La tappa di oggi è stata di puro
trasferimento verso est, in direzione Ufa, Baschiria.
Uscire da Kazan è stato piuttosto
semplice: la città non è poi così caotica e trafficata, nonostante il numero di
abitanti, e muoversi attraverso le strade, anche in bici e con l’incertezza
degli incroci, risulta assolutamente fattibile senza troppo stress.
Qualche salita e ci si ritrova
subito, di nuovo, immersi nei verdissimi campi che da tre giorni il Tatarstan
mi offre come sfondo. E’ davvero rilassante questo paesaggio dolce di colline
verdi e ciuffi scuri di bosco curato. Ha un che di europeo, di antropizzato, di
natura sotto controllo… Ma gli spazi sono tutt’altro che simili a quelli
angusti del vecchio continente. Qui davvero si può parlare di estensione “a
perdita d’occhio”, con un orizzonte vastissimo che non si fa certo abbracciare
ad un solo sguardo.
La Russia è grande.
Purtroppo oggi il vento non mi è
stato amico e ho dovuto pedalare con folate contrarie e laterali che hanno reso
la pedalata ben faticosa, anche per l’attenzione da tenere quando passano i
camion: sbandare, magari in discesa, sul ghiaino, è questione di attimi.
Le variabili della strada per
ora, sintetizzando, sono tre: fondo/percorso, che può esser buono e sicuro
oppure esporre al rischio di cadute o incidenti coi mezzi; pioggia o sole;
vento. Avere tutte e tre le incognite positive è fuori di discussione,
soprattutto con la sfiga che ho io con il meteo. Due su tre è un buon
compromesso; infatti oggi c’erano il sole e la strada buona, ma il vento contro.
Poi, nell’ultima ora di pedalata, ho anche beccato un temporale, ma non stiamo
qui a sottilizzare. Io li attiro, ho proprio l’antennina (sarà la coda di
volpe?) che richiama gli acquazzoni., ormai non mi stupisco nemmeno più. Vedete, nella sequenza sotto,
come si fa minaccioso e tumefatto il cielo, via via più livido? Ecco, sapete
che lì, dove si adunano le nubi più nere, sto passando io.
Comunque ho pedalato pianino
attraverso questa bella terra, trovando solo due grossi intoppi, entrambi
dovuti a incidenti: camion ribaltato per traverso e schianto tra due auto.
A
veder queste scene un brividino lungo la schiena corre, eh. Che so bene che
trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato può far la differenza tra
vita e morte. Ma l’accidente avverso non si può prevedere e, più che tener
altissima l’attenzione ed evitare ogni possibile rischio non è dato di fare. Il
resto ognuno se lo spiega a modo suo: dio, il caso, il destino, i fati.
Insomma, a prescindere dall’entità o forza cui vogliamo dar la colpa di tirar
male i fili da burattino dell’esistenza, basta che non tocchi a me adesso, che
avrei altri progetti per il futuro prossimo.
Il vento faceva correre in cielo
le nuvole tanto da rubare o donare la luce ad ogni giro di pedale; un respiro e
tutto è coperto di sole. Un battito e l’ombra è calata come un sipario sul
brulichio del mondo.
Lungo i 120km di oggi ho
incontrato ben pochi abitati: solo qualche villaggio agricolo e case di legno
sparse. E lui.
Altro che “col trattore in tangenziale andiamo a comandare”. Qui
col carretto e il cavallo in autostrada. Capite perché mi fido a far la M7 in
bicicletta?
Dopo una sosta miele sotto
l’acqua battente, che tanto ormai ero già oltre il fradicio, sono arrivata alla
meta di oggi: l’Hotel Malina.
Il paese più vicino è l’insipido
Katmysh, che nemmeno compare sulle carte se non a zoommare di molto. Intorno, bosco.
Ma il
Malina è un’altra cosa.
Si presenta così, grandioso, rosa
che più rosa non si può, tra boschi e campi, dietro all’immancabile benzinaio
con piazzola per camion.
Il Malina è un luogo assolutamente
senza senso, o pieno di logica, a seconda dei punti di vista.
E’ un mondo a sé stante.
Offre infiniti servizi ai
viaggiatori su gomma: benzinaio, officina, camere, docce, wc, sauna, salone per
ricevimenti, biliardo, ping pong, centro massaggi che losco è dir poco, anzi, è
dichiaratamente un bordello.
