Vi presento le steppe di Baraba,
o Barabinsk (città in cui mi fermerò domani).
Sono vaste (120.000km quadrati) e
si estendono dall’Irtysh all’Ob.
Sono proprio enormi.
Sono una distesa di prati e
boschi su terra piatta, immutabile e nera.
La nera terra è anche così
fertile da aver attirato, da millenni, insediamenti umani che hanno preso la
folle decisione di mettere i campi a coltura e vivere di grano e pane; qui,
dove il clima e gli inverni non hanno pietà. Qui, dove la vita ogni anno viene
travolta dal ghiaccio e dalla neve e tutto muore sotto un drappo candido come
un’anestesia.
Vi presento le steppe di Baraba,
che mi accompagneranno anche per i prossimi giorni di viaggio, almeno fino a
Novosibirsk.
Ma perché Baraba?
Perché così si chiama l’etnia di
tartari siberiani che abita queste terre; si sono da sempre opposti con
fierezza all’invasione russa ed hanno resistito, pure se con fatica e sacrifici
immensi, alle incursioni di Kyrgyzi, Calmucchi e altri nomadi. Tuttora parlano
una lingua propria, il dialetto tataro siberiano Baraba e vivono di agricoltura
in villaggi spesso separati da quelli in cui si sono stabiliti i russi. Sono
musulmani sunniti o ancora dediti alla tradizionale religione sciamanica, che
ha resistito ai secoli e alle invasioni.
I Baraba si sono sempre
mimetizzati, utilizzando la tattica del camaleonte, per sopravvivere. Quando il
Khanato degli Zungari pretendeva che pagassero la yasaq (tassa in pelli di
zibellino e altri animali) si convertirono in massa all’ortodossia cristiana e
si mescolarono ai russi per trovare protezione e terre franche. Da quando,
sotto l’impero zarista, i Bukharlyk, ovvero quei tartari siberiani che venivano
dall’antico Khanato di Bukhara, iniziarono a godere di privilegi economici e
sociali, i Baraba si finsero di quell’etnia. Tanto i russi non sapevano
distinguere i diversi gruppo di tartari, e per i Baraba fu sempre facile
nascondere la propria identità e mascherarsi da ciò che più aggradava al potere
del momento. Dei furbissimi camaleonti.
D’altra parte vivere da queste
parti è sempre stato difficile. Fin dal neolitico ci sono tracce di presenza
umana, ma sporadiche e rare. Per secoli si sono alternati come onde dalla
veloce risacca popolazioni nomadi provenienti da oriente e da occidente, che
qui trovavano pellicce e legname e terre libere. Poi, all’inizio del 1200,
vennero i Mongoli con le loro orde e presero tutto, bruciarono, saccheggiarono,
divorarono e bevvero. Ma pure l’Orda d’oro esplose in minuscoli frammenti e si
dissolse in una nuvola di sangue e argento, lasciando singoli principi e
signori dei cavalli e dei venti a governare sparsi qua e là e spesso in guerra
fra loro. In questa zona nacque, e siamo nel Quattrocento, il Khanato di Sibir,
o Siberia, governato da un’etnia turco-mongola direttamente discendente da
Gengis Khan; vi si raccoglievano stirpi diverse di nomadi delle steppe,
cacciatori e mercanti degli Urali, contadini di origine turca, cacciatori,
banditi, grandi filosofi e teologi musulmani, esploratori e finissimi
letterati. Ma un secolo e mezzo dopo, con l’aiuto delle incursioni della
cavalleria cosacca, Ivan il Terribile riuscì a minare il potere del khanato e
ad annetterlo, tramite sottomissione, vassallaggio e imposizione di yasak
(tributi in pellicce, dicevamo). Da qui inizia la conquista della Siberia da
parte della Russia, che non è affatto diversa da quella delle Americhe fatta
dagli europei. Anche qui furono costruite fortezze da cui far partire raid
dell’esercito per conquistare i villaggi delle popolazioni indigene, inferiori
in numero e tecnologia e armamenti e falciati da malattie come il vaiolo. Anche
qui gli invasori furono invasati dalla febbre dell’oro e delle ricchezze
minerarie, sterminarono gli animali, oltre che gli uomini, e abbatterono gli
alberi. Anche qui la ricerca di ricchezze portò morte e distruzione.
Per fortuna questi luoghi sanno
difendersi da soli con il clima e gli spazi enormi. Qui tutta la natura è
disumana e non si piega mai del tutto al giogo nostro che ci illudiamo sempre
di controllare e dirigere gli eventi del mondo.
Sono questi i pensieri che mi
hanno accompagnata per tutta la breve e svelta tappa di oggi.
Dopo una notte di diluvi
universali, con fulmini da film e tuoni spaventosi, la mattinata si è presto
aperta in un sorriso d’azzurro a strappi. Che fortuna ho, in questi giorni,
nell’evitare i temporali! Infatti le previsioni e l’aspetto del cielo non
facevano ben sperare, alla partenza; invece me la sono cavata senza nemmeno una
gocciolina di pioggia. Non ci sono né calcoli né oracolari vaticini. Solo culo.
