in volto, coperti di nubi come sono. Fa quasi fresco, ma per poco. Umidità e caldo tropicale salgono in fretta anche qui.
Dopo una decina di kilometri in falsopiano, la strada piega verso le montagne e iniziano qui i 20km di salita che mi separano dal passo, che segna pure il confine tra Laos e Vietnam. I primi 10 hanno una pendenza del tutto pedalabile e molto tranquilla, gli altri 10... No. Questo è il motivo per cui sono partita presto. Inoltre si tratta di un varco di frontiera remoto e poco battuto, spesso chiuso, e da poco aperto agli stranieri. Non vengono rilasciati visti in loco (a me non serve per fortuna) ed è frequenta che venga reso inagibile da frane, alluvioni ed eventi meteo avversi. Un bel respiro e si cominciano le danze.
Qui, tra questi torrente e queste sconfinate foreste, non ci sono più villaggi. Solo capanne isolate, forse ristoro momentaneo per i pastori. Il silenzio è interrotto solo da rari motorini e qualche autobus diretto in Vietnam o in arrivo. Il che mi consola: il valico è aperto, dunque.
A tratti le nuvole basse si mutano in pioviggine, che rende scivolosa la strada, spesso coperta di fango e sassi, legni e ghiaia di recenti frane. Le rampe finali, negli 3-4km dalla frontiera, sono veramente impegnative, e tocca dividerle in segmenti sempre più piccoli, prima da 500 metri, con pausa nel mezzo, poi da 200. E questa lentezza paradossale da Achille di Zenone fa a pugni con il desiderio di fare i controlli e sbrigare le pratiche, mettere il timbro sul passaporto e lasciarmi alle spalle anche questa formalità noiosa. In questo viaggio mi sto superando... Tra scalo in Cina, ingresso doppio in Vietnam, Cambogia e Laos, ho fatto la raccolta completa delle figurine.
A poche centinaia di metri da dove si trova il varco con gli uffici della polizia di frontiera, l'asfalto, già disastrato, sparisce del tutto, per lasciar posto a una maledetta palude di fango viscido e appiccicoso, che come colla risucchia persino le scarpe quando scendo a spingere a piedi. Non ho parole. Anche gli ultimi metri di questo Paese, nel punto in cui inizia e finisce, sono immerdati e impraticabili. Giustamente, una copertina riassuntiva del libro, un biglietto da visita onesto. Laos in a nutshell. La dogana è un piccolo baracchino al centro di uno spiazzo che è un acquitrino; per arrivarci, obbligatoriamente a piedi, si deve affondare nella melma fino al polpaccio. Intorno ci sono edifici diroccati e altri in costruzione, con operai al lavoro. Mi chiedo: ma prima di tirar su muri, non sarebbe il caso di occuparsi del fondo stradale, che non è un fondo e tantomeno strada?
Le procedure filano comunque piuttosto lisce. Mi affaccio a uno sportello e vengo rimandata a quello sull'altro lato, per chi esce. Non è facile da capire il senso di marcia perchè poi tutti i veicoli sono convogliati su un unico pistino che passa accanto alle sbarre, stile casello, che sono bloccate dalle auto dei funzionari lì parcheggiate (perchè c'è la tettoia). Allo sportello giusto, dopo aver fatto a gomitate con un branco di laotiani scesi da un bus e alcune vietnamite furbette con motorini carichi di verdura, riesco a lasciare il mio passaporto. Quanto mi pesa dove fare la prepotente, e impormi in coda, non lo si può capire. Non è nella mia natura e non sono stata educata così. Ma da queste parti, se non lo fai, vedi tutti passarti davanti, e fare i furbi, che pensano di essere più avanti del turista scemo solo perchè hanno già esperienza della situazione. E quindi tocca mettersi a gamba larga e impedire fisicamente a chi arriva dopo di insinuarsi e superare in coda. Che fastidio! Mi viene dato un modulino da compilare a mano, con tutti i miei dati e le informazioni sul viaggio. Il bello è che non ci sono penne per scrivere, e nemmeno negli uffici ne hanno, quando chiedo. Serve un quarto d'ora di attente ricerche per trovare il magico strumento, e permettermi di procedere. Consegno il modulo, e mi viene ridato il passaporto timbrato 4 volte, due sul visto, che è un adesivo grande quanto la pagina, e due accanto ai timbri di ingresso. Non per nulla lavorano qui 4 funzionari, ciascuno con il suo compito specifico e il suo specifico timbro. Chiedo se devo pagare, perchè pare che anche qui ci sia la tea tax, che viene venduta come tassa per utilizzo delle strade. L'agente, quasi sconvolto, mi dice no, no. Ma piantala faccia d'angelo, che chiedi il pizzo a due occidentali su tre e io sono solo più fortunata, anche stavolta!
