mercoledì 12 luglio 2017

Tredicesima tappa. La giostra dell'inessenziale e il Topornino che non c'è. Da Verkhneyarkeevo a Kushnarenkovo





C’è qualcosa di labirintico e indistricabile nella gestione dei tempi e degli spazi, qui in Baschiria.
Un po’ è per il fuso che fa saltare avanti di due ore nette, che non son poche, e sbalestra tutti i ritmi, dalla fame al sonno. E meno male sto viaggiando lentamente. Un po’ è per gli spazi, aperti sì, ma di strade dalla forma assurda, che fanno giri immensi e deviazioni inspiegabili quando basterebbe stendersi da qui a lì. Un po’ è per i volti che si vedono in giro, a metà tra il turco e lo slavo, tra il russo e il cinese, tra una lince e un orso. Ci sono chimere strane, qui.
Fatto sta che pure oggi la giornata è stata lunga e piena di piccole avventure, tutte a lieto fine.
Mi sono alzata abbastanza tardi e vestita di una stanchezza ancora pesante per la fatica di ieri. Con calma ho richiuso le borse, che ormai è diventata un’abitudine quotidiana e non pesa più come i primi giorni e ho fatto colazione. Doppia insalata, doppio caffè, palacinka con patate e formaggio e pane (con su la muffa verdissima, ma me ne sono accorta dopo averlo già quasi finito. Son tutte fibre, no?). 



Al che ho fatto un breve giro nel paese di Verkhneyarkeyevo, che è fango e cemento e legno. 





Ci sono un monumento ai soldati della guerra in Afghanistan, dove troppi sono morti come mosche, 



e questo museo dedicato ad un aviatore locale, con tanto di mezzo esposto nel parco accanto. 




Poi via, sperando che il ginocchio sifulo non facesse scherzi. Per scrupolo, prima di buttarmi sulla M7, ho fatto alcune pedalate di prova nel parcheggio davanti al motel. La signora del bar, a cui, tra ieri e stamattina, ho raccontato alla più o meno del mio viaggio, mi ha chiesto cosa stessi facendo; le ho spiegato che avevo un po’ di problemi alla noga, alla zampa, e lei, senza pensarci due volte, mi ha fatto segno di buttarmi sulla sua scassatissima Lada che per un pezzo doveva andare nella mia stessa direzione. Come rifiutare? Ho rismontato le borse e le ruote della Signora e siamo salite tutte e tre su quel mezzo che più sovietico non si può. Una benedizione. Il primo tratto di strada era veramente orribile: stretto, trafficato soprattutto con camion e, per di più, con l’asfalto tutto grattato via; quella è una delle cose per me più fastidiose: si creano dei solchi in cui la ruota si infila e fa l’effetto del binario del tram. “Deragliare” è inevitabile. Se poi ciò accade in salita, con i tir che ti fanno la fettina di prosciutto, non è proprio il massimo. Per cui grazie signora del bar di cui non ho capito il nome anche se ho fatto finta di sì. In realtà il passaggio è stato breve, nemmeno una decina di kilometri, ma è bastato per portarmi fuori dai punti più pericolosi del tragitto. Infatti, qualche saliscendi più in là, la strada si è fatta di nuovo buona e amica, sempre stretta ma asfaltata di fresco, con un po’ di bordo e meno traffico pesante.
Oggi ho attraversato alcuni anonimi paesini agricoli, manciate di case in legno e izbe isolate, e moltissimi campi e boschi di bellezza stesa.






Questi paesaggi così immensi e spalancati mi danno un senso profondo di calma, di pace. C’è chi, di fronte a questo sconfinare di orizzonti, potrebbe sentirsi perso, piccolo e indifeso. Impaurito magari. Io invece sento la calma delle radici, i giri larghi che compiono il pianeta nostro che chiamiamo terra ed è tutta acqua, come noi, le stagioni e le nuvole. In questi spazi estesi oltre il comprensibile ogni nostro piccolo affanno diventa qualcosa di ridicolo, di invisibile, di accessorio. E’ come se qui riuscissi a vedermi da fuori, a vedere tutto dall’esterno e capire quanto, in questo assoluto che è un tutto di luce e vento e linfa e cuoricini di animali, noi siamo relativi e transitori, persino inessenziali. Ogni cosa lo è, ma noi per primi. Saperlo solleva da tante inutili tragediucole, dai molti inferni privati che ci costruiamo intorno con la carta stagnola e le paranoie. Siamo su una giostra grande e tremenda, deinòs, che nemmeno sa della nostra presenza.
Qui si respira.




