Ho Xa-Hué
115km
Alle 6 sono in piedi, alle 7 in sella; oggi mi aspettano almeno due appuntamenti: il primo con il sito storico di Vinh Moc, il secondo con la città di Hué, dove mi fermerò un giorno per visitare tutto quel che ha da offrire. Ma prima devo sbrigare alcune faccende urgenti, come lavare i vestiti fetidi, che non asciugano mai, a causa dell'umidità, nè dal sudore nè dalle piogge monsoniche, trovare una vite per la sella (sto di nuovo avendo problemi) e una batteria per il contakilometri. Tutte cose piccole, ma che richiedono un minimo di tempo. Inoltre qui i clienti degli hotel, ma pure lo staff, tendono a non avere gran rispetto del silenzio e della tranquillità altrui e al mattino è sempre tutta una gran caciara di urla, musica, risate fragorose e porte che sbattono.
Nonostante l'ora, fa già un caldo devastante. Si preannuncia giornata di pieno sole, di frittura delle cervella. I primi 14 kilometri, che mi portano sulla costa al sito storico, si snodano tra dolci colline coperte di banani e alberi della gomma, tutti con la loro ferita sul tronco da cui piangono la preziosa sostanza, che viene raccolta in piccoli contenitori come ho già visto in Thailandia. I contadini si dirigono in motorino verso i campi, o stanno già tagliando rami e foglie con grosse falci. Tutti sono muniti di caffettone con latte e ghiaccio. Non c'è traffico e pare che la vegetazione debba a momenti, se ci si distrae un attimo, riprendersi la strada.
Dopo aver salutato tutti i bambini dei villaggi, che mi inseguono in motorino per dirmi "Hello!", giungo all'ingresso del sito di Vinh Moc. Lascio la bici presso un parcheggio custodito da signora su amaca (che costerà ben 0,006 euro) e mi munisco di biglietto (1.5 euro). Entro. Quel che non so, è che uscirò un po' diversa, più consapevole del dolore di questo popolo, della sua inossidabile capacità di resistere, e di pagare prezzi altissimi per un ideale di libertà.
In primis si può assistere ad un documentario (bello carico di patriottismo e propaganda, per essere onesti, ma poi la storia parla da sè) che spiga cosa sia successo in questo luogo. Per farla breve: qui correva la cosiddetta "Zona demilitarizzata" (DMZ), ovvero il confine tra i due Vietnam, del nord e del sud. Gli americani erano convinti (a ragione) che i civili dei villaggi qui intorno fornissero supporto ai Viet Cong, in un punto strategico, affacciato sul mare, che permetteva di intercettare navi e aerei statunitensi. Quindi iniziarono a bombardare pesantemente la popolazione. Questa si rifugiò sottoterra, scavando gallerie a 10m di profondità. Allora gli americani usarono bombe che facevano danni fino a 10m di profondità. E quindi gli abitanti scavarono ancora più giù, fino a 30 metri. Così, dal 1966 al 1972, più di 60 famiglie e un discreto numero di soldati vissero qui sotto, in kilometri di gallerie scavate a mano, con strumenti rudimentali in legno, di notte, sotto a strati di foglie di bambù e senza luci, per non essere visti. I tunnel sono alti circa 1.7 metri e larghi un metro o meno. Sono su tre livelli: al primo, stavano le guarnigioni, al secondo i civili, al terzo le provviste, i bagni, le cucine, studiate per non far uscire fumo... Non mancavano anche una sala operatoria per i militari e le partorienti (sì, sono nati parecchi bambini qui sotto), una sala comune per le riunioni, a volte usata come cinema, e nicchie nelle pareti per ciascun nucleo familiare. Per quasi 20 anni la popolazione ha vissuto qui sotto, lavorato, collaborato con i Viet Cong e portato avanti la propria vita vedendo la luce del sole solo qualche minuto ogni tanto. Un formicaio perfettamente organizzato. Quando cadevano le bombe, si cantava tutti insieme, per coprire il rumore e scacciare la paura.
Nel filmato si vedono tante scene di vita quotidiana: ragazze che si spazzolano i capelli, maestre che fanno scuola ai bambini o li fanno giocare, neonati in cesti di vimini, artigiani che creano di tutto con il pochissimo che avevano, ma pure soldati che abbattono aerei statunitensi e medici che amputano arti. E' toccante e mi commuovo. Quale forza può avere gente così, disposta a sacrificare tutto, a vivere in questo modo, senza sapere nemmeno se poi tutto questo dolore avrà un senso? Mi viene in mente quella poesia di Brecht:
La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
c’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
faceva la fame. Fra i vincitori
faceva la fame la povera gente egualmente.
