lunedì 12 luglio 2021

7. Fano-Porto Recanati. Un pellegrinaggio verso l'Infinito. Ricordanze.

11/7/21
Fano-Porto Recanati
118km




Tanto ieri la costa è stata insidiosa, quanto oggi si è rivelata invece docile e gentile. Qui nelle Marche la densità di strutture turistiche è meno folle e quindi la strada non è affollata e caotica. Si pedala nell'aria fresca e nel profumo di sale e bruschetta con pomodori gonfi di sole e olio, quello buono (ma già al mattino? -Sì).
Le spiagge non sono gremite e danno idea di giornate paciose, nel quale l'unico problema è il sale che un po' pizzica sulla pelle.
In questi giorni mi piacciono tanto i colori sgargianti, quelli sfacciati. Non so perchè, ma vedere gli ombrelloni gialli o rossi, i materassini a forma di fenicottero rosa evidenziatore e le insegne arcobaleno mi mette di buon umore. E' qualcosa di profondo e infantile, vitalistico, una pulsione contraria a quella di morte-grigio-nero. E quindi godo di questo tripudio da tavolozza esplosa, perchè l'estate è anche questo.




Il vento a favore ci aiuta a divorare ampi tratti di strada in un panorama che alterna spiagge sabbiose, sulla litoranea, a colline ancora più luminose d'oro di spighe mature e fieno. L'accento romagnolo cede il passo a quello marchigiano, che conoscono pochissimo e mi suona nuovo alle orecchie. Nuovo e buffo, come probabilmente suona il mio da milanèsa, qui.

In un attimo, senza quasi accorgercene,  siamo ad Ancona, che si presenta a chi arriva con il suo porto e le grandi navi. Un po' di voglia di salpare per l'Albania o la Grecia mi viene. Ma da quelle parti ho già pedalato, mentre qui no! Passiamo la Mole Vanvitelliana-lazzaretto 



e la Porta Pia (non quella della breccia, però), antico varco d'ingresso alla cittadella.


Dopo il Teatro Corelli,


e un Cavourone gigantesco


ci fermiamo al monumento ai caduti per una pausa pranzo vista mare. Siamo a metà giornata e dopo tanta pianura ci aspettano le prime salite, per esplorare il Conero. Tra l'umanità varia che ci chiede lumi sul nostro viaggio citerò un anziano omarino, in jeans corti e polo e sciavatte, con una bandierina dell'Unione europea sul colletto. Mi avvicina timoroso, chiedendo se parlassi italiano: "Sa, di questi tempi c'è gente dai più remoti angoli del mondo!". Sinceratosi del mio hablar en su, si informa sul nostro Giro d'Italia ed è estremamente soddisfatto all'idea che le Marche non siano state saltate, perchè, a parere suo, sono la regione più snobbata. "Sarà che siamo rimasti tanti secoli sotto il potere pontificio, ma nessuno ci conosce e persino quando danno le previsioni meteo noi ci saltano". Mi fa ridere ma non posso che concordare. 



Finita la pausa pranzo in compagnia di gabbiani grossi come piccoli dinosauri, ci avviamo ad affrontare le brevi ma ripide salite del parco del Conero. Ho letto che offre scorci incredibili sia sulla costa sia sull'entroterra e non possiamo perdercelo. Qui l'Appennino si getta a precipizio in mare, con boschi profumatissimi e scoscesi e roccia chiara, fino a spiagge caraibiche di acqua cristallina.





Certo, gli strappi che la strada ci pone davanti sono brevi ma simili a muri, e portarsi appresso il peso della bici carica non è una passeggiata. Ma ne vale davvero la pena.
Tutto è pieno di dei, il filo d'erba, la stilla di resina, il ciottolo riarso e la goccia d'acqua. Fin dall'Età del bronzo si traevano vaticini dallo scorrere dell'acqua e i romani scavarono qui la roccia in cave profonde dove i partigiani trovarono rifugio. Non mancano ovviamente nemmeno chiese e sacelli, e soprattutto monasteri, perchè la sacralità di questo luogo prescinde dal nome che si impone a dio. 



