Nghi Son-Hong Linh
121km
Questa mattina me la prendo comoda. Non mi alzo tardi, non riesco a dormire più di 5 ore a notte, ma non mi sento assonnata, anzi! Però mi sto riappropriando del tempo, ora che l'adrenalina dei primi giorni sta cedendo il passo alla calma lenta che serve ad andar lontano. Far not fast è il motto dei cicloviaggiatori, e per me vale non solo in sella, ma in tutto. Quando viaggio non voglio avere fretta. Vivo in ritardo, di corsa, sempre fuori tempo per 10 mesi l'anno, in questi due voglio che il tempo sia MIO. Mi muovo tra l'alba e il tramonto. Fine. Guardo l'orologio solo per non disturbare a casa in orari inopportuni, considerato il fuso di 5 ore. Sto anche dimenticando che giorno della settimana sia, mera convenzione per dividere i giorni lavorativi da quelli di riposo, e ricordo il numero perchè lo scrivo qui. Che meraviglia perdere la cognizione, e tornare al concetto primo di tempo, ovvero la misura del movimento!
Dopo aver fatto colazione in camera (ho financo usato la teiera, con una bustina raccattata in qualche hotel i giorni scorsi), mi vesto e preparo le borse. Devo già cambiare i vestiti da bici, dopo "soli" tre giorni (in viaggio è poco!) perchè quel continuo bagnarsi di acque fetide e non asciugare mai del tutto li fanno puzzare di carogna putrefatta, e già in Asia hanno i pregiudizi sugli occidentali sporchi e puzzoni... Se poi mi presento così è la fine. Indosso quindi la maglia con la volpe che mi ha regalato Franco Limido a nome di Hop Cycle, con la collaborazione di Slopline che la produce. Ton sur ton, volpe al quadrato.
Scendo, rimetto tutto sulla bici, saluto il giardiniere tuttofare che mi chiede dello cose in vietnamita, e io gli do risposte randomiche, immaginando che voglia sapere dove vada, e via che si va davvero.
Non ho prenotato alberghi per stasera. A 100km da qui c'è Vinh, piena di strutture, oppure posso, se mi va, proseguire oltre verso sud. So per certo che dopo una cinquantina di kilometri dovrei affacciarmi al mare, che è il Mar cinese meridionale, mica pizza e fichi.
I primi kilometri scorrono svelti su strade tranquille tra i campi. I pastori stanno uscendo con greggi di capre nere e mandrie di zebù, mentre i contadini stanno parcheggiando le bici a bordo risaia. Qualcuno è già in acqua. Davanti ai negozi e ai ristorantini che servono la colazione, i proprietari servono i clienti sbadigliando, o pisolano su amache e sedioline sull'uscio. Insomma, la giornata è iniziata per tutti.
Anche se la strada resta sostanzialmente sempre in piano, tutt'intorno si levano colline dal profilo frastagliato, ora tonde ora aguzze, ora di nuda roccia, ora verdissime. Sembrano denti di un mostro preistorico rimasto incastrano con questa terra tra le fauci.
Tra un paesino e un bananeto, lascio la strada per addentrarmi tra villaggi sparsi in una vasta area rurale. Le strade sono di terra battuta o lastricate. Incappo in minuscoli mercati, dove le signore accosciate a terra espongono i prodotti in cesti piatti di foglie intrecciate, sotto a tettoie improvvisate con teli e bastoni. Ci sono bimbi che corrono in giro, in bici, in ciabatte, a piedi nudi, e giocano con le galline o assistono i genitori al lavoro. C'è chi ripara motori, chi stende il fieno in mezzo alla strada, per farlo asciugare, chi fa lo stesso con il riso (i mezzi ci passano sopra, forse è fatto apposta per separare i chicchi... Come le cornacchie che buttano le noci in mezzo alla strada per farle aprire dalle auto che passano), chi porta merce su vecchi furgoni sferraglianti e chi va al lavoro in motorino. Inutile dire che la mia presenza attira grandi attenzioni: i bimbi si agitano tantissimo e mi inseguono gridando sguaiatamente degli Hellooooooo lunghissimi, accompagnati dalla manina frenetica che saluta; gli adolescenti mi affiancano in motorino, magari con su tre o quattro bimbi che tanto son piccoli e ci stanno, e se la ridono tra un "Hello" e un "Okeyokey". Gli adulti mi salutano nei modi più buffi, a volte urlando proprio perchè io mi fermi: spesso si ricade su un Hellowlowlow che mi fa riderissimo, anche perchè viene da ometti tondi, in canottiera tirata su con la panza in vista, braghetti e ciabatte. Con un ragazzo che parla un po' inglese scambio qualche parola in più. Mi chiede quanto io stia via, se abbia fatto altri viaggi... Quando gli spiego, mi dice: "Allora spendi un sacco di soldi per stare via!". Quindi cerco di fargli capire che venire da queste parti per noi è molto economico, perchè il costo della vita è nettamente inferiore e quindi i nostri stipendi, che sono (circa) proporzionati... Vedo che sta elaborando il concetto, e la consapevolezza di esser nato in questo "qui" gli fa salire una piccola smorfia. Entrambi sappiamo che io e lui, uguali nella dignità e nell'impegno profuso per guadagnare onestamente, entrambi umani con il desiderio atavico di viaggiare, non siamo nelle stesse condizioni materiali. Io posso venire qui e dormire ogni sera in albergo, spendendo meno di quel che pagherei in bollette a casa. Lui no, non può venire in Europa a godersi il Vecchio Continente. Non con la stessa leggerezza. "Buona vita" taglia corto. "Anche a te, buon tutto".