Finito il documentario, inizio a esplorare il sito vero e proprio. I tunnel sono quasi tutti accessibili, anche se spesso poco illuminati o completamente bui. Sono anche molto ripidi e scivolosi per umidità, fango e muschio. L'esperienza è molto immersiva e realistica, e il rischio di perdersi in questo dedalo di cunicoli sempre più claustrofobici c'è. Si vedono chiaramente gli ingressi, i pozzi e i canali di ventilazione, ma pure i crateri lasciati dalle tonnellate di bombe quotidiane.
Nel sito è presente anche un piccolo museo con alcuni oggetti d'epoca e foto che testimoniano come questa gente semplice abbia realizzato davvero un miracolo di sopravvivenza, restando umani, uniti, aiutandosi e non cedendo mai nemmeno di un metro.
Intorno, paradossalmente, la natura è rigogliosa e splendida. "Sono tornati i prati". Della devastazione non è rimasto che il ricordo. Qui per vent'anni ci son stati solo crateri, incendi, desolazione sterile. Ora il bambù e la foresta sono cresciuti di nuovo e il mare davanti, in cui riposano in così tanti morti, non fa cenno alcuno di questo orrore.
Dopo aver percorso in lungo e in largo le gallerie, ed essermi quasi persa, sento di aver bisogno di tornare all'aria aperta. Sotto fa fresco, ma non si respira per l'umidità e il chiuso. Fuori, le temperature sono devastanti. Ancora scossa per questa esperienza, rimonto in sella e seguo la costa su e giù per le colline dove si combattè più ferocemente nei vent'anni di guerra. I villaggi sono fioriti e la foresta placida, ma i tantissimi cimiteri, le lapidi, i cippi e i monumenti commemorativi lo ricordano. Pedalo molto lentamente perchè il vento è teso e contrario. Passo paesini minuscoli di pescatori che vendono il pesce in secchi a bordo strada, o lo fanno essiccare a terra battendolo con dei legni. Alcune cittadine, invece, sono rinate, e hanno qualcosa di simile a un lungomare, bancarelle e strutture per turisti (che però non ci sono). Appena si osserva un poco all'interno, dietro la prima linea di case, si vedono però edifici esplosi, macerie, brandelli di muri crivellati. Tombe, tombe e tombe a perdita d'occhio. Mi colpisce pure che siano sparpagliate qua e là. Ci sono spesso monumenti funerari imponenti, ma buttati apparentemente a caso in mezzo al nulla, e distanti tra loro. Forse qui non c'è una regolamentazione stretta per le sepolture (mica è passato Napoleone a dettar legge!) o forse sono ciò che resta di paesi che non esistono più. Me ne accordo pedalando su sentieri in mezzo alle campagne. Qui abitano solo i defunti.
Un po' più avanti, e per tutta la seconda metà della tappa, mi imbatto in un'altra situazione architettonico-paesaggistica del tutto singolare: ci sono tantissimi templi. Ma decine, centinaia. Per 50km una linea ininterrotta di luoghi sacri, per lo più buddhisti, ma anche confuciani e tao, senza dimenticare qualche chiesa cristiana. Ci sono villaggi, per carità, ma in numero estremamente inferiore rispetto alle pagode. Tra l'altro sono tutte di recentissima costruzione, per lo più dopo il 2000!
Tra una zona abitata e l'altra, campi verdissimi spettinati dal vento a perdita d'occhio.
E poi di nuovo templi!
A un certo punto imbocco un sentiero che corre lungo un fiume, tra eucalipti e piante profumate che non so. Oltre alle sepolture e ad alcuni grandi immondezzai di paese (qui non esiste la raccolta dei rifiuti... Ogni villaggio getta la spazzatura in un grande mucchio. Cosa che magari, fino a che gli scarti erano tutti biodegradabili, andava anche bene... Ora è un bel problema. E come lo risolvono? Bruciando tutto!) qui si aggiungono mandrie di bufali d'acqua e zebù. Anzi, zebulli. Che non cedono strada! Di solito, appollaiati sull'amaca nel fogliame, stanno i pastori. Invisibili, finchè non si segnalano con un saluto o un fischio.
