C’è qualcosa di labirintico e
indistricabile nella gestione dei tempi e degli spazi, qui in Baschiria.
Un po’ è per il fuso che fa
saltare avanti di due ore nette, che non son poche, e sbalestra tutti i ritmi,
dalla fame al sonno. E meno male sto viaggiando lentamente. Un po’ è per gli
spazi, aperti sì, ma di strade dalla forma assurda, che fanno giri immensi e
deviazioni inspiegabili quando basterebbe stendersi da qui a lì. Un po’ è per i
volti che si vedono in giro, a metà tra il turco e lo slavo, tra il russo e il
cinese, tra una lince e un orso. Ci sono chimere strane, qui.
Fatto sta che pure oggi la
giornata è stata lunga e piena di piccole avventure, tutte a lieto fine.
Mi sono alzata abbastanza tardi e
vestita di una stanchezza ancora pesante per la fatica di ieri. Con calma ho
richiuso le borse, che ormai è diventata un’abitudine quotidiana e non pesa più
come i primi giorni e ho fatto colazione. Doppia insalata, doppio caffè,
palacinka con patate e formaggio e pane (con su la muffa verdissima, ma me ne
sono accorta dopo averlo già quasi finito. Son tutte fibre, no?).
Al che ho
fatto un breve giro nel paese di Verkhneyarkeyevo, che è fango e cemento e legno.
Ci
sono un monumento ai soldati della guerra in Afghanistan, dove troppi sono
morti come mosche,
e questo museo dedicato ad un aviatore locale, con tanto di
mezzo esposto nel parco accanto.
Poi via, sperando che il
ginocchio sifulo non facesse scherzi. Per scrupolo, prima di buttarmi sulla M7,
ho fatto alcune pedalate di prova nel parcheggio davanti al motel. La signora
del bar, a cui, tra ieri e stamattina, ho raccontato alla più o meno del mio
viaggio, mi ha chiesto cosa stessi facendo; le ho spiegato che avevo un po’ di
problemi alla noga, alla zampa, e lei, senza pensarci due volte, mi ha fatto
segno di buttarmi sulla sua scassatissima Lada che per un pezzo doveva andare
nella mia stessa direzione. Come rifiutare? Ho rismontato le borse e le ruote
della Signora e siamo salite tutte e tre su quel mezzo che più sovietico non si
può. Una benedizione. Il primo tratto di strada era veramente orribile:
stretto, trafficato soprattutto con camion e, per di più, con l’asfalto tutto
grattato via; quella è una delle cose per me più fastidiose: si creano dei
solchi in cui la ruota si infila e fa l’effetto del binario del tram.
“Deragliare” è inevitabile. Se poi ciò accade in salita, con i tir che ti fanno
la fettina di prosciutto, non è proprio il massimo. Per cui grazie signora del
bar di cui non ho capito il nome anche se ho fatto finta di sì. In realtà il
passaggio è stato breve, nemmeno una decina di kilometri, ma è bastato per
portarmi fuori dai punti più pericolosi del tragitto. Infatti, qualche
saliscendi più in là, la strada si è fatta di nuovo buona e amica, sempre
stretta ma asfaltata di fresco, con un po’ di bordo e meno traffico pesante.
Oggi ho attraversato alcuni
anonimi paesini agricoli, manciate di case in legno e izbe isolate, e
moltissimi campi e boschi di bellezza stesa.
Questi paesaggi così immensi e
spalancati mi danno un senso profondo di calma, di pace. C’è chi, di fronte a
questo sconfinare di orizzonti, potrebbe sentirsi perso, piccolo e indifeso.
Impaurito magari. Io invece sento la calma delle radici, i giri larghi che
compiono il pianeta nostro che chiamiamo terra ed è tutta acqua, come noi, le
stagioni e le nuvole. In questi spazi estesi oltre il comprensibile ogni nostro
piccolo affanno diventa qualcosa di ridicolo, di invisibile, di accessorio. E’
come se qui riuscissi a vedermi da fuori, a vedere tutto dall’esterno e capire
quanto, in questo assoluto che è un tutto di luce e vento e linfa e cuoricini
di animali, noi siamo relativi e transitori, persino inessenziali. Ogni cosa lo
è, ma noi per primi. Saperlo solleva da tante inutili tragediucole, dai molti
inferni privati che ci costruiamo intorno con la carta stagnola e le paranoie.