Di questi paesini isolati mi stupiscono due cose: la pulizia e il decoro, nell'umiltà più semplice, e la presenza di chiese cristiane. Ce ne sono tante quanti sono i templi buddhisti o confuciani, se non di più. Alcune sembrano anche di recente costruzione. I missionari e i francesi han fatto il loro, da queste parti.
E poi ogni villaggio ha il suo monumentale o meno arco di ingresso!
Giungo a un certo punto a un fiume dei molti attraversati, ma qui sì, si sente odor di mare. Di salmastro, di pesce, di porto. Sui moli ci sono teli su cui gamberetti e molluschi sono stessi a essiccare. Ai crocicchi le signore non vendono frutta e verdura, ma granchi e conchiglie. Siamo quasi alla costa.
E infatti poco oltre ecco la strada che corre lungo il litorale. E' una sorta di lungomare chiuso alle auto, in cemento. Tuttavia, il mare si vede solo di rado: infatti da entrambi i lati cresce una vegetazione fitta fitta che chiude lo sguardo. Ma ogni tanto eccolo là, grigio e bianco color del cielo, liquido quasi del mare, a momenti indistinguibile sulla linea dell'orizzonte. Qui tutto è acqua, dolce e salata, dalla terra e dal cielo. Tutto è fradicio, imbevuto, fertile, pieno di vita.
Davanti a me si vede chiaramente un temporale potentissimo, un muro di nubi nere e una cortina spessa di pioggia. Trovo pozze fresche a terra, e chi arriva in direzione opposta alla mia è zuppo madido. Ma. Questa volta sono fortunata e lascio che questo grumo di maltempo mi preceda, senza nessuna intenzione di raggiungerlo e fami trovare. Funziona! Oggi riesco a non infradiciarmi.
A volte la strada lambisce il mare, altre si infila un poco nell'entroterra, come un ago che cuce punti dentro e fuori per unire due tessuti, quello color argento cupo e quello verde verdissimo. Così ho modo di lasciar correre lo sguardo anche sui panorami della campagna intorno, dove sono coltivate piante che non conosco, oltre a riso e mais, e ci sono allevamenti di gamberetti (credo) con ampie vasche e di pollame, in capannoni enormi adibiti a gabbie.
In giro non c'è anima viva! Noto che nessuna spiaggia, in questo tratto, è attrezzata per la balneazione. Ci sono diversi imbarcaderi improvvisati, con piccole barchine di lamiera dal fondo piatto a dormire sulla battigia, e tanti indaffarati a setacciare il bagnasciuga con lunghe pertiche, alla ricerca di qualche bestia commestibile. In alcuni punti si intravede anche la volontà di costruire una sorta di vero lungomare, ma non c'è nulla più che un parapetto e un marciapiede. E parecchia immondizia radunata in mucchi, che fa intuire che qualche volta qui ci siano mercati, bancarelle o feste.
Incappo anche in una piccola mandria di zebù che sta scendendo in spiaggia. Sembra una combriccola di anziane signore che han deciso di passare un weekend tra amiche, al mare, ad Alassio, come ai vecchi tempi.
A meno di 20km da Vinh, dopo aver incontrato many big Jesuses e il loro scultore entusiasta del mio far foto, mi fermo per riempire le borracce. Il temporale ormai si è allontano e la brezza fresca si è trasformata in caldazza umida stagnante mortale. Decido anche che, siccome è presto e non sono stanca, andrò a vedere l'antica cittadella di Vinh, senza per fermarmi in città a dormire. Voglio proseguire, per alleggerire un po' le altre tappe.