Sistemata tutta la parte burocratica, a piedi trascino la bici nel fango per qualche centinaio di metri, imbrattandomi in modo vergognoso e rendendo scarpe, calze e piedi un unico monoblocco coperto da 4kg di palta molle. Torno in sella quando ricomincia l'asfalto. La strada sale ancora un poco fino al confine vero e proprio tra i due paesi, segnato da un cippo, dove saluto: CIAOLAO! e da un buffo cancellino pieghevole, che forse viene chiuso di notte, con guardiola vuota e non sorvegliata.
Dopodichè la strada si tuffa giù in picchiata per un paio di kilometri con stretti tornanti, e solo alla fine di questa discesa, a 4km dagli uffici laotiani, si trovano quelli vietnamiti. Mai vista terra di nessuno così ampia! Secondo me i viet si schifano a stare su nel fango, e preferiscono stare più in basso ma all'asciutto. Qui tutto ha un aspetto più... Normale, diciamo. Non c'è nessuno. Mi affaccio alo sportello e mi raggiunge un gentilissimo agente tutto sorrisoni, che parla inglese (ah ma allora esiste ancora qualcuno con cui posso intendermi!) e mi timbra il passaporto in un attimo, dicendo che per gli italiano non serve il visto (guarda, un po' lo so). Ridiamo del mio stato pietoso di mostro del fango e poi mi butta lì una parolina, due frasette... "Mica hai dei kip che vuoi cambiare dong, neh? Perchè me ne occupo io personalmente". La richiesta mi stupisce... In teoria non mi sembra limpidissimo che un poliziotto traffichi con il denaro e faccia da cambiavalute... Ma mi propone un tasso estremamente vantaggioso e allora sai che c'è, acchiappa sti kip. Keep the kips. Ne ho parecchi, e quando li vede gli brillano gli occhi. Corre a prendere una borsina e si mette a far mazzi di banconote. Contiamo due volte sia io sia lui ed ecco fatto, anche questa pratica è risolta. Loscamente, ma risolta.
Dopo un ulteriore controllo da parte di una guardia nel gabbiotto, addetta ad alzare la sbarra e salutare i viandanti, mi fermo presso i due negozietti presenti pochi metri più avanti. Uno ha l'insegna Viettel, e compro una Sim (purtroppo quella usata nel primo mese di viaggio non si può ricaricare, ho provato ma è come fosse usa e getta). Mi prendo anche un tè fresco da bere prima di scendere in valle, e vengo "assalita" da una gattina minuscola e coccolosissima, che mi vien voglia di rapire. La stendo di carezze e mi riposo un poco. Sono di nuovo in Vietnam, incredibile! Ora i prossimi controlli del passaporto saranno in aeroporto, ad Hanoi, Pechino (per lo scalo) e Malpensa.
Riparto e i primi kilometri del Vietnam, come accoglienza festosa, sono in discesa. Intorno ci sono monti carsici dalle forme curiose, aguzze, coperti di vegetazione. La strada è degna di tale nome, anche se a tratti ci sono frane che portano fango e ghiaia.