Lascio il sentiero, che è sabbioso e a tratti di sabbia chiara e fine che pare proprio cenere.. Non mi faccio domande, vista la quantità di cimiteri e morti, e torno su una stradella secondaria. Ricominciano gli inspiegabili numerosissimi templi, e, nel mezzo, qualche paesino e tante risaie.
Mancano meno di 30km alla meta, ma devo fermarmi. Non ho più acqua da un po' e la sete mi sta bruciando. Trovo un negozietto e il proprietario, con dei baffetti da topo e la faccia furba, parlante inglese, prima mi chiede di dove io sia, poi mi fa un prezzo tarato sulla provenienza. Ma va bene lo stesso, ho troppa sete per questionare. Mi fermo sotto al portico, seduta a terra accanto a un carretto, e mi godo l'acqua fresca. "Sun chi ma 'n padraba'!" direbbe Gigi. Mi faccio un selfie e mi accorgo che anche in faccia comincio a mostrare i segni dell'abbronzatura a strisce: il casco, i laccetti e gli occhiali hanno lasciato traccia!
Gli ultimi kilometri, controvento, sono abbastanza faticosi. In campagna è tutto un tour di cimiteri, alcuni antichi, mescolati a discariche (d'altronde cari estinti e monnezza son residui di cui disfarsi), in città, invece, il delirio di traffico. Entro a Hué da una delle porte delle mura fortificate, sotto cui sciamano sclacsonando migliaia di motorini, risciò e qualche auto. Le vie son tutte un mercato e ci sono ambulanti, clienti, mucche macellate sui marciapiedi e, insomma, un bordello prepotente che mi costringe a riaccendere il cervello bollito dal caldo.
Peno un poco a trovare l'hotel perchè trattasi di mini-appartamento con self check in sopra ad un garage, in un dedalo di viuzze su cui si aprono localacci sospetti (karaoke, biliardo, alcolici e donnine, grandi insegne tamarre al neon, nuvole di fumo). Giro a lungo alla ricerca di un bottiglia d'acqua (ho di nuovo svuotato le borracce e ho una sete infera) e gli sguardi e i saluti sono un pochino meno cordiali del solito, un po' più urlati, un po' più catcalling. Tuttavia la stanza è grande e mi permette di portare su la Signorina per fale qualche lavoretto di manutenzione. Scambio le viti di portapacchi e sella, gonfio le gomme, serro tutti i bulloni...
Poi, scendendo diretta a una lavanderia a gettoni con un carico di vestiti fetidi, mi imbatto in un ragazzo dello staff che si offre di farmi lui il bucato, con asciugatura inclusa, per ben 2.5 euro (saranno 4kg di roba). Sì! Grazie! Occhio è che da biohazard, neh!
Quindi esco per recuperare una cenetta, e mi imbatto in un grande centro commerciale, il primo che vedo da quando sono qui. Ha qualche negozio, un supermercatino, una libreria e diverse sale giochi molto anni '80, con tanto di pista di pattinaggio interna. E' incredibile la differenza tra qui e i villaggi. Sembrano due mondi distinti, due paesi, due realtà parallele.
Torno in camera, rifaccio la doccia e ceno ammirando le fifty shades of fox, il panorama fuori dalla finestra, e il casino dei locali sotto. Dopo attente letture, volendo sfruttare al massimo il mio tempo qui a Hué, di cui parleremo bene domani, decido di contattare una guida e di inserirmi in un tour perchè i siti di interesse sono molto sparpagliati in un raggio di 15km circa dal centro, dove mi trovo. Siccome costa 12 euro per l'intera giornata, compreso il pranzo, mi concedo questo lusso da turista. E poi voglio godermi la giornata di riposo, che sarà intensa per le scarpinate al sole, ma leggera per la mente e anche per le mie chiappe. Ho pedalato già oltre 800km tutti di fila e fatico a star seduta senza fondello. Necessito di piccola pausa. E quale posto migliore, se non questa bella stanza, con tanto di proiettore a parete e stelle e galassie da colori cangianti sul soffitto?
8/7
Hué
giorno di sosta (ma quanto s'è camminato?)
Ieri sera ho preparato le prossime tappe, per una settimana, così da aver idea piuttosto chiara di kilometraggi e tempi. A casa mi ero limitata a un da X a Y 550km da dividere in 5 giorni. Sono molto soddisfatta del risultato: riuscirò a vedere tutto quel che mi interessa, raggiungendo piacevoli città costiere molto interessanti per storia, cultura, folklore e natura. E sono riuscita anche a mantenere un kilometraggio giornaliero umano, leggermente inferiore a quello sostenuto finora (un po' faticoso, per le lunghe).