Siamo su una giostra grande e tremenda, deinòs, che nemmeno sa della nostra
presenza.
Qui si respira.
Una cosa, oltre alla bellezza, mi
ha colpito dei paesaggi. I numerosissimi pozzi estrattivi, con tanto di pompe che
beccheggiano su e giù a cavar dalle viscere della terra il gas e il petrolio.
Ce ne sono centinaia, in mezzo ai campi, a bordo strada e nei boschi. S’è detto
che questa zona è una delle più ricche per materie prime e industria
estrattiva… Ecco qui le prove.
Con una calma profonda sono
arrivata pian piano a destinazione, o almeno, così credevo. Oggi mi sarei
dovuta fermare nella ridente Kushnarenkovo, paesotto sul fiume Belaja (che
bagna anche Ufa), noto per esser stato culla di una civiltà particolare dell’età
del ferro. Siamo tra VI e VIII secolo; gli archeologi hanno trovato numerose
tombe a tumulo, con i corpi sepolti prima tutti verso nord, poi, più tardi,
tutti verso ovest, nella direzione del tramonto. Molti crani presentano
deformazioni artificiali, allungati e schiacciati, come se fosse un segno
distintivo di quella popolazione (quale? Antichi magiari, i nonni degli
ungheresi, o antichi baschiri, non si sa). Sono poi stati rinvenuti gioielli,
ceramiche, armi e ornamenti per cavalli, tutto finemente decorato. Sempre a
Kushnarenkovo, fino al 1941, è stata attiva la Scuola internazionale Lenin,
sotto il nome in codice di “Istituto agrario” che formava ubbidienti e
affidabili bolscevichi da disseminare poi in tutto il mondo. Seguirono l’anno
di corso intensivo, a base di marxismo, storia dell’economia, russo e ideologia
servita con il pane studenti di oltre 60 nazioni; le lezioni, oltre che in
russo, si tenevano i inglese, francese e tedesco. Tutto, ovviamente, avveniva
in gran segreto.
A Kushnarenkovo speravo mi
attendesse a braccia aperte l’Hotel Topornino, che è una cosa a metà tra Mickey
Mouse e un film a luci rosse. Se cercate su Google maps lo vedete, lì, bello
come il sole. Peccato che, dopo aver attraversato il cuore del paese sono arrivata all’indirizzo e non
c’era nulla.
Ho chiesto informazioni in
farmacia, lì vicino, e mi han detto che in paese non ci sono hotel. Ma che
bello.
Per fortuna Google me ne indicava
uno a circa 5km da lì, sulla strada verso Ufa, quindi sulla traccia di domani.
Il Dobryy Den, che vuol dire Buongiorno. Ma buongiorno un cazzo!
Nel quarto d’ora impiegato a
raggiungerlo sono anche riuscita a prendere in pieno un acquazzone, una
malefica nuvola di Fantozzi in un cielo del tutto sgombero. Però il Dobryy Den
c’era davvero, così, solitario nel nulla, e mi ci son tuffata.
E’ il solito motel da camionisti,
con il parcheggio, il ristorante e le stanze. Per nulla brutto, anzi.
Nemmeno qui c’è la wifi e pure la
connessione del telefono è intermittente, ma saran mica questi i problemi. In
compenso con 3 euro ti puoi scofanare: un pesce intero della Belaja, impanato
con pelle e lische perché qui si mangia tutto, accompagnato da purè edile
antisismico della Fassa Bortolo. Un’insalata pomodoro cetrioli e cipolla. Un’insalatina buonissima
con panna e carne affumicata e mais. Crostini a go go. Frutta, che qui è rara,
introvabile, e preziosissima. Insomma, un paradiso terrestre.
Nel fare un giretto dopocena ho
anche incontrato questo ferocissimo cane da guardia e questi paesaggi qui.
La
luce che vedete è delle 21.30 locali. “Le terre che sanno di te/ le ho volute
coperte di sole”. E tutto è pace, qui sul seno della Baschiria che respira piano.
Un hotel con un nome cosiì figo non poteva esistere davvero.
RispondiEliminasei mitica vai avanti così solo tu puoi fare queste avventure ti auguro 1 buona notte riposa un abbraccio <3
RispondiEliminaNonostante la fatica, i vari e seri problemi che ti trovi a risolvere...Con quanta tenerezza hai chiuso il tuo racconto! Sila
RispondiEliminaRita 30km/h di media �� in 3h di movimento???������
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