Che la storia la scrivano i
vincitori è risaputo e tristemente provato in innumerevoli occasioni.
Purtroppo non c’è sempre un
Virgilio a cantare le gesta di un eroe sconfitto, non c’è sempre un Foscolo a
ricordarci che i versi di Omero han reso “santo e lagrimato” il sangue di
Ettore, il vinto, “finchè il sole risplenderà su le sciagure umane”. Non sempre
c’è un Euripide a far riecheggire il disperato canto delle Troiane, prede di
guerra, schiave, premio di lotterie tra mani di maschi sudati e vogliosi al pari
di una coppa di bronzo o di un bue.
Barabinsk, questa e, temo, altri
angoli di Siberia, ne sono un esempio.
La città risulta fondata nel
1893. Indovinate? Esatto. In concomitanza con l’inizio dei lavori per la
costruzione della stazione della Transiberiana.
(Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva
e sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria:
"Fratello, non temere, che corro al mio dovere!
Trionfi la giustizia proletaria!
Trionfi la giustizia proletaria!
Trionfi la giustizia proletaria!")
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva
e sembra dire ai contadini curvi il fischio che si spande in aria:
"Fratello, non temere, che corro al mio dovere!
Trionfi la giustizia proletaria!
Trionfi la giustizia proletaria!
Trionfi la giustizia proletaria!")
Pensate che, secondo il progetto
iniziale, come sede della stazione era stata designata la vicina Kuybishev,
cittadina già esistente; i mercanti, però, si opposero, temendo che la strada
ferrata e il mostro a vapore potesse rovinare i loro commerci. Che gravissima
miopia. Così si tiran su quattro case in legno nell’odierna Barabinsk,
villaggio di operai che diventa una città vera e proprio solo nel 1917, poco
prima della rivoluzione.
Proprio in quegli anni, a cavallo
tra i due secoli, lo zar deporta qui una massa di poveri contadini e pastori e
obbliga loro e i nativi tatari della regione a dedicarsi ad alcune specifiche
produzioni, incentivando la nascita di aziende. La città diventa famosa per la
produzione di burro, di così alta qualità che viene persino esportato in
Germania (che, in cambio, esporta qui macchine da cucire; qualche decennio più
tardi tenterà di esportare qui il piombo e la svastica). La Rivoluzione la
conseguente guerra civile, che anche qui lascia una striscia di ombre e morti,
un solco sottile e profondo che si rimargina a fatica e forse solo per poter
andare avanti a vivere, in qualche modo, in quelle case e in quelle strade.
Perché si sa che la morte è sempre e solo un problema per chi resta.
Durante il periodo sovietico il
governo torna qui ad investire ed aprir fabbriche e fattorie. Viene persino
aperto un aeroporto, non si sa bene perché; la sua vita è brevissima ed ora la
sua carcassa giace mangiata dall’erba delle steppe. Lo stesso vale per numerosi
complessi industriali, caduti in rovina e abbandonati dopo le politiche
economiche di Gorbacev e il crollo dell’Urss.
Oggi, certo, restano aziende di
materiale edilizio e alimentari (che poi, per certi piatti, dal pane d’argilla
al purè cementizio alle bistecche di ghisa, la differenza non è grande). La
cosa più importante resta però la stazione, enorme in proporzione al paesino;
tra l’altro quattro ingegneri di qui sono i padri dei motori dei treni che ora
vengono usati in tutta la Federazione, dopo lunghi lavori di progettazione svolti
a Mosca.
In tutto questo, durante la grande Guerra patriottica e i vari
conflitti sostenuti poi dall’Urss, Afghanistan compreso, i figli continuano ad
essere presi, spediti al fronte e buttati nel carnaio; qualcuno torna, qualcuno
no. A qualcuno dedicano una lapide, una stele, un monumento. A molti no.
Ora. I tartari di Baraba, in
tutto questo, come si collocano?
In un piccolissimo interstizio
tra il silenzio e il nulla, ecco come.
L’unica traccia che si trova,
anche nelle enciclopedie e nei musei, della loro presenza è questo ridicolo
poster sbiadito, appeso su un palazzo sopra ad un supermercato.
Il museo di storia locale non fa
alcun minimo accenno alle popolazioni indigene della regione. C’è la sala
dedicata a flora e fauna, la sala dedicata agli eroi di guerra, la sala della
vita quotidiana dei contadini e la sala dedicata all’istruzione e ai personaggi
“famosi” (forse in Russia… Forse…) nati qui. Dei Baraba nemmeno un accenno.
Leggo un articolo di una
giornalista nata qui e ora trasferitasi a Novosibirsk, come, dice lei, la
stragrande maggioranza dei suoi coetanei –chi ha venti, trent’anni, se ne va
via e questo ovviamente è un problema-. In questo articolo l’autrice, che pure
dovrebbe essere informata, spiega che nessuno sa da dove derivi il nome
Barabinsk: “Forse da un antico fiume ora scomparso, forse da un piccolo uccello
che viveva nella steppa”. Ma come?! I Baraba. Eliminati dalla storia, dalla
memoria collettiva e dalla tradizione colta. Depennati, fatti sparire. Tanto a
chi importa di quelle poche migliaia di famiglie dalla pelle scura e gli occhi
a mandorla, musulmani e animisti, pastori, poveri diavoli capitati dalla parte
sbagliata della scacchiera. A chi importa della “gente nera” come venivano
chiamati, a chi importa di quei volti misti di turchi degli Urali e di nomadi
mongoli. Spariti. La loro lingua, tradizionalmente solo orale, è stata
costretta nelle lettere dell’alfabeto cirillico, ma nelle scuole non viene
insegnata (a differenza di ciò che accade, ad esempio, in Tatarstan o in
Baschiria). Non ci sono moschee in paese, solo la chiesa cristiana ortodossa.