Dalle viuzze di Tatarsk mi sono
rituffata sull’autostrada e, dopo qualche pedalata, ho incrociato questo
cartello.
1000km anche qui. In effetti in questi giorni cade la metà esatta del
viaggio; sono partita poco più di un mese fa e ho, davanti a me, ancora poco
più di un mese on the road. Siamo intorno ai 3000km alle spalle e altrettanti
all’orizzonte.
Da qui inizia, per me, l’ignoto.
Non sono mai stata via, tantomeno in bici, tantomeno da sola, più di un mese e
briciole. Mi spaventava, prima della partenza, questo salto nel vuoto. Non
sapevo se avrei retto bene ad un periodo così lungo rispetto al solito. Lo
scorso anno, ad esempio, all’arrivo a Mosca mi sentivo stanchissima ed ero
contenta di essere finalmente arrivata. Ora, che siamo ad un simile giro di boa
(un mese, 3000km) non sono affatto provata, non mi sento “a fine corsa” né mi
spaventa l’idea di avere davanti a me ancora così tanta strada. Ciò dimostra
che la testa fa tutto. Quando si è in dirittura d’arrivo la stanchezza emerge
perché si molla un po’ il freno e ci si concede il pensiero di potersi fermare.
Capita anche nelle singole tappe. Gli ultimi 20km sono sempre i più sofferti,
soprattutto psicologicamente, perché già ci si immagina alla meta, spaparanzati
sulle piume a mangiare e bere, e invece si è ancora in sella.
Idem sul viaggio in generale. Per
ora tengo tutto, reggo, mi sento in forze e allenata e pronta. Gli ultimi
giorni lascerò che la fatica emerga e a spingermi sarà, a quel punto, l’euforia
della meta ormai vicina.
Insomma, altri 1000km sono
andati.
Steppe, boschi, strada bella,
sole sempre più caldo e qualche cantiere con operai diversamente belli sono
stati i compagni di viaggio, in un silenzio rotto solo dal grido acuto di
qualche rapace a caccia.
I cartelli che, ogni kilometro,
compaiono a contarmi i respiri, sono stati comodi per trovare l’albergo di oggi.
Infatti è talmente in mezzo al nulla, lontano da ogni paese o riferimento da
chiamarsi, semplicemente, Gostinitsa kafè 1071, come il kilometro di autostrada
presso cui sorge. E’ più o meno la solita ancora per naufraghi della strada,
dove si mangia, si beve e si può dormire; c’è il parcheggio di fango
immancabile per camion, c’è il benzinaio, c’è l’officina. C’è tutto.
Purtroppo intorno non c’è nulla,
se non boschi di betulle, tafani e fango. Per questo motivo domani tenterò di
fermarmi in città, e non nel corrispondente motel sulla strada, pur dovendo
pedalare qualche kilometro in più. Oggi ne ho approfittato per riposare.
Le stanze sono belle e pulite.
Lo
stesso ahimè non si può dire per la doccia, che sta in un bugigattolo in
cortile, che si raggiunge passando per questo giardino all’italiana.
La
struttura è presidiata da una anziana, un grosso batrace, che mangia
ininterrottamente semi di girasole, sputando in terra la buccia nera. Intorno
nuguli di mosche. 150 rubli e si accede a questo stupendo cubicolo, regno di ruggine e micosi; nemmeno a
dirlo, l’acqua sa di ulcere velenose e carogna frullata e frollata. Però è
calda.
Per chi se lo stesse chiedendo:
le docce sono in cortile perché spesso i camionisti, cioè il 99% degli
avventori (io sono l’1% rimanente) si fermano, si lavano, cenano e poi
ripartono o dormono sul camion, parcheggiati qui fuori.
La cena, se non altro, è stata
buona: pane (o pene, la forma era ambigua), insalatina russa di gamberi, maionese
e sadiocosa, insalata cetriodori e cipolle, carne di bruttosauro allo spiedo, sempre
con cipolle e salsina agrodolce. Tutto approvato.
Poi, in mancanza di gelati o
simili, ho optato per uno di quei caffettini freddi confezionati che si trovano spesso anche da noi. Peccato che quello in
cui stava non fosse un frigo ma un fornetto e la bevanda non fosse fredda ma
bollente. E fa caldissimo. Che inganno malefico.
Ho rimediato con questo succo di
agave e melograno veramente buono. I russi sanno il fatto loro in materia di
schifezze da bere… Anche analcoliche.
Domani, dunque, mi attende un’altra
tappa di steppa, ovvero una stappa. Che è anche un invito a brindare alla
bellezza dei luoghi.
Barabinsk, capitale dei tatari
camaleonte, mi aspetta. Dovrebbe anche esserci il sole, con una temperatura
record di 26 gradi. E io sono curiosa e non vedo l’ora di esplorare la strada e
le terre che ancora mi aspettano.
Vi saluto con questo incendio celeste. Perchè anche in Siberia, in questo oriente d'azzurre distanze, i tramonti sanno riaccendere l'"antica fiamma" di cui riconosco i segni, tanto per citare Didone.
Grazie per il tuo bellissimo saluto. Buon proseguimento. Sila
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