Dopo molto sudore e tanta meraviglia iniziamo la discesa. Un turbine di frescura e colori risucchiati nella velocità, azzurro, oro, luce, verde. Il panorama si confonde e scivola ai bordi dello sguardo in uno stato mistico di trance. Non ci sono più bordi, tutto è uno e respira d'un solo fiato.



Una breve sosta a Sirolo ci permettere di assaporare l'orizzonte e di vedere la costa che si srotola a perdita d'occhio a meridione, proprio dove stiamo andando noi.


In un batter d'occhio siamo di nuovo sul mare, volando sulla ritrovata pianura a bordo spiaggia. La nostra meta è Porto Recanati. Qui ci accampiamo e lasciamo i bagagli per ripartire leggeri in pellegrinaggio, e non verso la vicinissima Loreto. E' a Recanati che voglio salire, lentamente, sudando ogni metro, per trovarmi poi d'improvviso davanti all'Infinito.

Piantate le tende e fatta la spesa, imbocchiamo una serie di strade bianche panoramiche che risalgono su su per l'Appennino tra covoni e campi di girasoli, ulivi antichi e sentieri dai molti passi.



Si sale, si sale e la strada strappa con violenza verso l'alto, come un grido. Si fa fatica, ma quella buona, sensata. E infine eccoci, alla porta d'ingresso della città natale di Giacomo Leopardi. Correva l'anno 1798.



Muoversi per le viuzze del "natio borgo selvaggio" significa immergersi completamente in un'atmosfera che, per arcano incantesimo, trasporta a quegli anni, a cavallo tra '700 e '800. E si cammina non già tra muri e androni, ma tra versi immortali.



 Leopardi non amava la sua città e cercò più volte di fuggirne.

"Plutarco,  l'Alfieri  amavano  Cheronea  ed  Asti.  Li  amavano  e  non  vi  stavano.  A questo  modo  amerò  ancor  io  la  mia  patria  quando  ne  sarò  lontano;  ora  dico  di odiarla perché  vi sono  dentro, chè  finalmente  questa  povera città  non  è rea  d'altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori". Leopardi evidenzia spesso lo squallore, "la morte,  l'insensataggine  e  la  stupidità  […]  il  sonno  universale,  la  mancanza d'ingegno" e sogna di andarsene, di vivere "in un mondo che mi alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa)".

Ma proprio qui a Recanati il poeta compone alcune delle sue opere più grandiose.


Questa, ad esempio, è la piazzetta de "Il sabato del villaggio"

Plutarco, l'Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Li amavano e non vi stavano. A
questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di
odiarla perché vi sono dentro, chè finalmente questa povera città non è rea d'altro
che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori».
Iniziando poi a parlare di Recanati, Leopardi evidenzia nella lettera lo squallore, «la
morte, l'insensataggine e la stupidità […] il sonno universale, la mancanza
d'ingegno» e sogna di fuggire, di vivere «in un mondo che mi alletti e mi sorrida, un
mondo che splenda (sia pure di luce falsa)».
Plutarco, l'Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Li amavano e non vi stavano. A
questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di
odiarla perché vi sono dentro, chè finalmente questa povera città non è rea d'altro
che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori».
Iniziando poi a parlare di Recanati, Leopardi evidenzia nella lettera lo squallore, «la
morte, l'insensataggine e la stupidità […] il sonno universale, la mancanza
d'ingegno» e sogna di fuggire, di vivere «in un mondo che mi alletti e mi sorrida, un
mondo che splenda (sia pure di luce falsa)».

mentre questa è la casa della famiglia Leopardi, nelle cui stanze il poeta ha giocato, bambino, studiato, letto e osservato il mondo dalle finestre. Un mondo troppo normale, e così sordo.




Andando verso il monte Tabor, l'ermo colle che ha ispirato L'Infinito, si incontrano i resti della sepoltura del poeta


e poi, improvviso, eccolo.

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.


Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quïete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:


e il naufragar m'è dolce in questo mare.


Ci fermiamo ad assaporare il momento, che mi rimarrà per sempre scolpito a fuoco dolce sottopelle.


Tornando poi in silenzio passiamo per la casa di Silvia


 e di nuovo la piazza del dì di festa.


Poi si scende, in una luce che è balsamo e miele purissimo. Un tuffo nella piega dolce dell'universo che sorride, ed è la curva di una strada.



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