Vinh, col suo quasi milione di abitanti, si rivela meno caotica e incasinata di tante cittadine più piccole. Sarà che passo in strade secondarie tra quartieri residenziali, ora più umili e periferici, ora più nuovi e da benestanti, con i pub all'occidentale e i localini... Ma arrivare al centro è impresa semplice. Questa città è da sempre un centro economico e culturale importante del Vietnam centro settentrionale, oltre a trovarsi anche sull'asse est-ovest che collega il paese a Myanmar, Thailandia e Laos; infatti la rete dei trasporti è estremamente sviluppata, tra autostrada, ferrovia, porto e aeroporto. Questa città ha cambiato numerosi nomi, fino a quello attuale, più semplice, probabilmente per comodità dei francesi che, altrimenti, facevano casini di pronuncia (proprio loro!). Questa città era considerata la porta di accesso al sud e, alla fine del Settecento, un imperatore pensò addirittura di trasformarla in nuova capitale; ciò non accadde, ma comunque furono fatti cospicui investimenti, poi portati avanti dai francesi, per infrastrutture e fabbriche, tanto da diventare un centro industriale di prim'ordine. Nel XIX secolo la città e le aree circostanti furono teatro di attività di ribellione e rivoluzionarie. Oltre alle continue rivolte contro i francesi, qui nacquero molti esponenti del nazionalismo vietnamita e leader del Partito comunista, oltre a poeti e professori ben schierati. E poi lo Zio Ho. Anche lui è di qui, come testimonia l'enorme statua nella piazza a lui dedicata. Per questo Vinh è stata praticamente rasa al suolo sia nella prima Guerra di Indocina, dai francesi, sia poi nella Guerra del Vietnam, dagli statunitensi. E' stata ricostruita poi guardando all'architettura sovietica e della Germania Est (note per eleganza e leggerezza, con dei bei parallelepipedi di cemento nudo), e, negli ultimi anni, sono sorti alcuni moderni grattacieli che svettano con le loro luci urlate.
Di antico son rimaste alcune parti della cittadella del XV secolo, una struttura difensiva a forma di stella, con fossati e viali interni e porte fortificate tra i bastioni.
Insomma, questo è quanto. Forse colpisce più sapere quanto è stato distrutto, piuttosto che quel che rimane in piedi. E' una consapevolezza in levare.
Mi siedo al parco davanti alle mura e decido di prenotare l'hotel per stasera, per non avere sorprese; mentre brigo con il telefono, un gruppetto di bambini tira per errore una pallonata contro la bici, che non cade perchè la prendo io al volo. La cosa più buffa è cogliere il terrore malcelato negli occhi dei ragazzini, spaventati dalle terribili conseguenze del loro imperdonabile gesto. Non osano nemmeno avvicinarsi per riprendere il pallone, mi fissano con gli occhi spalancati. Mi alzo (con fatica, ho le chiappe di legno) e lancio loro indietro la palla, sorridendo. Sono allibiti. Non ricominciano a giocare, tanto la paura li ha gelati, ma restano lì increduli ancora un po', prima di correre via schiamazzando allegri.
Gli ultimi kilometri iniziano con uno sterrato terribile, coperto di cocci di piastrelle e tegole aguzzi che spuntano dal fango secco, lungo il fiume. Incappo in tanto adolescenti che passano il pomeriggio a pescare con canne di bambù e lenze improvvisate. E' tutto un "Hello! What's your name?", spesso pura voce che emerge dai cespugli, senza che io veda nessuno. Un po' virgiliana, un po' dantesca, un po' soldati statunitensi che sapevano che nel folto della vegetazione si nascondeva sempre qualcuno. Dopodichè, finito questo tratto quasi impedalabile e infestato di insetti mordicchi, imbocco un ponte enorme, con casello simil autostradale (bici e motorini passano gratis, nella corsia tutta a destra. Mi è già capitato da quando son qui). E così attraverso il fiume Lam, placido, immenso, solcato da barchini da pesca e isole di ninfee. Qui davvero l'acqua è ovunque, in abbondanza, dal cielo, dalla terra, dai monti e dal mare, e ogni cosa brulica di vita liquida, fradicia, rorida.
Giù dal ponte, in un'aria quasi fresca, piacevole, imbocco una strada che mi porta ditta all'hotel, sfiorando qualche paesino e piccoli mercati di pesce, granchi, molluschi e anguille tenute vive in catini di plastica. Mi colpiscono questa bandiere: ne ho già viste spesso, e decido di cercarne il significato. Sono le bandiere dei 5 colori, che simboleggiano i 5 elementi da cui tutto ha origine e che devono stare in equilibrio per consentire la vita (metallo, acqua, fuoco, terra, legno); sono usate a scopo religioso e cerimoniale, e possono cambiare l'ordine dei colori, purchè ci siano tutti. Non sono le bandiere buddhiste, che hanno un pattern diverso, a rettangoli colorati.