Ma ora dedichiamoci a Hué. Alle 7.45 sono in strada, tra le prime bancarelle di street food che aprono per la colazione, in attesa della guida che mi passi a prendere.
Hué deve la sua importanza alla scelta di farne la capitale da parte degli imperatori della dinastia Nguyen, l'ultima delle 11 che per circa 1000 anni governarono sul Vietnam, una volta resosi indipendente dal dominio cinese. Ovviamente un abitato esisteva già, ma il floruit di Hué si colloca tra il 1802 e il 1945, ovvero da quando il primo imperatore della casata, Gia Long, scelse di trasferire qui la corte dopo aver consultato gli esperti di geomanzia (tecnica divinatoria che legge i buoni auspici negli elementi naturali del paesaggio); infatti qui scorre un fiume a forma di serpente, il Fiume dei Profumi, e le 5 montagne circostanti (simbolo dei 5 elenti) paiono leoni a guardia degli accessi alla cittadella imperiale, anch'essa costruita in linea con le vette e le anse dello Huong.
Nel 1963 la città fu al centro dei moti e delle repressioni della Crisi buddista del Vietnam, quando il governo del Vietnam del Sud usò gravi violenze contro monaci e civili, motivo per cui Kennedy, già impegnato in guerra, sospese gli aiuti al presidente e si ingenerò così un colpo di Stato con tanto di assassinio del primo ministro sud-vietnamita.
Ovviamente entrambe le Guerre di Indocina interessarono l'area, e nel '68, durante le operazioni dell'Offensiva del Tet, i Viet Cong occuparono la cittadella e massacrarono 3000 persone. Fu occupata definitivamente dal Fronte di Liberazione solo nel 1975, e, dopo un periodo di crisi e devastazione, ricostruita a partire dagli edifici storici, fino a diventare la città moderna e vivace che è oggi, con oltre 1.200.000 abitanti.
La visita della città non può che partire proprio dalla cittadella imperiale, patrimonio UNESCO racchiuso tra mura e fossati. Il progetto fu del primo imperatore, ma solo il successore, Minh Mang (noto per avere 500 concubine, giacere con 5 di loro ogni notte, e aver inventato una "medicina" per poterle soddisfare tutte), la portò a termine.
Il complesso, cuore della capitale vietnamita, è enorme: ha 4 ingressi, di cui uno riservato alle donne della famiglia imperiale (alle altre era proibito varcare le mura, pena la morte), aree dedicate ai templi, al culto degli antenati, giardini, laghi e canali navigabili, i palazzi per la madre e la moglie dell'imperatore, quelli per l'harem e gli eunuchi, gli uffici per i funzionari mandarini... La parte più inaccessibile e misteriosa era la Città Purpurea Proibita, dove solo l'imperatore e i suoi più stretti collaboratori potevano entrare. Alcune zone sono state restaurate, altre no: le guerre hanno procurato danni ingenti e ancora se ne possono vedere i segni.
La visita, grazie alla guida (che mi ha subito detto che sembro molto forte, ed era stupita viaggiassi da sola... Quando le ho spiegato il mio viaggio, è rimasta estasiata), permette di approfondire alcuni aspetti della vita di corte della dinastia Nguyen. Ne cito alcuni in ordine sparso, per come mi tornano alla mente: dall'arrivo dei francesi in poi, i sovrani divennero delle marionette nelle loro mani e lasciarono che il Vietnam diventasse colonia e venisse sfruttato, in cambio di ricchezza, potere, prestigio e bei viaggi a Parigi. La popolazione, per questo, li detestava, e nel 1945, il tredicesimo imperatore fu costretto ad abdicare e morì in Francia; imperdonabile che i francesi non avessero aiutato il Vietnam occupato dai giapponesi durante la Seconda Guerra mondiale. Certo avevano altre beghe a cui pensare... Molti sovrani vissero poco e regnarono pochissimo, di due di loro non ci sono nemmeno foto o ritratti perchè son gabbati prima. Uno fu fatto fuori dalla sua famiglia, lasciato morire di sete e di fame, perchè alcolizzato. Spesso venivano incoronati bambini, perchè più manovrabili (dai francesi e dai mandarini). Avevano centinaia di concubine ma a volte nessun erede, per infertilità. Gli unici ammessi nell'harem erano gli eunuchi; se un ragazzo si offriva volontario per l'operazione, spesso letale perchè fatta a mano sterilizzando solo con olio di peperoncino, la sua famiglia e il suo villaggio ottenevano riso, abiti e dignità imperiale. Molti bambini furono perciò costretti a intraprendere questa carriera. Quando il sovrano moriva, le sue donne potevano farsi monache oppure ritirarsi a vivere nei palazzi intorno alla sua tomba, ma non venivano uccise come in Cina. In ogni caso non potevano risposarsi.
