sabato 24 luglio 2021

18. Potenza-Paestum. Dalla roccia dei monti al marmo sacro che affaccia al mare.

22/7/21
Potenza-Paestum
109Km









Buongiorno Puteeeeenza!


La mattinata si apre come un sipario davanti a noi, con vista sull'Appennino dolce e terribile a un tempo. La luce ancora morbida smussa le asperità e gioca con le linee sinuose dei colli. Ma noi sappiamo, oh! Come sappiamo!, che le insidie di questa roccia non sono finite. Siamo nel mezzo, nelle fauci dei monti denti di pietra, e prima di tornare al piano dovremo affrontare rampe e tornanti impietosi. Poi sarà mare, di nuovo. Il terzo di questo viaggio: Adriatico, Ionio e ora Tirreno.


Oggi Google maps non ci farà scherzi. Dopo l'errore madornale di ieri, abbiamo studiato una rotta di strade secondarie e percorsi ciclabili. Tosta, impervia, ma sicura, lontana dagli stradoni e dal traffico. Seguiremo una larga parte del famoso tratturo degli stranieri, calcando sentieri percorsi per millenni dalle genti di qui, conquistati e conquistatori, vincitori e vinti della storia.



Dopo una discesa in picchiata dal centro storico di Potenza (ero troppo impegnata a tirare i freni per fare foto!) si ricomincia a salire. Ora con pendenze accettabili, ora meno. Intorno la terra bassa, che bassa resta anche in quota, con greggi e contadini già nei campi.


Passiamo il conurbato orrifico di Tito, un susseguirsi di centri commerciali polverosi e cadenti, palazzoni semiabbandonati e negozi dalle insegne ormai sbiadite al sole. E poi inizia la fatica, quella vera. La fatica delle bestie. Il tratturo degli stranieri consiste qui in discese ripidissime da far paura, che portano a fondo valle e immediate salite altrettanto ripide che permettono di scollinare nella valle successiva. Il sole picchia forte sulle teste e il fondo è piuttosto sconnesso. Pure con il rapporto più morbido si deve spingere sui pedali con una contrazione continua dell'intero corpo. 


Ogni fibra è tesa oltre il limite e pare che qualcosa, un tendine, un muscolo, debbano cedere, sfilacciarsi, di punto in bianco. E andando piano, pianissimo, il tempo della fatica si dilata in questo sole abbacinante che fa luce su tutto, in primis sulla nostra piccolezza di formichine che trasportano grandi carichi.
C'è il momento del rifiuto della fatica e del dolore, e un momento di accettazione serena. E' qui che il ritmo del cuore rallenta, il fiato si calma, si percepisce ogni goccia di sudore che esala, ogni fruscio di lucertola tra gli sterpi. E' qui che avviene la magia, l'alchimia opera al bianco. La coscienza abbraccia tutto, in un uno indistinto e fuso che vive e fluisce in armonia. I movimenti circolari delle gambe, come quelli dei dervisci, come i moti astrali, sono la chiave di accesso alla consapevolezza alta e panica. La luce mi attraversa come fossi un frutto d'acqua, come uno di quei pesciolini trasparenti di cui si vede il cuore pulsare. 


A volte si incontra una casa, un cascinale. Un gregge ci attraversa la strada, mentre il pastore, a torso nudo e con i sandali, capelli e barba incolti e pelle bruciata al sole, richiama le bestie. Potrebbe essere il Cristo o un poveraccio. Probabilmente è entrambe le cose.



Si sale e si scende. Si sale, si sale, si riscende. 


Sfioriamo Savoia di Lucania e le cascate del Tuorno





fino a giungere, dopo una discesa così ripida da mangiarci tutte le pastiglie del freno, fino a Vietri di Potenza, arroccata e arcigna come un nido d'aquila. Viene chiamata la porta di Lucania, perchè è la prima o l'ultima città che si attraversa per chi viene o va in Campania.


Infatti, lasciato alle spalle il paesino che pare sfondo di un presepe, scendiamo al Fiume Bianco che segna il confine tra regioni.



Scendiamo ancora giù e giù fino alle sponde del Tanagro. E poi risaliamo, ancora ma per l'ultima volta, fino a Zuppino e Scorzo, sui margini del parco nazionale del Cilento. I monti osservano, azzurri, il nostro faticoso andare. Guardano senza dire, e l'unico rumore è quello dei campanacci delle bufale.