Alfine eccomi all'albergo, un mastodonte di cemento blu e ruggine che, di certo, ha conosciuto tempi più felici, ma conserva ancora un certo spirito della sua classe. Mi accolgono un facchino in livrea e una receptionist, entrambi molto gentili, entrambi del tutto digiuni di inglese. La signora sfoglia il passaporto in cerca del timbro di ingresso. Non lo trova, chiede a me di cercarlo. Mi sale il panico: e se non me lo avessero apposto? Non ho mai controllato e in aeroporto e troppo tesa e distratta per averci fatto davvero caso. Ma eccolo lì, nelle prime pagine, piccino. Fiuuuuuu. Ho già vissuto, in Bielorussia, Russia, Turkmenistan e Uzbekistan brutti quarti d'ora per pasticci del genere, causati per altro da insipienza delle guardie di confine, e per un attimo ho temuto il peggio pure qui. Invece no, tutto ok. Salgo in camera e mi godo la vista della città dal balcone, poi crollo in un microsonno profondissimo (sogno che l'uomo in livrea mi prenda in giro perchè ho portato troppe scarpe).
L'hotel dispone di ristorante, per altro recensito molto positivamente. Scendo e chiedo alla receptionist se posso entrare, visto che è aperto e le luci sono accese. Lei mi fa segno di sì, e mi accompagna. Ci sono grandi tavoli tondi da 8-10 persone. Uno solo è apparecchiato, con un bicchiere, un tovagliolo e una coppia di bacchette. Penso "Che carini, magari sono l'unica ospite anche qui e han preparato...". Faccio per accomodami quando esce la cuoca, tutta sfatta, dalla cucina, e bercia qualcosa alla receptionist. Morale: quello era il suo posto, si stava sedendo lei a cena. Cucina chiusa, turno finito. Quindi eccomi qua, di nuovo, in giro per le strade del Vietnam, di notte, alla ricerca di cibo. Passo davanti a tanti negozi di vestiti, tecnologia, scapre, ma pure officine, farmacie... E in tutti noto che ci sono adulti che cenano e bambini seduti a terra che giocano o guardano la tv. Quando si dice casa e bottega... Le vie, i ponti e le piazze sono tutti iper illuminati, perchè qui piace molto mettere luci colorate su ogni cosa. Trovo un minimarket e compro una cena simile al solito: i noodles, le alghe, la frutta, il pesce... Mi faccio anche versare l'acqua bollente negli spaghettini, perchè non ho il bollitore, e così mi tocca camminare per 1.5km a velocità ridotta, per non rovesciare il brodo in preparazione. Sono pronta per quelle performance circensi cinesi, dove lanciano i piattini e li riacchiappano con una bacchetta infilata colà.
Io penso che la mia serata possa così chiudersi in gloria, ma mi sbaglio di grosso. Mentre ceno, sento dei rumorini. E poi, mentre leggo e scrivo, questi rumorini diventano persistenti e sospetti. Sembrano proprio zampe. Zampe che corrono. E poi ecco: uno scarafaggio grande come il mio gatto attraversa la stanza e si infila sotto al letto. Poi un altro, dal bagno a sotto alla scrivania. Mi alzo, vado a vedere da dove sia uscito, e mi accorgo con orrore e sommo raccapriccio che, tra il muro e gli stipiti delle porte, ci sono delle voragini zeppe di queste bestie che mi fanno veramente abbastanza schifo. Provo a colpirne uno con l'antico metodo della ciabatta lanciata, ma sono troppo veloci. Serve qualcosa di più adatto al luogo, qualcosa di già sperimentato... Tipo... Il Napalm... NO! Scherzo, scusate, brutta battuta. Uso l'Autan Jungle. Li stordisco, ne escono tantissimi che iniziano a correre qua e là e soprattutto a VOLARE. Perchè oltre a essere 10cm di bestia con altrettanto di antenne, rapidi e coriacei, questi pure volano. Bisogna agire in fretta. Una sciavattata non basta, ne servono due. CIK CIAK! Faccio una strage. Nessun prigioniero. Lascio i cadaveri insepolti, perchè non ho intenzione di lamentarmi con la receptionist o il facchino (di sicuro conoscono il problema, ma con il clima di qui e una struttura così vecchia e poco usata, che possono farci?). Ma che almeno sappiano cosa è successo stanotte. Quale strage. Mi assicuro di ammazzarli bene, che non restino agonizzanti a zampettare verso l'ultimo vuoto. Non vorrei mai che, come ben descrive Buzzati in quel suo meraviglioso raccontino, la Morte mi venga a trovare perchè deve portarsi via loro. Ah, le meraviglie del bioma tropicale!
5/7
Hong Linh-Quang Phu
121km
La tappa di oggi è stata un tranquillo e placido rotolare verso sud, sempre seguendo il profilo della costa, giusto qualche kilometro nell'entroterra per non allungare troppo la strada.