Una cosa, oltre alla bellezza, mi ha colpito dei paesaggi. I numerosissimi pozzi estrattivi, con tanto di pompe che beccheggiano su e giù a cavar dalle viscere della terra il gas e il petrolio. Ce ne sono centinaia, in mezzo ai campi, a bordo strada e nei boschi. S’è detto che questa zona è una delle più ricche per materie prime e industria estrattiva… Ecco qui le prove.




Con una calma profonda sono arrivata pian piano a destinazione, o almeno, così credevo. Oggi mi sarei dovuta fermare nella ridente Kushnarenkovo, paesotto sul fiume Belaja (che bagna anche Ufa), noto per esser stato culla di una civiltà particolare dell’età del ferro. Siamo tra VI e VIII secolo; gli archeologi hanno trovato numerose tombe a tumulo, con i corpi sepolti prima tutti verso nord, poi, più tardi, tutti verso ovest, nella direzione del tramonto. Molti crani presentano deformazioni artificiali, allungati e schiacciati, come se fosse un segno distintivo di quella popolazione (quale? Antichi magiari, i nonni degli ungheresi, o antichi baschiri, non si sa). Sono poi stati rinvenuti gioielli, ceramiche, armi e ornamenti per cavalli, tutto finemente decorato. Sempre a Kushnarenkovo, fino al 1941, è stata attiva la Scuola internazionale Lenin, sotto il nome in codice di “Istituto agrario” che formava ubbidienti e affidabili bolscevichi da disseminare poi in tutto il mondo. Seguirono l’anno di corso intensivo, a base di marxismo, storia dell’economia, russo e ideologia servita con il pane studenti di oltre 60 nazioni; le lezioni, oltre che in russo, si tenevano i inglese, francese e tedesco. Tutto, ovviamente, avveniva in gran segreto.
A Kushnarenkovo speravo mi attendesse a braccia aperte l’Hotel Topornino, che è una cosa a metà tra Mickey Mouse e un film a luci rosse. Se cercate su Google maps lo vedete, lì, bello come il sole. Peccato che, dopo aver attraversato il cuore del paese sono arrivata all’indirizzo e non c’era nulla.






Ho chiesto informazioni in farmacia, lì vicino, e mi han detto che in paese non ci sono hotel. Ma che bello.
Per fortuna Google me ne indicava uno a circa 5km da lì, sulla strada verso Ufa, quindi sulla traccia di domani. Il Dobryy Den, che vuol dire Buongiorno. Ma buongiorno un cazzo!
Nel quarto d’ora impiegato a raggiungerlo sono anche riuscita a prendere in pieno un acquazzone, una malefica nuvola di Fantozzi in un cielo del tutto sgombero. Però il Dobryy Den c’era davvero, così, solitario nel nulla, e mi ci son tuffata.




E’ il solito motel da camionisti, con il parcheggio, il ristorante e le stanze. Per nulla brutto, anzi.





Nemmeno qui c’è la wifi e pure la connessione del telefono è intermittente, ma saran mica questi i problemi. In compenso con 3 euro ti puoi scofanare: un pesce intero della Belaja, impanato con pelle e lische perché qui si mangia tutto, accompagnato da purè edile antisismico della Fassa Bortolo. Un’insalata pomodoro cetrioli e cipolla. Un’insalatina buonissima con panna e carne affumicata e mais. Crostini a go go. Frutta, che qui è rara, introvabile, e preziosissima. Insomma, un paradiso terrestre.



Nel fare un giretto dopocena ho anche incontrato questo ferocissimo cane da guardia e questi paesaggi qui.






La luce che vedete è delle 21.30 locali. “Le terre che sanno di te/ le ho volute coperte di sole”. E tutto è pace, qui sul seno della Baschiria che respira piano.








4 commenti:

  1. Un hotel con un nome cosiì figo non poteva esistere davvero.

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  2. sei mitica vai avanti così solo tu puoi fare queste avventure ti auguro 1 buona notte riposa un abbraccio <3

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  3. Nonostante la fatica, i vari e seri problemi che ti trovi a risolvere...Con quanta tenerezza hai chiuso il tuo racconto! Sila

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  4. Rita 30km/h di media �� in 3h di movimento???������

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