Il vallone che mi si apre davanti è a dir poco spettacolare. Il vento scompiglia il mais, coltivato sulle pendici ripide, mentre sotto il verde chiarissimo delle risaie risalta su quello cupo della vegetazione abbarbicata alle rocce. Non riesco a prendere velocità perchè tutto è troppo bello e continuo a fermarmi a fare foto.
Per uscire da questo primo vallone ci sono alcune brevi rampe in salita; qui i fianchi dei monti sono scavati per estrarre pietra, e la nuda roccia compare come grattata dall'unghia di un gigante che ne ha fatto briciole.
Da lì si ricomincia a scendere, e intorno c'è pura meraviglia a perdita d'occhio.
In un soffio, eccomi giù in valle. Da qui si procede in piano fino alla meta. Subito ritrovo il Vietnam che ho imparato a conoscere in questo viaggio: belle strade che dividono le risaie come righe di matita, città vivaci, tutte agghindate di bandiere del partito e faccioni dello zio Ho, insegne colorate, persone che fanno cose sotto ai loro non la. Il mondo degli uomini. Che bello!
L'ebbrezza di essere tornata in Paese che, pur con le sue difficoltà, mi fa sentire a mio agio, mi porta a spingere sui pedali nonostante il vento contrario. Eccomi a Dien Bien Phu, finalmente! Sulle colline qui intorno, nel maggio del '54, le truppe francesi furono costrette alla resa, dopo cruenti e ferocissimi combattimenti, dai Viet Minh, i patrioti comunisti che vinsero, con questa battaglia dirimente, la prima guerra d'Indocina. La città era infatti famosa per due cose: il ricchissimo traffico di oppio, e la produzione di riso che serviva ad alimentare i Viet Minh. Nel '53 i francesi presero possesso dell'area per tagliare i rifornimenti ai nemici, i quali risposero, l'anno dopo, con un lungo assedio e una vittoria finale. Fu a seguito del ritiro dei francesi che si giunse al compromesso della creazione di due Vietnam, del Nord e del Sud. Cosa sia successo poi, lo sappiamo. La città non nasconde il suo passato eroico. Oltre a una massiccia presenza di bandiere, striscioni, cartelli commemorativi e addobbi con falci e martelli, ogni collina su cui si è combattuto è stata trasformata in monumento, con pannelli descrittivi e talora biglietto di ingresso. Ci sono i cimiteri militari, i bunker di entrambi gli schieramenti, i campi di battaglia e i resti delle fortificazioni.
Io tiro dritta fino al bellissimo alberghino (altri standard rispetto al Laos, a prezzi anche più contenuti) in centro, prenotato online. Il receptionist mi aiuta a portare le borse, altra cosa che in Laos non si è vista mai, anche se è un po' schifato da quanto siano sporche e grondanti fango, e le tiene larghe e lontane da sè.
Prima di procacciarmi la cena, faccio due passi. Arrivo ai piedi della lunga scalinata che conduce al monumento più celebre della città, una gran statua in stile brutal soviet che rappresenta la vittoria. Il numero di gradini e il pochissimo tempo per salire (sta per chiudere, c'è un ingresso a pagamento) mi fanno desistere, ma apprezzo la piazza sottostante, con un bassorilievo in stile altrettanto brutal soviet che rappresenta le fasi della battaglia.
