domenica 9 luglio 2017

Decima tappa. L'orso in giardino. Inshallah. Da Kazan a Katmysh





La tappa di oggi è stata di puro trasferimento verso est, in direzione Ufa, Baschiria.
Uscire da Kazan è stato piuttosto semplice: la città non è poi così caotica e trafficata, nonostante il numero di abitanti, e muoversi attraverso le strade, anche in bici e con l’incertezza degli incroci, risulta assolutamente fattibile senza troppo stress.





Qualche salita e ci si ritrova subito, di nuovo, immersi nei verdissimi campi che da tre giorni il Tatarstan mi offre come sfondo. E’ davvero rilassante questo paesaggio dolce di colline verdi e ciuffi scuri di bosco curato. Ha un che di europeo, di antropizzato, di natura sotto controllo… Ma gli spazi sono tutt’altro che simili a quelli angusti del vecchio continente. Qui davvero si può parlare di estensione “a perdita d’occhio”, con un orizzonte vastissimo che non si fa certo abbracciare ad un solo sguardo.
La Russia è grande.





Purtroppo oggi il vento non mi è stato amico e ho dovuto pedalare con folate contrarie e laterali che hanno reso la pedalata ben faticosa, anche per l’attenzione da tenere quando passano i camion: sbandare, magari in discesa, sul ghiaino, è questione di attimi.
Le variabili della strada per ora, sintetizzando, sono tre: fondo/percorso, che può esser buono e sicuro oppure esporre al rischio di cadute o incidenti coi mezzi; pioggia o sole; vento. Avere tutte e tre le incognite positive è fuori di discussione, soprattutto con la sfiga che ho io con il meteo. Due su tre è un buon compromesso; infatti oggi c’erano il sole e la strada buona, ma il vento contro. Poi, nell’ultima ora di pedalata, ho anche beccato un temporale, ma non stiamo qui a sottilizzare. Io li attiro, ho proprio l’antennina (sarà la coda di volpe?) che richiama gli acquazzoni., ormai non mi stupisco nemmeno più. Vedete, nella sequenza sotto, come si fa minaccioso e tumefatto il cielo, via via più livido? Ecco, sapete che lì, dove si adunano le nubi più nere, sto passando io.






Comunque ho pedalato pianino attraverso questa bella terra, trovando solo due grossi intoppi, entrambi dovuti a incidenti: camion ribaltato per traverso e schianto tra due auto. 





A veder queste scene un brividino lungo la schiena corre, eh. Che so bene che trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato può far la differenza tra vita e morte. Ma l’accidente avverso non si può prevedere e, più che tener altissima l’attenzione ed evitare ogni possibile rischio non è dato di fare. Il resto ognuno se lo spiega a modo suo: dio, il caso, il destino, i fati. Insomma, a prescindere dall’entità o forza cui vogliamo dar la colpa di tirar male i fili da burattino dell’esistenza, basta che non tocchi a me adesso, che avrei altri progetti per il futuro prossimo.
Il vento faceva correre in cielo le nuvole tanto da rubare o donare la luce ad ogni giro di pedale; un respiro e tutto è coperto di sole. Un battito e l’ombra è calata come un sipario sul brulichio del mondo.
Lungo i 120km di oggi ho incontrato ben pochi abitati: solo qualche villaggio agricolo e case di legno sparse. E lui. 




Altro che “col trattore in tangenziale andiamo a comandare”. Qui col carretto e il cavallo in autostrada. Capite perché mi fido a far la M7 in bicicletta?
Dopo una sosta miele sotto l’acqua battente, che tanto ormai ero già oltre il fradicio, sono arrivata alla meta di oggi: l’Hotel Malina.








Il paese più vicino è l’insipido Katmysh, che nemmeno compare sulle carte se non a zoommare di molto. Intorno, bosco.




Ma il Malina è un’altra cosa.
Si presenta così, grandioso, rosa che più rosa non si può, tra boschi e campi, dietro all’immancabile benzinaio con piazzola per camion.





Il Malina è un luogo assolutamente senza senso, o pieno di logica, a seconda dei punti di vista.
E’ un mondo a sé stante.
Offre infiniti servizi ai viaggiatori su gomma: benzinaio, officina, camere, docce, wc, sauna, salone per ricevimenti, biliardo, ping pong, centro massaggi che losco è dir poco, anzi, è dichiaratamente un bordello. 