Quando mi sveglio, trovo i resti della battaglia notturna e faccio lo slalom tra i cadaveri. Incredibilmente, non ho subito vendette notturne, e non sono stata neanche assalita dalle cimici dei letti, cosa che temo parecchio quando i posti non brillano per pulizia. Faccio colazione con un caffè freddo in bottiglia e uno sneakers, e, con calma, scendo con tutto. Rimonto le borse, riempio le borracce, e sono on the road again. Si susseguono paesini assonnati, in mezzo ai quali si aprono distese di risaie e campi di mais, dovei contadini sono già all'opera. Intorno, da entrambi i lati, lo sguardo è chiuso da colline verde cupo, ammantate di una nebbiolina da umidità che evapora. Infatti oggi c'è il sole. Per la prima volta il cielo è azzurro, per quanto non sgombro di nubi tropicali che paiono una candida marea montante. Fa bene al cuore rivedere tutta questa luce, anche se il caldo si fa subito sentire e finirò la giornata ustionata nonostante la crema solare e instupidita dalle temperature sotto al casco. Non a caso una delle preoccupazioni dei molti che anche oggi mi affiancano in motorino, soprattutto delle donne, è che non sono coperta del tutto, come loro, e ho alcune parti del corpo esposte al sole. Loro, invece, indossano per lo più una sorta di lunga palandrana che copre la testa, con un cappuccio, le braccia e le mani, con maniche lunghe e guanti integrati, il torso e le gambe con un gonnellone che scende ai piedi. E spesso indossano mascherine o maschere vere e proprie, a volte pure improvvisate. Per loro non abbronzarsi è un imperativo estetico come lo è per noi esser depilate. Tutti i cosmetici per donne sono "sbiancanti": il sapone, il deodorante, il bagnoschiuma... Candeggiano la pelle. Quindi abbronzarsi qui è visto come deleterio, ma mica per la salute. Per la forma. E dunque ditemi che differenza c'è tra questa palandrana e un burqa. Una è una fede religiosa, l'altro un obbligo sociale. E quindi anche più interiorizzato, forse. Certo, qui non ti lapidano se ti abbronzi... Però pesa comunque.
Cosa ne dite, voi, eroi della rivoluzione?
La strada corre ondulata in un continuo lievissimo saliscendi, e il vento contrario rallenta un po' l'andatura. Ma non ho fretta, e potrei persino fermarmi a chiacchierare con questo manichino che segnala i lavori in corso. Perchè pagare un operaio, quando al suo posto puoi mettere gratuitamente lui?
Tra un paesino e un'area rurale, un "Hello" e un "Helololololo!" arrivo ad Ah Tinh, unica città grandicella della giornata. Non ha nulla di particolare interesse turistico, è solo un centro economico e di servizi per l'area. In particolare, io vengo accolta da un galletto e dalla consorte che sta facendo un gustosissimo bagno di polvere sotto alla bandiera con falce e martello. Il toponimo però mi colpisce, perchè ricorda il titolo del libro pubblicato da qualche mese che racconta il coast to coast negli States. Atiin. Strada, in lingua navajo.
Mi fermo per riempire (per l'ennesima volta) le borracce e noto che nel forcellino sono incastrate sterpaglie di ogni genere, che mi porto dietro chissà da quanti giorni. Sono talmente incastrate e avvoltolate che, per toglierle, mi imbratto completamente, sotto lo sguardo incuriosito dei negozianti che son seduti sull'uscio.
Viene quindi il momento di piegare nettamente verso la linea di costa, e quindi scalare qualche dolce collinetta. Il problema è che sui versanti si sta rovesciando tutta la pioggia che non ho preso oggi. Non ho voglia di infradiciarmi in queste ultime decine di kilometri, quindi accelero un poco, per quanto vento e pendenze consentano. Inevitabile è però fermarsi a immortalare i bufali d'acqua. Lo scorso anno ero affascinata dagli zebù, ora la novità top di gamma sono loro. I bufalini non Gesualdi.
La strada corre parallela al mare e si arrampica su per brevi salite, per poi ridiscendere e risalire, in un modo che mi ricorda certi tratti di Liguria. All'ultima rampetta c'è un segnale di cantiere e strada chiusa, e tutto il traffico, piuttosto consistente, anche di mezzi pesanti, viene dirottato ad una breve galleria. Lì per lì penso: vabe', una salita in meno. Preparo le luci, le accendo, e, una volta all'imbocco del tunnel, mi si presenta questo scenario:
Le due corsie sono strette e, quando passano i camion, sfiorano i motorini. Quindi mi sembra un'ottima idea restare sul passaggio che vedete tutto a destra. E' rialzato di circa 1.5 metri dalla strada, protetto da corrimano e accessibile con comoda rampa. Lo prendo per un corridoio per uscite d'emergenza pensato anche per chi resta con lo scooter in panne. Salgo, pedalo circa fino a metà galleria (500 metri) e mi rendo conto che sto procedendo su lastre di cemento fini e traballanti, rattoppate qua e là con assi e lamiere. Spero di uscire in fretta perchè questa passerella non sembra solida... Mentre elaboro questa sensazione, devo inchiodare: davanti a me una voragine, un buco largo tutto il corridoio, lungo 2m, profondo fino alla strada. Non solo non posso proseguire oltre, ma ora ho davvero anche la certezza che questo corridoio sta franando piastrella dopo piastrella. Mi sembra di essere in Squid Game, nel gioco del ponte di vetro. Tra l'altro non posso nemmeno girare la bici, quindi per tornare all'ingresso e scendere da questa trappola devo camminare all'indietro e di lato, come un gambero zoppo. Intanto i Tir e i motorini passano a 1 metro dalla mia schiena, e tutto rimbomba, e l'aria è rovente e appiccicosa. Ci metto del buon tempo a concludere l'operazione, anche perchè la bici carica è poco governabile. In quel buon tempo, maledico me, le mie alzate d'ingegno, le mie idee di merda. "Bestemmiavano Dio e lor parenti,/ l’umana spezie e ’l loco e ’l tempo e ’l seme/ di lor semenza e di lor nascimenti" per citare Dante. E tiro giù tutto il calendario, perchè son spaventata ma soprattutto arrabbiata con me stessa per la decisione sbagliata. Lo so, sembrava giusta. Ma era sbagliata. L'inferno è lastricato di buone intenzioni. Ma poi ci sono le voragini nel cemento. E lì quel che si credeva e non era, non serve.