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all'incrocio umarell con elmetto che gonfia gomme e stringe viti a pagamento |
Dopo aver bighellonato un po' tra ponti artistici e lungofiume, e aver apprezzato la varietà etnica della città (i viet sono neanche metà della popolazione, gli altri sono Tai, Hmong e Si La, e li si riconosce dall'abbigliamento e dai copricapi, mi lascio attirare dal profumo di spezie che esce da un localino. E' una cucina affacciata alla strada che prepara cibo da asporto. Hanno delle vaschette già con riso bollito e salse, che si possono riempire poi con contorni di ogni genere. Sto sul sicuro e vado di coscia di pollo fritta e tofu cucinato in diversi modi. Il resto non so cosa sia, capisco siano carne e verdure ma non è dato sapere di che animale. E qui il rischio di fare scelte etiche riprovevoli è alto. Mi aggiungono anche quello che parè tè verde e invece è un minestrone buonissimo, et voilà, per 1,7 euro la cena è servita. Ed è anche eccellente, oltre al fatto che non provoca alcuna reazione avversa (quando si mangia fuori è sempre una scommessa, ma ormai penso di saper abbastanza distinguere i posti sicuri da quelli un po' meno. Per quanto...).
Così cala la notte sull'eroica e rossissima Dien Bien Phu, e dal balcone apprezzo le luci che si accendono ammiccando al buio. Non c'è rumore in strada, e alle 22 i negozi chiudono. Si sta proprio bene qui in Vietnam, è davvero, pur con tutti i problemi che non nego e vedo anch'io, a misura d'uomo.
23/8
Dien Bien Phu-Tuan Giao
76km
Anche questa notte dormo poco, e pagherò questa condizione tutta la giornata. Al mattino faccio con calma, un po' perchè sono rallentata dalla stanchezza, un po' perchè finora ho rimandato tre importanti questioni, mentalmente impegnative, che è tempo di sbrigare. Innanzitutto devo contattare l'hotel dove ho soggiornato i primissimi giorni, a fine giugno, ad Hanoi, per chiedere se hanno una stanza anche nelle notti del 28 e del 29, perchè arriverò a destinazione con un paio di giorni (benedetti) di anticipo rispetto alle mie previsioni. Devo anche sincerarmi che abbiano ancora i miei scatoloni; avendoli dovuti piegare e ridurre di volume per riuscire ad infilarli in un sacchettone, sembravano proprio una busta di immondizia di cui liberarsi rapidamente, e non certo qualcosa di importante da conservare per due mesi! Devo sapere, però, se ci sono ancora, perchè altrimenti mi tocca contattare via mail o whatsapp qualche (raro) negozio di bici nella capitale, nella speranza che possano procurarmi almeno la box per la bici per i tempi stretti che ho. Manca meno di una settimana al mio rientro ad Hanoi... La terza questione riguarda il tatuaggio. Ho deciso cosa fare, e dove, ma ora devo prendere appuntamento e capire se gli studi che ho selezionato come migliori hanno disponibilità.
Mi attacco al telefono e inizio a occuparmi di queste faccende, e, nel giro di un'ora e mezza, sono tutte risolte con successo. L'hotel ad Hanoi ha conservato gli scatoloni (evviva! Grazione!) ma non ha una stanza per le due notti in più; poco male, prenoto una struttura vicina, poi mi trasferirò da un albergo all'altro. Dei tatuatori che contatto, uno mi risponde subito e iniziamo a metter giù le idee e i design. La cosa proseguirà per l'intera giornata, perchè è un artista scrupoloso e attento e vuole condividere tutte le fasi di creazione del disegno. Posso anticipare che è una figata!
A questo punto posso cominciare la mia giornata in sella. Il receptionist, sempre super gentile, mi aiuta ancora con le borse, e ancora si schifa e le tiene distanti, ma cercando di non farlo capire. Parto e attraverso una Dien Bien Phu già sveglia e attiva, con i bikepackers che vanno in giro a vendere i crackers di riso e i pastori che portano i bufali al pascolo. Tra l'altro vedo tanti bufali non del solito colore scuro, ma chiari, rosati. Non so se siano albini o scottati al sole, come accade agli ippopotami quando non riescono a stare immersi nell'acqua. Che cuori.
Dopo un primo tratto in piano, la strada inizia a salire. Anche oggi ho i miei 1200m di dislivello in forma di rampe e rampette assassine, e i primi assaggi arrivano quasi subito. Qui non è molto diffuso il concetto di tornante, e semplicemente ci si arrampica, con vie diritte e verticali, su cui anche i mezzi pesanti arrancano a fatica. Il bordo strada e gli slarghi alle curve, pensati per soste di emergenza, sono occupati da teli su cui asciugano mais, riso e cereali. Spazio pubblico, del popolo, per le esigenze del popolo!