Della visita mi colpiscono due cose: la prima è la quantità di vietnamiti in abiti tradizionali che si reca qui per farsi foto fighe da social. I costumi si possono noleggiare anche in loco, come pure i fotografi professionisti. Altrimenti, ci sono i fidanzati e i mariti, che inseguono le signore con borse piene di oggetti di scena (ombrellini, fiori, veli, cappelli, ventagli) da usare o meno negli scatti. I vestiti devono essere ben caldi, perchè si intuisce la sofferenza nell'indossarli. Le scarpe sono sandali in legno che, sul cotto, fan rumore di zoccoli di cavallo.
Altra cosa che mi stupisce è la sostanziale "umiltà" della dimora imperiale. Se si escludono le porte e alcune facciate, molto decorate (ma con materiali di poco valore), gli interni sono spogli, essenziali, e anche l'arredo è semplice e tutt'altro che sfarzoso o di lusso. C'è un abisso tra questo e le regge cui siamo abituati in Europa. Questa cittadella imperiale, se si escludono le dimensioni, pare la residenza estiva di un nostro nobilastro. Ma immagino sia tutto in proporzione. Se la gente viveva nel fango sotto alle frasche, questi palazzi dovevano apparire come Versailles.
Ora vi presento questi due giovanotti: 16 e 19 anni, fratelli, italo-spagnoli nati in Lussemburgo e cresciuti in Germania, ora studenti a Londra. Uno fa ancora le superiori, e vuole fare medicina. L'altro ha iniziato ingegneria aerospaziale, e tra due settimane farà la sua primissima esperienza lavorativa. I nonni materni sono italiani, di Roma, e vanno in vacanza a Porto Recanati. Parlano bene italiano, tedesco, francese, inglese e spagnolo. Stanno studiando giapponese. Viaggiano da soli e si stanno godendo un'estate fighissima. Mi raccontano di tutte le esperienze fatte finora, un po' culturali e seriose, un po' da ragazzini quali, in fondo sono: coconut boat, fare e dipingere vasi, forgiare il proprio anello, imparare a cucinare piatti tipici di qui, visitare parchi acquatici abbandonati... Insomma, sono proprio dei grandi! Mi fa poi ridere che, quando capiscono che un minimo ho studiato qualcosa della storia qui del Vietnam, sapendo che sono una prof., mi eleggono a guida, mi fanno mille domande, si fanno raccontare le storie (che io ho giusto letto ieri sera tra Lonely Planet e Wikipedia, eh!). Mi raccontano di come sia stato toccante per loro vedere le foto della Guerra del Vietnam, che non sapevano fosse stata così feroce, e insomma, passiamo una bella giornata insieme ad esplorare Hué.
La foto che vedete è stata scattata in un negozio di produzione artigianale di dolci tipici, fatti con arachidi o sesamo e miele. Assomigliano molto al nostro croccante e sono eccezionali, soprattutto se accompagnati con una bella tazza di tè verde freddo.
Dopo questa sosta graditissima, visitiamo la dimora storica di un funzionario imperiale (un mandarino). E' Ottocentesca, contemporanea alla presenza della corte qui a Hué. Anche in questo caso stupisce la semplicità. la mancanza di sfarzo e lusso, pur trattandosi della casa di un uomo di grande prestigio. Lo si evince più che altro dall'armonia delle forme, dalle proporzioni aggraziate e dalla presenza di un grande e curatissimo giardino con bonsai, fiori e vasche piene di pesci.
La dimora si trova affacciata al Fiume dei profumi, la spina dorsale della città. Pare si chiami così perchè in autunno ci cadono dentro i fiori degli alberi che crescono sulle sponde, o per le acque aromatizzate alle erbe che gli abitanti rovesciano nel fiume in occasione di alcune festività. Fatto sta che di mattina le acqua sono verdi-azzurre, nel pomeriggio gialle e la sera violacee, e già solo questo sa di magia. Sia la cittadella sia le tombe reali sono accessibili in barca, come pure le due isole che proteggono il centro dagli spiriti maligni: l'Isola delle vongole (nome che dice tutto) e Isola delle tigri (dove la corte si dilettava nell'assistere ai combattimenti tra tigri ed elefanti).