Eh sì, perchè qui comincia l'ampia zona di produzione della famosissima e buonissima mozzarella di bufala campana. E Battipaglia, con la sua succosa zizzona, è vicina. Ci passeremo domani. Per ora dobbiamo scendere al piano, e farlo cautamente. Entrambe le nostre bici hanno problemi ai freni. Pastiglie consumate, filo da tirare, disco sporco? Fatto sta che scendiamo quasi a ruota libera. Il vento, contrario, questa volta un po' aiuta.


Dopo un tratto temibile di traffico (ahimè la Campania vince a mani basse la medagli d'oro per guida di merda) e strade dissestate, che dopo la fatica immane e bestiale della tappa risulta quasi insostenibile, arriviamo puntualissimi alla meta del giorno.


Che è meta nobile e spettacolare: Paestum. Il suo parco archeologico. Il suo museo.


Non è questa la sede per una lezione di storia. Basti dire che tre quarti dei siti archeologici che ho visitato in vita mia impallidiscono a fronte di una tale magnificenza. 



Tutte le civiltà e le culture che da qui sono passate hanno lasciato grandiosa traccia e dono di inestimabile valore. Dalla fondazione greca di Poseidonia all'epoca dei lucani, quando il luogo si chiamava Paistom, fino alla conquista romana di Paestum, qui nel marmo e nel "segreto dei pigmenti duraturi", per citare Nabokov, è sopravvissuta tanta bellezza, tanta grazia, da risultare ancor oggi salvifica. 




Nel parco spiccano i templi, scampati alla rovina del tempo e all'ignoranza, miracolosamente intatti, tutti di ordine dorico, dedicati ad Era ed Atena. Sono stati costruiti tra la metà del VI e la metà del V secolo avanti Cristo.









Ma ben visibili sono anche le architetture civili. Oltre alle mura, il foro, l'anfiteatro, le botteghe e le strade.


















E' difficile andarsene da tanta meraviglia, soprattutto in questa luce caramello che fa splendere la pietra come oro ramato. Ma tanto c'è ancora da vedere, nel museo adiacente.

Qui sono confluiti i ritrovamenti delle aree circostanti, soprattutto necropoli. Ci sono corredi funebri (vasellame, armi, gioielli) ma soprattutto lastre tombali affrescate.
C'è la celeberrima del tuffatore, del 480-70 a.C., che raffigura il salto tra vita e morte





ma anche una vasta raccolta di tombe affrescate del periodo lucano. I colori sono quelli di questa terra, e il melograno di Persefone torna spesso.








E così anche oggi abbiamo aggiunto un tassello preziosissimo al mosaico di immagini raccolte in questo lungo breve viaggio nel Bel Paese. Per la sera ci buttiamo nel primo campeggio, a nemmeno 1km dal sito. E' un postaccio zozzo e pieno di cafoni, di pieghe di carne grassa e sudata, di gente che sciavatta e urla. Nessuno è qui per il sito, ma tutti per il mare a buon mercato. C'è un'umanità varia e avariata che fino a tarda notte schiamazza. Cani, bambini, madri esaurite e padri volgari, adolescenti un po' sporchi, personaggi di dubbia finezza e palese ignoranza affollano le piazzole. E ovunque aleggia l'ombra di due figuri: il custode, più panza che uomo, in una divisa da vigilante vera come la moneta da 5 euro, e zio Peppe, un anziano così storto che cammina praticamente chinato. Sta in una tenda di fronte a noi. E' sempre in giro a torso nudo, con i calzoncini e un cappello fluo. Ne ha uno giallo e uno arancione e li alterna secondo una qualche sua legge morale. Sembra il più misero dei figuri, ma tutti si rivolgono a lui con devozione. Forse addirittura baciano le mani.
Nel profumo degli eucalipti, mentre ci godiamo lo spettacolo d'arte varia dell'umanità, arriva la notte.
Domani sarà tappa difficile: passeremo per Napoli. E si sa: "vedi Napoli e poi muori", soprattutto se sei un ciclista immerso nella jungle urbana di traffico. Ma vedremo Salerno e una delle città più belle del nostro paese, e tanto basta.

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