Non mancano tratti di corsie inagibili per frane. Per fortuna il traffico è ridottissimo e non ci sono difficoltà nel passare. Mi chiedo se siano le tracce lasciate dal tifone Whipha, di cui ho assaggiato i venti e i nubifragi di coda, o se sia così per la natura del luogo.
Oltre agli scorci spettacolari, che si aprono alla vista tra verde e verde, noto la continua presenza di monumenti e cartelli che ricordano luoghi ed eventi cruciali della battaglia di Dien Bien Phu; qui si è combattuto su ogni collina, in ogni valle. Ed è il primo caso in cui un esercito autonomo di una colonia è riuscito a sconfiggere una potenza europea non solo in atti di guerriglia, ma anche in campo aperto. Qui si è scritta la storia del Vietnam, se ne è firmata l'indipendenza, e, giustamente, la si celera con orgoglio.
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sintesi del Vietnam: a una rotonda abbiamo monumento ai Viet Minh, pannelli rossi con falce e martello, bufalo che pascola e mais in mezzo alla strada a seccare. |
Proseguendo, incontro sia qualche villaggio sparso, sia alcuni paesini piccini ma con tutto, dalle case in muratura curate ai negozietti; anche qui è tutto un salutare e sorridere, più composto e meno aggressive che in Laos, e anche da parte degli adulti, non solo dei bambini. Tra un abitato e l'altro, si aprono distese di campi di riso, a volte terrazzati, serviti da sistemi irrigui capillari. Lo spazio nella valle è esiguo, e viene sfruttato ogni metro.
Pioviggina da un po', ma quando inizio a prendere quota, le goccioline rade si trasformano in violente secchiate d'acqua. Questa sarà la mia giornata: 5 ore in sella, a salire, sotto il nubifragio. Anzi, NEL nubifragio, perchè le nuvole sono bassissime, appoggiate ai fianchi dei monti, e più volte tocca passaci nel mezzo, attraversale e infradiciarsi non solo di pioggia, ma anche di umidità gelida e nebulizzata. Per arrivare al passo, siccome in salita si suda e fa comunque caldo, decido di indossare solo un leggero k-way che, nel giro di poco, è zuppo. Altro che mm/h, qui servirebbero tessuti waterproof per litri al minuto! Intorno il panorama scompare, assorbito da un bianco lattiginoso indistinto, in cui si identificano solo le sagome scure degli alberi più vicini. E' un po' inquietante, sa proprio di temporale in montagna.
Quando arrivo a scollinare, sapendo che mi aspetta una lunga discesa a tratti ripida, decido di indossare il vestito della festa, quello da monsone. Tolgo l'antipioggia fradicio e indosso i pantaloni impermeabili, scaldacollo, sottocasco, copricasco e k-way pesante. Conduco la vestizione sotto alla tettoia sottile di una casetta, dove a malapena riesco a stare riparata, e di certo non posso fermarmi a lungo. E' inutile, queste nuvole non passano, si sono sedute qui. Devo passare io. Passarci attraverso. Mentre elaboro questa consapevolezza, noto che mi sto raffreddando... Sensazione che non provo da settimane! Ho sempre avuto solo caldo... E che non sono l'unica ad aver trovato riparo lì. Un sacco di insetti cercano di imbarcarsi sulla bici, tra le borse, che offrono sicuri anfratti. Scaccio ragni e scarafaggi, mentre una specie di scolopendra dalle zampe lunghissime si infila tra le leve del cambio e del freno e verrà con me per decine di kilometri, lasciandomi sempre l'inquietudine di vederla correre sulla mano e nella manica. Brrrrr. Per fortuna ci sono anche creature esteticamente gradevoli, come una farfalla gigantesca, grande il doppio della mia mano, con delle antenne tutte pelose ed elaborate ed un musino simpatico, che combatte per stare aggrappata al muro, nonostante le raffiche di vento. In questi giorni ho rinnovato una contezza sulle farfalle che già lo scorso anno avevo razionalizzato. Anche loro, come le mosche, amano stare dove ci sono cose putrefatte, immondizia e anche escrementi. E' in questo genere di nutrimenti che crescono le larve, lì depongono le uova. Da queste parti quando si vedono tante farfalle non si è in presenza di un giardino fiorito, ma di una discarica o di un letamaio. E anche da adulte, uscite dalla crisalide, continuano a prediligere quegli ambienti. Una bella metafora: per quanto cambi e ti fai bello esteticamente, se sei nato e cresciuto larva immonda qualcosa di sporco ti resta. Non si vede, sotto ai colori belli e alle ali graziose, ma dentro, oh, in fondo all'anima c'è.