Qui sorge anche la Pagoda di Thien Mu, Tempio della Signora Celeste, fatta costruire nel 1600 da un nobile della famiglia Nguyen, prima che diventassero imperatori, quando erano ancora solo signori feudali. Pare che, mentre si aggirava per le sue terre, gli sia apparsa una vecchia signora celeste che gli disse di costruire un tempio buddhista per la prosperità del suo popolo. Un'altra leggenda narra che invece, il signorotto, non sapesse cosa regalare alla madre et voilà, pagoda! Intorno ci sono diversi templi minori, con immagini di spiriti... Con barba, baffi, capelli e sopracciglia in pelo vero! Di cosa? Forse non voglio saperlo.
Viene l'ora del pranzo e ci godiamo una serie incredibile di manicaretti preparati in loco, direttamente su una delle tante dragon boat che solcano il fiume. Hué, per la presenza della corte, divenne famosa per la sua cucina raffinata, con perfetta armonia di sapori, colori e forme nel piatto. Ho capito che i bun sono spaghetti di riso freddi da condire con zuppe, carni macinate e caramellate, spezie ed erbe. Il banh invece è una torta salata, o raviolo gommoso di tapioca ripieno, e possono essere dolci o salati. Noi ci troviamo anche riso da condire con verdure, carne e pesce, involtini primavera fritti, zuppe di gamberi e zucchine, o tofu, e longan, lychees e altra frutta di cui non conosco il nome. Insomma, si mangia tanto, e bene. I local seduti accanto a me si impietosiscono nel vedermi impacciata con le bacchette e, girando le loro al contrario, mi riempiono la scodellina di tutti i bocconcini prelibati, e poi quasi mi imboccano, bonariamente, come si farebbe con un bambino che sta imparando. Infatti qui si usa mettere al centro del tavolo un grande vassoio con diversi piatti, e ognuno pesca un po' di cibo con le bacchette e se lo mette nella ciotolina da cui mangia. E loro con le bacchette sarebbero capaci di costruire un castello di carte e chicchi di riso! Certo i cibi piccanti e poi la digestione rendono difficile proseguire la visita ai monumenti, visto che ci sono quasi 40 gradi e un tasso di umidità che mette alla prova persino gli indiani (che notoriamente non vengono da un paese fresco e ventilato).
Prima di raggiungere le Tombe degli imperatori, facciamo una sosta nei cosiddetti villaggi dell'incenso, dove gli artigiani sono intenti a "rollare" le bacchette aromatizzate, che, qui, hanno anche valore sacro: il fumo porta in alto le preghiere e rappresenta un legame con i defunti, la cui anima si aggira presso altari e sepolture. Ci sono anche i costruttori di cappelli tradizionali, i non la, che mostrano come nasca questo copricapo così diffuso. E' un modo per invogliare a comprare, ovviamente, ma discreto e comunque molto interessante.
Le ultime tappe di questo tour sono due tombe di imperatori. Qui ce ne sono 12, tutte tranne quella dell'ultimo, morto in Francia. Sono sparse sulle colline, e rispecchiano la personalità del defunto che ospitano. La prima è la Tomba di Tu Duc, una vera e propria città nella quale l'imperatore si ritirò, ancora vivo, per dedicarsi alla poesia e alla filosofia. Il suo sarcofago è venerato ancora oggi (in quanto i sovrani sono seguaci del Buddha).
La seconda, di Khai Dinh, l'ultimo imperatore nato e morto qui, è intrisa di elementi gotici francesi, fatta disegnare da un architetto francese con materiali di importazione; è in linea con l'accettazione dimostrata dal sovrano del potere coloniale.
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draghi occhiuti e nasoni |
Dopo aver salutato i guerrieri e i funzionari di pietra lasciati a guardia della dimora eterna dell'anima dell'imperatore, è tempo di tornare in albergo. Sono così provata dalla camminata sotto al sole che, appena in stanza, piombo in un sonno di melassa nera proprio mentre sto tracciando la strada di domani. Mi attendono 103km e un piccolo ma molto scenografico passo a picco sul mare, Hai Van, sulla laguna paradisiaca di Hon Chao. La meta è Danang, la città più grande e moderna del Vietnam Centrale. Dopodomani, invece, tappa brevis: solo 30km per raggiungere Hoi An di buon'ora e visitarla con calma.