E ancora: ristorante, bar, giochi da tavolo, luogo di culto (moschea) e  zoo. Ebbene sì. Accanto alla moschea ci sono delle gabbie, che contengono, rispettivamente: capre, capponi, galline, un coniglio, un’oca, uno scoiattolo e un orso tristissimo.










Io sono assolutamente contraria alla cattività degli animali, sia chiaro. Ne percepisco la sofferenza, li vedo come esempio lampante dello sfruttamento dei deboli da parte del violento essere umano. Mi spalancano finestre sul dolore cosmico di tutti i viventi, al pari dei fiori recisi, uccisi per il vezzo di aver cadaveri in casa. Non sono vegana né animalista attivista, ma capisco le ragioni di entrambe le categorie. In un caso del genere, poi, che tutto questo dolore serve solo a far fermare qualche auto in più, magari per soddisfare la curiosità di bambini petulanti, e nemmeno per dar da mangiare a qualcuno… Ogni cosa è ancor più ingiusta e insensata. Ma hey, questa è la Russia, qui è legale avere un orso come animale domestico.
Poco oltre non manca il baracchino con musica turcheggiante della venditrice di pesce secco, che manda un profumo buonissimo (prima che io torni, lo assaggerò. E’ una promessa).




Insomma, il Malina è un piccolo mondo che sta in piedi grazie al continuo via vai di umanità che corre lungo questa cicatrice di asfalto e che a volte si spiaccica, altre invece sopravvive a se stessa.
Uno potrebbe vivere qui, essere informato su tutto ciò che accade nel mondo, essere coltissimo… E non aver mai visto nulla al di là del perimetro della proprietà. Mi viene in mente “Novecento” di Baricco, che, senza mai scender dalla nave, aveva visto il mondo intero negli occhi dei passeggeri. Mi viene in mente l’orso triste in gabbia. Forse le signore che servono la cena, qui, e abitano nelle case qui intorno, non sono tanto diverse. Potrebbero andarsene, vien da pensare. O forse no, perché per andarsene, in questo mondo sbagliato, servono i soldi o la capacità e la fortuna di farne, e in fretta. E se ti mancano entrambe le cose, sei costretto alla gabbietta del posto di lavoro, alla schiavitù del turno, in un buco di culo che offre tutto e non dà niente. Sei vincolato ad esso da una catena invisibile (e quindi ancor più difficile da spezzare). Come i pappagallini sopra al bancomat, metafora dell'esistenza di noi tutti.



Certo, passarci in transito, da qui, è bello. Ma solo per un giorno.
Magari i nomadi, gli zingari, i tanto odiati rom o i barboni itineranti pensano la stessa cosa di noi sedentari. E se lo pensano, a mio avviso, hanno pure delle ragioni.
Passiamo a cose meno pesanti ma più sostanziose (almeno per me). La cena qui è ottima e la signora che serve al self service si è presa bene, avendomi vista arrivare in bici, e si è offerta di propormi lei delle combinazioni a suo dire ottime. E in effetti… Insalata di cetriolini, cipolle e pomodori, che è il contorno internazionale a est dell’Italia, dai Balcani alla Grecia, dalla Turchia alle Russie, Insalatina di zucchine, prosciutto, formaggio, piselli e un zic di maionese. Pesce grasso del Volga, pescato fresco, impanato e servito con insalata di riso calda. Pane. Smetana. Io ci ho aggiunto, visto che son giorni di kilometroni e vento contrario, un gelato alla pina colada che te dico fermate, troppo buono.




Ora sono in stanza e la luna enorme si è alzata su questa fettina di cosmo, triste e bella come tutte le altre.



E’ straniante essere in Russia, così a nord e così a est, e trovare le moschee e scritte come questa (Inshallah) all’ingresso del ristorante. 





E’ bene così. Questo è per me il senso del viaggiare. Trovare il diverso, l’altro, lo sconosciuto.
Che poi vada tutto bene è la famosa roulette russa…
O il “Rulet” (Rotolo) che salva da ogni male, che non sono le scritture del tempio nè la carta igienica, ma questo coso qui








2 commenti:

  1. Fantastico. Mi spiace per quegli animali, il resoconto diventa sempre più surreale: questo hotel astronave che viaggia nel tempo, restando fermo.
    Quando torni vogliamo assaggiare il Rulet!

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