mercoledì 21 luglio 2021

15. Gallipoli-Taranto. Il lieve legno che naviga una bellezza nascosta, "dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi"

19/7/21
Gallipoli-Taranto
106km





La prima cosa è la brezza, che porta profumo di mare e fa cantare gli ulivi sacri.
La seconda il cinguettio tra le foglie basse e un lontano frinire.
La terza la luce. Altissima. Dolce, che non ferisce.
E poi si apre la tenda e questo è ciò che si vede nel primo mattino.


Il campeggio è silenzioso e ancora tutti dormono. Quasi non sembra di essere a pochi passi dall'affollatissimo lungomare di Gallipoli, che ieri sera brulicava di carne come un formicaio. Facciamo colazione mentre l'aria si scalda e pian piano il sangue torna a circolare nei muscoli delle gambe, a questo punto un po' affaticati. Chiudiamo tutto di nuovo nelle borse e, tra gli sguardi curiosi dei camperisti, ripartiamo alla volta del centro storico di Gallipoli.

Cominciamo a dire che i galli, con buona pace dello stemma cittadino e chi lo ha scelto, non c'entrano; nè gli animali nè i Senoni. Gallipoli è la bella città, in greco Kallipolis, come la definisce anche Pomponio Mela chiamandola urbs graia. Fondata dal leggendario Idomeneo di Creta, o più probabilmente dai Messapi, fece parte della Magna Grecia e si scontrò con Roma al fianco di Taranto e Pirro. Fu presa e divenne colonia e poi municipio strategico per la posizione sullo Ionio. Si commerciavano la porpora e l'olio, qui.


Poi cadde in mani di barbari, Vandali, Goti e Ostrogoti. Ritrovò fortuna con i Bizantini, ma durante il Medioevo l'adesione alla Chiesa di Roma provocò gravi violenze. Cadde in mano araba, poi di nuovo bizantina e infine normanna, sveva, angioina, aragonese, borbonica.



Sorprende come il nucleo più antico della città sorga su un isolotto, collegato ai quartieri nuovi, ottocenteschi, da un ponte che affaccia sul porto e sul castello.




Dopo aver respirato l'aria tranquilla di questa pietra antica che si specchia in mare ripartiamo, all'inizio seguendo la costa.
Ogni tanto una torre (in foto la cinquecentesca Sabea) osserva laconica l'orizzonte, un deserto dei Tartari fatto di sale e distanze.





La strada si srotola ora bassa ora alta e a tratti, come a Lido Conchiglie, perfora la roccia 



per poi sbucare su spalancata meraviglia di azzurri.



A questo punto la traccia si inerpica sui primi colli a ridosso del mare e si perde tra campi e rovine; potrebbero essere resti di 10 anni fa o 1000, qui il tempo dirocca e sbriciola, e la pietra perde nome. Cresce l'erba su ciò che è stato e le minuscole radici bevono linfa dal muto passato.



Poi, improvvisa, la pioggia. Di nuovo. son giorni di tempesta e trombe marine. E oggi la furia del cielo ci coglie tra le campagne semiabbandonate dell'entroterra. Non c'è riparo che tenga, la prendiamo tutta e senza sconti. Dopo qualche minuto siamo così zuppi che fermarsi sarebbe solo peggio, perchè ci raffredderemmo.


Siamo costretti a fare una sosta brevissima ad Avetrana, nota più per il delitto del 2010 che per la sua ricca storia che tanto ha lasciato in eredità. Siamo fradici e sconcertati da un tale maltempo, qui, a luglio.



Inizia una sorta di corsa contro il tempo; di piovere non smette mai, ma cerchiamo di muoverci prima che ricomincino gli scrosci violenti che impediscono di vedere oltre il proprio naso. Anche oggi le strade, scassate ed esplose di buche, diventano campi minati: l'acqua non defluisce e nasconde le insidie. Passiamo in volata Manduria, Sava, San Giorgio Ionico. Tutte città che, anche solo ad rapido sguardo, mostrano chiese, palazzi e torri di bellezza inestimabile. E periferie fatiscenti e degradate al limite dell'accettabile in un paese civile.
Nelle foto sotto Gigi dà dimostrazione di guado pedalato, senza tema alcuna di ripercorrere, per le telecamere, il tragitto in pozzanghera-Gange.



Tirando contro vento, tra campagne desolate (ma con volpi che ci attraversano la strada!) e terrifica periferia, arriviamo finalmente alla meta di oggi: Taranto. Siamo in condizioni vergognose e ad ogni passo ci lasciamo dietro una scia di fango e acqua piovana. Ma è presto e c'è tutto il tempo di lavarsi, riposare e poi visitare la città. Che è una delle più ambigue di sempre. A seconda di chi racconta, viene descritta come la più brutta o la più bella del paese. Si capisce da questa polarizzazione che è una delle più sconosciute, perchè solo l'ignoranza non conosce il grigio e si schiera al bianco o al nero senza mediazioni.