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9/7
Hué-Danang
106km
La tappa di oggi non è lunga, ma è quella con più dislivello fino ad ora. Per questo decido di partire comunque di buon'ora, non sapendo esattamente di quale entità sia la fatica richiesta per arrampicarsi sulle colline che mi attendono oggi. Quando esco c'è il sole e fa già un caldo devastante, ma poi si annuvola e, per metà giornata, pioverà a gocce rade e grosse.
Uscire da Hué non presenta particolari difficoltà, se non il solito casino di motorini, risciò e bancarelle. Lo stradone diventa poi una piacevole via che attraversa una striscia di campagna stretta stretta tra la costa e i monti. Si susseguono paesini di contadini, pastori e pescatori, a seconda di dove si collocano rispetto a uno o l'altro elemento naturale. Di certo, ovunque le idee sono molto chiare e manifeste. Qua e là ci sono templi, cimiteri di guerra e monumenti ai caduti, ma con minor frequenza rispetto ai giorni scorsi.
Da rubar lo sguardo sono i numerosi laghi, le lagune e i fiumi che fissano con i loro occhi spalancati di cielo le nuvole. Le alture vi si riflettono e sembrano compiaciute della loro mole scura di vegetazione.
Ogni tanto tocca scavalcarne qualcuna, arrampicandosi sulla sua gobba dolce. Ci sono infatti le gallerie, ma sono tutte vietate alle bici. I cartelli parlano chiaro. Ad essere onesti, confesso: una l'ho percorsa, per evitare un pochino di dislivello. L'unica il cui ingresso era custodito da una guardia molto distratta. Luci accese, bene in parte, un'avemaria ed era lunga solo 500m. Per il resto, invece, salitelle e discesine con alcuni scorci interessanti.
Prima del passo, si apre un altro tratto in piano. Qui, sulla strada, si affacciano numerosi negozi che vendono qualcosa, che non ho ancora capito cosa sia! Un infuso? Un distillato? E' un liquido verdognolo-giallastro, dal profumo intenso di erbe aromatiche, che sobbolle in bidoni arrugginiti e viene poi imbottigliato in contenitori simili a quelli di profumi (più spesso in semplici bottiglie di plastica riutilizzate).
Supero la vasta distesa argentea della laguna Cau Hai, con le sue palafitte tradizionali e gli allevamenti di gamberetti e molluschi, e un tentativo di lungomare con palchetti e installazioni per foto, rovinato da ruggine e immondizia. Regna un fascino decadente e romantico, da atrabile sospirosa. Mi fermo un momento a guardare i monti incoronati di nuvole, si sente il vociare dei pescatori, lontano. Piove, ma fa caldissimo e anche le gocce sono tiepide. Anche questo è il Vietnam, baby.
Dopo questo momento di immersione e fusione quasi dannunziana con la pioggia e la laguna e i suoi riflessi di cielo grigiolatte, mi rimetto in sella e attacco la salita, l'ascesa al passo Hai Van. Il "Colle delle nuvole". Qui le montagne allungano le dita fino al mare, e non c'è modo di passare via terra se non scalando il colle. O meglio, dal 2005 c'è un tunnel che lo buca in pancia. Ma storicamente ha sempre rappresentato un muro difensivo naturale, insormontabile per eventuali invasori. Infatti fin dai tempi della dominazione cinese sul Vietnam è stato fortificato. Segnava il confine tra i regni Champa e Dai Viet e, durante la prima Guerra di Indocina assunse il nome di "strada senza gioia" perchè collegava Hué e Danang, due tra le città più devastate dai combattimenti. Inizio a salire. Piove. Ma da così caldo e l'aria è talmente umida che la pelle brucia e fatico a respirare. Sono 10km di salita con una pendenza media che va dall'8 all'11%. Piano piano, col rampichino...
Il mare appare ad ogni tornante sempre più lontano e pallido, mentre la vegetazione si fa più fitta. Sciami di motociclisti salgono e scendono, facendomi cenni di rispettoso saluto e acclamazioni. Nessun ciclista in vista. Passa anche qualche jeep con a bordo turisti convinti di star facendo qualcosa di estremamente avventuroso. Io procedo lentamente, pedalata dopo pedalata. Non arrivo mai neanche ad avere il fiato corto. Tuttavia ogni tanto devo fermarmi perchè mi tremano le braccia e scivolano le mani sul manubrio, nonostante i guanti: fa troppo caldo.