Comunque riesco a uscire, e imboccare la strada. Attraverso la galleria in un batter d'occhio, mannaggia a me. Però questa divagazione è seita a evitare uno scroscio di pioggia breve ma intenso. Quando esco, a salutare la mia miracolosa sopravvivenza, trovo lui.
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L'arrivo, a questo punto, è meritatamente in discesa, in una bella valle tutta fertile di campi verdissimi, delimitati dal profilo azzurro delle colline. Passo dall'ennesimo casello autostradale (se funziona come la BreBeMi, che va pagata online o arriva a casa la multa -e lo so per esperienza diretta- è finita! Fortuna non ho una targa) e raggiungo l'hotel prenotato stamattina.
Visto da fuori è ben fatiscente, e anche dentro dimostra i suoi anni, ma almeno è abbastanza pulito (per gli standard locali che da noi farebbero inorridire) e non ci sono scarafaggi. Solo zanzare. Che vuoi che sia. Non c'è la carta igienica (qui si usa il doccino) ma non chiedono il passaporto. E la sera il ragazzino (massimo 14 anni) lasciato a gestire la reception si fa in 4 per scaldarmi l'acqua per i noodles (non funziona il bollitore, quindi accende i fornelli e copre la pentola con il coperchio e insomma, apprezzo molto).
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Per recuperare la cena attraverso il minuscolo paese, che si sviluppa tutto sulla strada principale che lo attraversa. C'è anche un cimitero dei caduti nella Guerra del Vietnam (si intuisce dalle date, e dal fatto che le sepolture non sono a forma di pagoda con i dragoni, come quelle buddhiste, e nemmeno assomigliano a quelle cristiane che ho visto in giro). E' il primo cimitero di guerra che vedo da vicino, ma ne ho intravisti praticamente in ogni città. Come in Russia ce ne sono per i morti della Seconda Guerra mondiale, qui ci sono questi. Ogni paese ha, letteralmente, le sue croci.
Prima di trovare un negozio di alimentari, mi imbatto in diversi ristorantini molto tipici, così tipici che le stoviglie vengono lavate tutte nello stesso catino nell'acqua già lercia di altri lavaggi, con una passata veloce che pre-unge i piatti. Questa visione mi distoglie dall'idea di cenare fuori. Non mi va di ammalarmi e farmi venire il cagotto prepotente...
Ah, oggi ho comprato il cacciavite necessario per stringere la vite del reggisella. Un cacciavite così grosso che seve anche da pugnale nel caso gli americani entrino nelle gallerie sotterranee. Per altro, il ferramenta parlava inglese. Ovviamente, sospettando il contrario, mi sono avvicinata come una povera ebete con già una frase scritta sul traduttore e riportata in vietnamita. Il negoziante ha letto, mi ha guardata e mi ha detto: "Guarda che parlo inglese" con perfetto accento oxfordiano. E abbiamo scambiato quattro parole sul viaggio e su come mi stia sembrando il Vietnam. "Benvenuta!" conclude. "Grazie, mi sento davvero accolta".
Unico problema: la vìt comprata qui è di ferraccio e quando la stringo fa trucioli e si spana. Non va bene, e infatti spesso la sella si abbassa. Ora ho fatto un lavorino di fino che tiene di certo per un po', ma devo trovarne una di acciaio al più presto (o sostituirla con una del portapacchi anteriore, che lavora con poco peso e ha viti lunghe). Ci penserò a Hué. "Hué alùra!".