E ancora: ristorante, bar, giochi da tavolo, luogo
di culto (moschea) e zoo. Ebbene sì.
Accanto alla moschea ci sono delle gabbie, che contengono, rispettivamente:
capre, capponi, galline, un coniglio, un’oca, uno scoiattolo e un orso
tristissimo.
Io sono assolutamente contraria alla cattività degli animali, sia
chiaro. Ne percepisco la sofferenza, li vedo come esempio lampante dello
sfruttamento dei deboli da parte del violento essere umano. Mi spalancano
finestre sul dolore cosmico di tutti i viventi, al pari dei fiori recisi,
uccisi per il vezzo di aver cadaveri in casa. Non sono vegana né animalista
attivista, ma capisco le ragioni di entrambe le categorie. In un caso del
genere, poi, che tutto questo dolore serve solo a far fermare qualche auto in
più, magari per soddisfare la curiosità di bambini petulanti, e nemmeno per dar
da mangiare a qualcuno… Ogni cosa è ancor più ingiusta e insensata. Ma hey,
questa è la Russia, qui è legale avere un orso come animale domestico.
Poco oltre non manca il
baracchino con musica turcheggiante della venditrice di pesce secco, che manda
un profumo buonissimo (prima che io torni, lo assaggerò. E’ una promessa).
Insomma, il Malina è un piccolo
mondo che sta in piedi grazie al continuo via vai di umanità che corre lungo
questa cicatrice di asfalto e che a volte si spiaccica, altre invece sopravvive
a se stessa.
Uno potrebbe vivere qui, essere
informato su tutto ciò che accade nel mondo, essere coltissimo… E non aver mai
visto nulla al di là del perimetro della proprietà. Mi viene in mente
“Novecento” di Baricco, che, senza mai scender dalla nave, aveva visto il mondo
intero negli occhi dei passeggeri. Mi viene in mente l’orso triste in gabbia.
Forse le signore che servono la cena, qui, e abitano nelle case qui intorno,
non sono tanto diverse. Potrebbero andarsene, vien da pensare. O forse no,
perché per andarsene, in questo mondo sbagliato, servono i soldi o la capacità e la fortuna di farne, e in fretta. E se ti mancano entrambe le cose, sei costretto alla
gabbietta del posto di lavoro, alla schiavitù del turno, in un buco di culo che
offre tutto e non dà niente. Sei vincolato ad esso da una catena invisibile
(e quindi ancor più difficile da spezzare). Come i pappagallini sopra al
bancomat, metafora dell'esistenza di noi tutti.
Certo, passarci in transito, da
qui, è bello. Ma solo per un giorno.
Magari i nomadi, gli zingari, i
tanto odiati rom o i barboni itineranti pensano la stessa cosa di noi
sedentari. E se lo pensano, a mio avviso, hanno pure delle ragioni.
Passiamo a cose meno pesanti ma
più sostanziose (almeno per me). La cena qui è ottima e la signora che serve al
self service si è presa bene, avendomi vista arrivare in bici, e si è offerta
di propormi lei delle combinazioni a suo dire ottime. E in effetti… Insalata di
cetriolini, cipolle e pomodori, che è il contorno internazionale a est
dell’Italia, dai Balcani alla Grecia, dalla Turchia alle Russie, Insalatina di
zucchine, prosciutto, formaggio, piselli e un zic di maionese. Pesce grasso del
Volga, pescato fresco, impanato e servito con insalata di riso calda. Pane.
Smetana. Io ci ho aggiunto, visto che son giorni di kilometroni e vento
contrario, un gelato alla pina colada che te dico fermate, troppo buono.
Ora sono in stanza e la luna
enorme si è alzata su questa fettina di cosmo, triste e bella come tutte le
altre.
E’ straniante essere in Russia, così a nord e così a est, e trovare le
moschee e scritte come questa (Inshallah) all’ingresso del ristorante.
E’ bene
così. Questo è per me il senso del viaggiare. Trovare il diverso, l’altro, lo
sconosciuto.
Che poi vada tutto bene è la
famosa roulette russa…
O il “Rulet” (Rotolo) che salva
da ogni male, che non sono le scritture del tempio nè la carta igienica, ma questo coso qui
vai volpe.......
RispondiElimina;-)
Fantastico. Mi spiace per quegli animali, il resoconto diventa sempre più surreale: questo hotel astronave che viaggia nel tempo, restando fermo.
RispondiEliminaQuando torni vogliamo assaggiare il Rulet!