Diciamo che Taranto ha un'infinità di tesori e una storia ricchissima, ma tutta questa bellezza fa molto meno rumore di un'Ilva, di un porto ecomostruoso o di quartieri popolari "dove il sole del buon dio non dà i suoi raggi". C'è tutto questo, insieme, in un unicum complesso e contraddittorio che fa di Taranto un piccolo mondo di luci ed ombre.

Ad esempio, questo fascistissimo edificio, sede della Provinica, è bello o agghiacciante?


E questo mare, con le sue sirene, con le sue navi portacontainer è poetico o ripugnante?




E che dire di questo lungomare, che tiene insieme i palazzoni e il castello argonese?




E' impossibile definire Taranto, dunque. Bella o brutta che la si consideri, si sarà sempre in torto e nella ragione. Ma, come dice Rumi, incontriamoci là, in quel luogo che sta oltre torti e ragioni. E guardiamo con la giusta lente di incanto ma mai ingenuo.

Il monumento ai marinai


 il viale dalle molte finestre 


e i bastioni della fortezza


conducono al ponte girevole in acciaio che, alla bisogna, si apre per lasciar passare le navi dirette al "mare piccolo". Eh sì, perchè il centro storico di Taranto sorge su un'isola.





Cito per brevità da Wikipedia: Fu fondata dagli Spartani nell'VIII secolo a.C. col nome di Taras. La città, grazie alla sua posizione strategica al centro dell'omonimo golfo, alla fertilità del suo territorio e al commercio, divenne una delle più importanti póleis della Magna Grecia, affermandosi come un fiorente centro culturale, economico e militare, che diede i natali a intellettuali del calibro di Archita, Aristosseno, Livio Andronico, Leonida ed Eraclide di Taranto nonché ad atleti le cui gesta divennero leggendarie in tutto il mondo greco, come Icco e il cosiddetto Atleta di Taranto. Fu l'ultima città magnogreca a cadere in seguito all'espansione di Roma, non prima di aver ingaggiato con essa le cosiddette guerre pirriche, un conflitto durato 5 anni. Pur sconfitta, continuò a esercitare una grandissima influenza culturale sul resto dell'Italia meridionale e sulla stessa Roma, entrando a far parte dell'immaginario collettivo del tempo come luogo contraddistinto da opulenza e da grandi bellezze naturali, celebrate da Orazio e numerosi altri autori.





Nel periodo normanno, divenne capitale del Principato di Taranto, che durante i suoi 377 anni di storia arrivò a comprendere la quasi totalità del Salento.

Taranto dà il nome alla specie Lycosa tarantula (ragno lupo), un tempo molto comune nelle campagne locali, cui si devono i termini tarantella e tarantismo, nonché la parola tarantola.





È soprannominata la Città dei due mari, per la sua peculiare posizione a cavallo di mar Grande e mar Piccolo. Nel primo, nei pressi delle Isole Cheradi, antistanti la città, vive e prospera una storica popolazione di delfini e altri cetacei; nel secondo è praticata da secoli e in larga scala la mitilicoltura, i cui prodotti sono noti a livello mondiale per la loro unicità.

La città è sede dell'Arsenale marittimo della Marina Militare, dell'Ilva, uno tra i maggiori complessi industriali d'Europa per la produzione dell'acciaio, e del Museo archeologico nazionale MArTA, che è tra i musei più importanti d'Italia



Il carattere duplice e a tratti schizofrenico della città si respira passeggiando per le stradine del quartiere storico. C'è tanta bellezza in ogni androne e vicolo, ma anche tanto degrado. Un meraviglioso declino, un occaso felice di arte che affonda nell'incuria. Si passa dalle colonne del tempio di Poseidone (secondo il mito è stato suo figlio a fondare Taranto) a budelli umidi e puzzolenti, frequentati da loschi figuri. I palazzi barocchi si alternano a case fatiscenti che si sgretolano al solo guardarle.

Le strade più cupe conducono alla pura luce 



La Basilica di San Cataldo ne è un esempio. Circondata da viuzze malsane, nasconde tesori inestimabili. Sui resti paleocristiani del VII secolo fu costruita la cattedrale a partire dal X. Capitelli recuperati dalle rovine antiche






mosaici che narrano d'Alessandro



la cappella barocchissima con statue di Sanmartino (autore anche del Cristo velato)




e la cripta bizantina con affreschi e sarcofagi del '200 e '300





completano il ricchissimo scrigno di gioielli seminascosti allo sguardo frettoloso.

E lo stesso accade con tutti gli ipogei. Sotto ad ogni casa qui, si trova un vero e proprio sito archeologico, di età greca o bizantina o più vicina a noi.

Gigi, troppo stanco per visitare la città, è rimasto a riposare in hotel e a occuparsi delle bici. E' ora che pure io torni, percorrendo la balaustrata che corre esterna alla città vecchia, a picco sul mare.


Ed ecco l'immagine che sintetizza lo spirito del luogo. Un mare limpidissimo che si può solcare con il piccolo ma colorato legno in primo piano. O il mare scuro su cui dormono le grandi navi container, grigio su grigio.

Io per me non fatico a scegliere.



E con questi colori pastello si chiude la giornata. Taranto è proprio una città bellissima.







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