6/7
Quang Phu-Ho Xa
123km
Mi sveglio alle 7 dopo una notte ininterrotta di sonno profondo, forse la prima da quando sono qui. Non fosse stato per il rumore che sale dalla strada e l'odore intenso di brodo di pesce, forse avrei continuato anche a pisolare. Ma la tappa è lunga e la giornata si prospetta interessante, quindi mi alzo, faccio colazione con un bottiglione di tè e miele (bevo 7-8 litri al giorno tra tutto, e ne sudo non so quanti; caldo e umidità sono micidiali) e parto. Per fortuna non ho perso le chiavi dei lucchetti: ho legato la bici nel cortile interno a un enorme vaso di pietra scolpito, con dentro un bonsai XXL, sicuro ma problematico da rompere.
Non piove e a tratti, dalle nuvole, fa capolino un timido solicello. Che è sufficiente ad arroventare l'aria già calda, e ustionarmi ulteriormente, nonostante i litri di protezione solare. All'inizio resto su uno stradone che però, vista l'ora, non è ancora trafficato. Attraverso un'infinità di fiumi, tutti enormi; d'altronde il mare è qui a due passi, questa è la foce. I barchini colorati dei pescatori sono ancora attraccati, ma si sente nell'aria odor di pesce che essica.
Appena possibile lascio la statale e seguo l'ansa di un fiume fino al mare. I paesini sono in pieno fermento di mercato mattutino tra mucchi di conchiglie commestibili e tranci di pesce fresco, e, a ogni crocicchio, è tutto un fiorire di "Hello! Hello!" e mani che salutano. Ma davvero è così raro vedere cicloviaggiatori, qui? O semplicemente la gente è entusiasta a prescindere, e calorosa, e fa così a prescindere dall'abitudine o meno a veder strana gente che arranca sui pedali?
Quando giungo alla strada più a ridosso del mare, mi trovo immersa in un paesaggio completamente diverso da quelli visti qui finora. La strada, a tratti sterrata, si insinua tra dune di sabbia dorata e grigia e zone verdi, intorno a piccoli laghi e corsi d'acqua che nutrono alberelli e cespugli. Intorno, monti scuri per la distanza. Non c'è in giro nessuno, non ci sono case, non ci sono attività. Solo, più avanti un vasto cantiere che sta, probabilmente, costruendo una strada. I pochi operai in motorino in cui mi imbatto propongono un pattern di conversazione standard: ciao! Come ti chiami? Di dove sei? E quando l'ultima domanda non trova come risposta Francia o States, si offrono di trainarmi allungando la mano o facendo segno di aggrapparmi alla sella. Non si capacitano del mio rifiuto, anche perchè il vento è teso e contrario. Però, cuori miei, non me la sento. Davvero. Di tanti modi di farsi male che mi attirano, questo no. Anche perchè mi sembra di imbrogliare! Quindi procedo in questo panorama che pare di un altro mondo, ammirando questa inattesa meraviglia.
Raggiungo uno dei punti problematici che avevo individuato sul percorso di oggi. Un ponte che, su Street view, risulta ancora in costruzione, ma su Komoot è segnato come percorribile. La soluzione è semplice: sono vere entrambe le affermazioni. Il ponte è in costruzione, non è minimamente finito nè sarebbe agibile. Ma i local lo hanno reso tale aggiungendo qualche piccola strutturina temporanea, come delle rampe in legno e sassi per poterci passare in motorino. E se lo fanno loro, chi sono io per non approfittare di tanto furibondo ingegno? Ed eccoci qua, in un attimo, dall'altra parte del fiume.
Seguo la linea di costa, il mare sempre a sinistra. Supero una grandissima, tamarrissima e incasinatissima pista di quad, dove i piloti fanno mostra di sè facendo spaventare le passeggere con acrobazie e manovre di dubbia sicurezza, e mi trovo nell'area balneare di Dong Hoi: 12km di spiagge paradisiache dalla finissima sabbia bianca. Qui sì sono attrezzate, con ombrelloni, sdraio, baretti e ristorantini fronte mare! Infatti ci sono anche numerosi hotel e resort, anche se forse son più quelli chiusi e abbandonati che quelli aperti. Si vedono molti vietnamiti in vacanza con la famiglia, e tanti ne arrivano sui bus notturni dotati di cuccette. Qui pochi hanno l'automobile. In ferie si va in motorino o in pullman.
Dopo aver respirato il classico profumo di estate al mare (pesce fritto e crema solare) che mi ricorda Bordighera, dove ho trascorso i tre mesi di vacanza da che son nata fino ai 16 anni, supero anche la spiaggia di Naht Le, che significa "bellezza e tristezza"; la leggenda vuole che la gente costretta a emigrare al sud piangesse tanto per la nostalgia di casa da dar vita ai fiumi che alimentano il Mar Cinese Meridionale.