In un momento in cui piove con meno violenza, decido di ripartire. La discesa è ripida e la strada scivolosa, ma per fortuna il fondo è ottimo, quindi, a freni tirati, si riesce a procedere in sicurezza. Ogni tanto mi supera un motorino in fuga, e vedo qualche camion salire piano piano sferragliando, con i fari accesi che bucano la foschia delle nuvole in cui tutto è immerso. Sembra di stare nella nebbia di casa, in una sera d'inverno, con l'aggravante che qui, ogni tanto, da qualche capanna che non vedo, sbuca fuori un cane maledetto a inseguirmi. Ma non li mangiavano da queste parti? Non è ora di spiedinare? A tratti, comunque, non si vede davvero nulla. Il nulla è bianco, non nero.
Mi abbasso di quota abbastanza da uscire dallo strado di nubi, e devo dire che il passaggio tra mare di latte gelido e giungla velata di bruma è incredibilmente affascinante. Sembrano luoghi fiabeschi, di avventure esotiche. Forse questa E' un'avventura esotica. Non solo non smette di piovere, ma anzi, aumenta in intensità. Io sono zuppa, mi si può strizzare. Ho anche un freddo intenso addosso. La maglia leggera, sotto al k-way, è fradicia, e idem l'intimo, e con la discesa si sono congelate. Alla prima tettoia, mi appoggio per un'operazione noiosissima ma necessaria: recuperare vestiti più caldi. Ho un completo invernale, sul fondo delle borse. Finora non lo ho mai usato e pensavo di riportarlo a casa intatto, e di aver menato a giro un peso inutile. Ma dopo tanti anni di viaggi in bici qualcosa avrò pur imparato... Se ci sono montagne di mezzo, anche nei climi tropicali, un cambio pesante serve. E infatti il sollievo che provo nel togliermi la t-shirt leggera e bagnata e nell'indossare la blackie felpata di Hop Cycle è indescrivibile. Certo mi entra un po' di pioggia nelle borse, ma ogni cosa è chiusa poi in singoli sacchetti di plastica, quindi poco male. Riparto e il calduccio nel guscio che mi sono creata, sommato alle sensazioni ovattate di quando si è imbacuccati da monsone e si respira anidride carbonica, si sente poco e si vede solo dagli occhi a fessura (altrimenti entra la pioggia) mi portano ad un torpore che diventa quasi narcolessia. Mi si chiudono gli occhi, continuo a quasi-addormentarmi. Pericolosissimo! Anche perchè la bici, in discesa, va, e anche spedita! Cerco di svegliarmi e di evitare i colpi di sonno, che non sono esiziali solo alla guida di auto... Conosco tanti randagi randonneur che son finiti in fiumi e scarpate per questo. Per fortuna la discesa diventa falsopiano e poi un continuo saliscendi che costringe a pedalare. Mi impongo di bere e mangiare qualche caramella a intervalli regolari, operazioni complicate per come sono coperta, ma necessarie. Altrimenti il corpo si spegne e la mente va in stand-by.