Con qualche metro di anticipo sui calcoli, eccomi in cima. Ci sono decine di bancarelle e baracchini, e una discreta confusione tra motociclisti e visitatori. Molti mi fanno cenni di reverenza e rispetto, a quanto pare non è usuale vedere gente che sale senza motore fino a qui. Un ragazzo alza la visiera del casco e mi dice: "Steel woman! Going down is easier". Faccio qualche foto, mentre mi godo l'aria quasi fresca che tira quassù, e salgo qualche gradino per vedere i bunker francesi sforacchiati dai proiettili e i resti di un'antica porta e parti di fortificazioni.
E poi giù in un volo, intravedendo baie e isolette che rendono questo tratto di costa un paradiso per gli amanti del mare. Intanto è uscito il sole, che mi permette di ammirare la costa di Danang, ormai difronte a me, in tutto il suo splendore di acque chiare e nuvole tropicali.
L'ingresso vero e proprio in città è abbastanza complicato, o, per meglio dire, da infarto immediato. Danang è la città più grande del Vietnam centrale, e la quinta del Paese. Supera abbondantemente il milione e mezzo di abitanti ed è un centro industriale in prima linea nell'economia nazionale. Ci sono fabbriche, un porto commerciale enorme, ferrovia, autostrada, aeroporto... Io devo passare tutto questo, fino in centro, dove mi attende la mia bella camera di ostello. Oltre alla quantità spropositata di motorini e mercati, Danang è anche funestata da continui cantieri con strade sventrate e spazi ridotti al minimo anche sulle arterie più impestate di traffico. Sicchè vige la più totale anarchia, in una luce accecante e densa di polvere e continue poderose sclacsonate. Per fortuna giungo sana e salva a destinazione, a breve distanza dal ponte del drago, che vedrò domani.
Mentre lego la bici e cerco di arrivare all'agognata doccia (sono impanata di sudore, pioggia, crema solare, fango, sabbia e smog) incappo in Sergej. Ebbene, l'ennesimo Sergej. Professore di fisica che vanta di aver insegnato nella grandiosa URSS per vent'anni, poi trasferitosi in... Donbass. Ora di nuovo in via di trasferimento, chissà perchè, in Corea del Sud. E' qui un mese ad attendere i documenti. Parla russkinglish, ha voglia di raccontarsi. Spiega che la Russia è una dittatura, Putin un pazzo criminale. Suo fratello ha rischiato di morire in guerra. Sua madre è anziana e malata, ma ormai la sanità è collassata e bisogna pagare tutto per servizi privati. Gli dico che anche in Italia è così. Poi si lancia in un'invettiva contro i politici russi, europei, che han fatto la bella faccia con Putin, fa arditi parallelismi con la situazione precedente la Seconda Guerra mondiale. Mi prende in giro quando gli spiego che insegno italiano, storia e geografia: guarda la bici e mi dice "Tu sei una di Greenpeace, ti piacciono i panda e i fenicotteri e la natura". Be', oddio... Poi riparte con il siluro micidiale sulla situazione (effettivamente tragica) della geopolitica internazionale. Quando si infervora, passa al russo e io capisco una parola ogni cinque. A una certa si rende conto che sto collassando davanti a lui e si scusa. Mi aiuta a portare le borse in camera e mi dice "Take your time, see you later". Sembra una minaccia!
Domani ho tappa breve, solo 30km. Così posso uscire con calma da Danang e poi visitare Hoi An, il cui centro storico è patrimonio Unesco. Già punto cruciale dei contatti (spesso poco amichevoli) tra gli antichi regni Champa e Dai Viet, fu uno dei porti più sfruttati dai mercanti portoghesi e americani dal Cinquecento all'Ottocento. Nel 1835 l'imperatore vietnamita impedì agli occidentali di attraccare nei porti del Paese... Ad eccezione di quello di Danang, che crebbe e divenne poi il punto di partenza per la conquista coloniale francese (le prime cannonate partirono proprio qui). Sotto il regno di Napoleone III, proprio a partire da Danang, il dominio francese si estese, con la connivenza della dinastia regnante. Durante la Guerra del Vietnam, poi, questa fu base statunitense, liberata senza sparare un colpo nel 1975, dopo che i Viet Cong avevano stabilito delle basi strategiche nelle Montagne di Marmo qui intorno.
Insomma, in questa città apparentemente tutta fabbriche e spiagge, ristoranti e mercati, ne son successe di cose, nel corso degli ultimi 3000 anni!
Affascinante come sempre
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