Raggiungo quindi la città vera e propria di Dong Hoi (capoluogo con oltre 130.000 abitanti). Dopo aver scambiato due parole con una quindicenne cinese che si sporge dal finestrino di un SUV stracarico di bambini (ma chi guida?) e parla un inglese buffissimo ma efficace, eccomi davanti a uno dei simboli della resilienza della "Città delle rose": i resti della chiesa di Tam Toa. Questo edificio sacro, costruito dai francesi nell'Ottocento, fu distrutto nel 1965 durante la guerra. Tutta la città, invero, fu rasa al suolo dai bombardamenti statunitensi, essendo vicinissima alla zona demilitarizzata, cioè il confine tra Vietnam del Nord e del Sud, dove i combattimenti furono più aspri e duraturi.
Oltre al moncone di chiesa, restarono in piedi una palma, la torre idrica e la porta Quang Binh, parte di una struttura difensiva gemella (ma più recente) di quella di Vinh. Anche questa a forma di stella, costruita nel XIX secolo a difesa della dinastia imperiale Nguyen, circondata da fossato, ristrutturata dai francesi e danneggiata pesantemente dalla guerra.
Tutto è stato comunque ricostruito e reso ancor più spettacolare. D'altronde qui vive gente da 10.000 anni, son passate dinastie, etnie diverse, conquiste, rivolte, rivoluzioni, guerre... Ma la capacità di resistere, ricostruire, ripartire di questa gente è incredibile. E guardate come se la dorme questo operaio in pausa, sulla sua amaca tesa tra la ruspa e un albero!
Per me è ora di una pausa. Mi fermo per ricaricare le borracce e mangiare un gelato gusto bubble tea, con tanto di vere bubbles. Buonissimo! Il caldo oggi mi mette alla prova, non sarà l'unica sosta. Per chi se lo stesse chiedendo, comunque, sulle strade più grandi ci sono pompe di benzina con tanto di bagni, di solito abbastanza puliti.
Riparto. Gli ultimi 50km sembrano estendersi all'infinito. Anche il paesaggio diventa piuttosto monotono: paesini piccoli piccoli e in mezzo risaie allagate. Sullo sfondo, i monti che segnano il confine con il Laos (qui il Vietnam è largo solo 40km!). Mi distraggo guardando quel che la gente perde a terra: soldi, in primis (trovo tantissime banconote di piccolo taglio... 1000 dong, 2000 dong cioè 3 o 6 millesimi di euro. A volte non sto neanche a fermarmi, altre sì. Acqua e gelati son sempre offerti dalla sbadataggine dei vietnamiti). Ciabatte, soprattutto piccoline, di bambini, con disegni di supereroi o cartoni animati. Immondizia, abbastanza, ma spesso biodegradabile (e molto splatter). Cappelli e cappellini. Roba che vola via nelle corse in motorino, insomma.
Qua e là un monumento ai caduti, e una lunga, troppo lunga, lista di nomi. Questa era zona di confine. Zona di guerra. Zona di morte.
Tra contadini nelle risaia, bufali e murales poco poco propagandistici (spesso sono sui muri delle scuole o delle banche), arrivo a Ho Xa, paesotto dove ci sono tantissimi alberghi... Tutti a ore. Qui usa molto, un po' per chi viaggia e vuole solo riposarsi un poco e farsi una doccia, un po' per coppie e coppiette. Non pensate male, non si parla per forza di scappatelle, corna o prostituzione. Qui spesso le famiglie, allargate, vivono in una sola casa, con pure poche stanze. Si sta tutti insieme, dai trisavoli ai nipotini, zii, cugini, tutti. E per avere un poco di intimità, ecco che i motel offrono stanza e bagno a prezzo modico. Se si resta tutta la notte, si paga un forfait. 8 euro in questo caso.
Proprio accanto al motel c'è un supermercato ben fornito, dove faccio spesa per la cena. E oggi mi lancio nell'assaggiare il "budino nero", cioè una gelatina d'erba simil-mentuccia. Lo scopro dopo averlo spazzolato, eh. E' buono, leggero, sano e rinfrescante (nasce in Cina come prodotto contadino proprio per ripigliarsi dopo una giornata sotto al sole nei campi a spaccarsi la schiena). Anche oggi ho scoperto qualcosa di nuovo!
Domani raggiungerò Hué, antica città imperiale. Mi ci fermeò un giorno, per visitarla, per riposare e per fare una lavatrice dei vestiti puzzolentissimi (con l'umidità che c'è non asciuga mai nulla, nè ciò che si bagna di pioggia, nè ciò che si intride di sudore). Prima di entrare a Hué, farò una breve deviazione per visitare i tunnel di Vinh Moc. Qui i civili, per ripararsi dai continui bombardamenti, trasferirono il villaggio sottoterra, nei cunicoli e nelle gallerie, scavando la roccia. Ma ne parleremo meglio domani, dopo aver visto direttamente questo monumento alla resistenza.
Bello bello! Stai facendo quello che ho sempre sognato e non sono mai riuscito a fare. Brava, forte e coraggiosa. E poi scrivi benissimo! Aspetto con ansia la prossima puntata.
RispondiEliminaComplimenti. Come al solito è un piacere leggerti
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