I curiosi, quasi fatati picchi carsici che intravedevo in lontananza si fanno ora più vicini e da sfondo diventano protagonisti. Sembrano quadri di leggende cinesi, ambientazioni da poemi sacri leggendari. Peccato essere in una condizione di tale disagio da non riuscire a goderseli appieno, e poter scattare giusto una foto al volo prima che il telefono si bagni e mi saluti definitivamente!
Dopo una quantità esagerata di rampe ripidissime, che ogni volta mi fanno pensare: "Manca poco, sarà l'ultima..." e invece no, ce ne sono altre, intravedo Tuan Giao, la meta di oggi. Sull'ultima salita, così bastarda da costringermi a farla a piedi, e faticare e scivolare anche così, vengo approcciata da un gentile omino in moto che vuole regalarmi uno dei loro ponchos antipioggia, che fa da vestito e copre anche le braccia e il manubrio, essendo pensato per andare in motorino. Il problema è che in bici ci si intruppa e si rischia di cadere... Ringrazio e declino, ma in questa valle di fatiche e fastidi il bel gesto mi scalda il cuore. Al bivio tra la statale che procede esterna al paese e la strada che lo attraversa, mi fermo a controllare la direzione e mi trovo, casualmente, accanto a uno scultore che sta creando Buddha di legno a martellate sapienti. Lo saluto e lui è tutto contento del mio interesse.
Attraverso un paese tutto addobbato di bandiere e manifestoni, con archi fioriti sulla strada e un viavai vivace nonostante il meteo. Qui non ci si ferma: si indossa il k-way e via! Senza pensarci troppo, raggiungo l'albergo grande, quello da sciuri, l'unico edificio a più piani (9) della cittadina. E' un posto di lusso, tutto a marmi bianchi e dragoni, e temo mi rifiutino per le condizioni in cui sono. Invece, pagati i 13 euro che viene la stanza, il receptionist si dimostra gentilissimo, e mi aiuta anche lui a portare le borse, anche lui tenendole larghe larghe lontano dalla sua persona. Lascio una scia di fango e acqua sporca ovunque io passi, e mi dispiace essere una tale lumaca dalla bava lercia... Ma così è, non è colpa di nessuno.
Dopo aver steso tutte le cose fradicie, sperando che, nonostante l'umidità, asciughino, essermi lavata e riposata e un attimo, scendo a fare la spesa per la cena e me ne torno felicemente in camera. Anche questa è fatta! Domani mi attende un passo vero e proprio, e poi, lentamente, anche le montagna andranno digradando al piano.
👋👋👋👋👋
RispondiEliminaciao ...... a presto .......
RispondiEliminaTi regalo le mie scarpe, sono nuove,
RispondiEliminaprendi anche qualche libro, può servire,
saprò alzarmi in volo e vedere dove sei,
ti manderò a dire goodbye,
ti regalo la mia giacca, ti sta bene,
ti lascio una valigia, da riempire,
ti lascio anche il mio numero, perché non si sa mai,
ti lascio una parola goodbye,
goodbye, my friend goodbye, goodbye, goodbye, my friend..
Quanti sogni, viaggi, colori, antichi rancori,
e una fantasia, piena di amori,
e andare contro vento, non è difficile lo sai,
lo è, senza un saluto, casomai...
goodbye, my friend goodbye, goodbye, goodbye, my friend..
Saprò alzarmi in volo e vedere dove sei,
ti manderò a dire goodbye
goodbye, my friend goodbye, goodbye, goodbye. my friend..
Quanti sogni, viaggi, colori, antichi rancori,
e una fantasia, piena di amori,
e andare contro il vento, non è difficile lo sai,
lo è, senza un saluto, casomai...
goodbye, my friend goodbye, goodbye, goodbye, my friend...
goodbye, my friend goodbye, goodbye, goodbye, my friend goodbye