Nemmeno nel museo e nell’enciclopedia c’è uno spazio loro dedicato. Davvero
anche qui è accaduto ciò che in America è successo con l’invasione degli
europei e lo sterminio dei nativi. E’ una storia meno nota ma non meno cruenta.
E dire che di Baraba ancora ne vivono a migliaia qui. Ma non hanno voce, non
hanno spazio né alcun tipo di riconoscimento. Siamo tutti uguali, ma alcuni
hanno il diritto di essere più uguali di altri. E i tartari di Siberia no, non
sono uguali ai russi biondissimi, alti e chiari di carnagione che ora si vedono
passeggiare per strada e prender l'acqua alle fontane pubbliche, perchè in molte case non arrivano le condutture.
Stamattina, quando sono partita,
non pensavo che mi sarei trovata di fronte ad una simile censura della storia
locale. Pensavo che a Barabinsk la presenza, fisica e culturale, dei tatari
fosse tangibile. Lo speravo. E invece…
Sono partita tardi, sapendo che
la tappa sarebbe stata svelta. Per colazione ho commesso un altro errore,
seppur non fatale certo evitabile. Avevo ordinato caffè e pane quando, sul
bancone, ho visto un piatto contenente wusterone* arrotolato in pasta sfoglia e
misterioso tortellone. Questo occhieggiava con fare supplichevole. Mangiami,
mangiami! E per un momento mi si è fatta l’immagine di una frittella di mele
caramellate con la cannella e un velo di marmellata. Guardate che spettacolo.
Me lo hanno anche scaldato.
Peccato che dentro ci fosse un
macinato di carne e aglio da ammazzare qualsiasi vampiro e qualsiasi cristiano
nel raggio di 10 kilometri. Buono era buono, ma che botta alle 8 del mattino e
col caffè. La presenza della falsa frittella si è reiterata per tutto il giorno
in forma di ruttini-spiritelli delle steppe. Quando mi convincerò del fatto che non sono in Trentino?
Il viaggio mi ha portata in una
totale immersione nelle steppe dei Baraba, oggi coperte di una luce lattiginosa
e opaca, quasi densa, in cui nuotare. Innumerevoli anche i laghetti e gli
acquitrini, in cui vivono gli dei piccoli del blu profondo e delle scaglie di
sole in superficie.
Che meraviglia questa distesa di
vita lenta che rimane quasi immobile a godersi il miracolo dell’estate. Qui si
respira la libertà della prima radice che ci lega alla terra.
Non tutto è rimasto com’era, ma
ciò che è rimasto si solleva e abbassa in un respiro ancestrale che pulsa il
ritmo delle stagioni e delle lune. Mi immergo nel tutto, divento parte del moto
lentissimo di questa natura grigia e verde. Mi fondo, mi sciolgo, divento aria,
sono terra.
Poi, improvvisa e non richiesta,
la civiltà umana con i suoi simboli di morte.
Sono entrata in città
controvento. Per fortuna tutta la periferia è campagna, cosa che rende meno brusca la transizione.
Mi sono dovuta poi rimpicciolire di nuovo nell’angusto spazio del mio
corpo. Ho dovuto cercare la banca, un’altra banca, litigare con la carta di
credito e questi malefici necessari ma così odiosi. Per fortuna è stato tutto
tranquillo, nella luce alta del primo pomeriggio. Ho trovato subito l’hotel
(unica alternativa al solito motel sulla strada), una donna cordiale al
bancone, una struttura vecchia ma in buone condizioni, con tante storie
nascoste tra tappeto e tende. Il bollitore per farsi un caffè e rilassarsi
prima di uscire ad esplorare il paese. Insomma, tutto.
Anche l’acqua maleodorante
(qui ha un odore dolciastro e rugginoso, che ora ho addosso io stessa). E un
profumatore “after rain” che mi fa pensare alla fanga, alla rasputiza, a
Ciacco.
Stasera ho anche avuto l’onore di esser contattata da Radio
Popolare, dove, alle 17.30 italiane, ho fatto un piccolo intervento in diretta (qui
trovate il podcast: www.radiopopolare.it/podcast/tamarindo-di-lun-3107-terza-parte/).
Grazie!
Ora sto studiando, non senza una punta di sospetto, la tappa
di domani. Punto su Ubinskoye, un paesino minuscolo a circa 100km da qui;
Google sostiene ci sia una gostinitsa, ma mi sa tanto di Topornino, di
specchietto per le allodole, di subdolo inganno. Il problema è che qui davvero
tra un paese e l’altro non c’è niente di niente, se non steppa e boschi. Se la
struttura non esiste, toccherà pedalare quasi due tappe in una sola volta. Eh
va be’, c’è chi in Siberia ha sofferto mali peggiori, via. La distanza che mi
separa da Novosibirsk si assottiglia di giorno in giorno. Vedrò il fiume Ob, il
maestoso signore di questa terra. Vi rendete conto? L’Ob! Non vedo l’o(b)ra!