Arrivederci Omsk e basso, estremo
occidente della Siberia. E’ ora di girare la barra del timone a nordest, verso
il cuore di questa immensa piana spazzata dai venti, sotto un cielo che non si
cura di ciò che accade qua sotto, né mai lo ha fatto.
Anche l’oblast di Omsk è ormai
alle spalle. Ora sono nella regione di Novosibirsk, in cui entrerò tra qualche
giorno. E’ la costola di cemento e finestre, di motori e ingranaggi della
Siberia. Sono saltata avanti di un’ora ancora e adesso qui sono le 10 di sera e
ancora tarda il crepuscolo e la luce ormai bassissima colora di rame i profili
e le ombre della strada.
Ora mi trovo a Tatarsk.
Arrivare qui è stato bello,
piacevole, semplice, sotto ad un sole caldissimo che mi ha fatta diventare
davvero rossa come una volpe rossa e un azzurro di luce infinita. Il vento,
persino il vento, quasi a favore, al più laterale. Potesse essere sempre così,
con la natura tutta dalla propria parte, e l’opera umana anche, le strade belle
e appena rifatte, il traffico quasi inesistente. Un bar quando inizi ad aver
sete e hai finito l’acqua, l’ostello quando non hai più troppa voglia di
pedalare, per quel giorno. Tutto perfetto. 100km di puro godimento di ogni
singolo respiro, ad ogni giro di pedale, e la fatica nemmeno si affaccia alla porta
del cuore.
Sono partita con l’ormai solita,
guadagnata calma di chi non ha nulla da dover dimostrare, di chi vive libero
dalla morsa degli appuntamenti e delle scadenze e non è mai né in ritardo né in
anticipo, ma sempre nel momento giusto, che dura dall’alba al tramonto. Vivo
nel kairòs, nell’attimo fuggente che colgo e diventa mio per sempre. Colazione
solita con aggiunta di meringhette alla vaniglia che qui vanno alla grande e
via verso l’orizzonte.
Oggi mi sono dovuta rituffare sulla superstrada, che qui
però è piccina, ha due corsie e un bordino per volpi, corre tra boschi e campi
e pare una provinciale poco battuta. Meglio così, molto meglio.
Nei primi 50km ho incontrato solo
lui, il pastore errante per l’Asia. Essendo giorno si limitava a fissare i suoi
animali e non poneva alcuna domanda alla silenziosa luna; i dubbi calano al
crepuscolo insieme alle ombre.
Il resto, strada.
Alla metà esatta della tappa sono
entrata nell’oblast di Novosibirsk. Da mezzogiorno è diventata l’una di pochi
secondi; mi ha colpito lo stemma della regione.
Due zibellini iracondi e con la lingua di fuori che sostengono un
karavai (pane, usato nei matrimoni e simbolo di ospitalità), su sfondo bianco,
e azzurro, in piedi su una linea nera. E’ la rivisitazione dello stemma zarista
per il governatorato di Siberia; in quel caso gli zibellini sostenevano una
corona (lo zar), un arco e due frecce (armi tradizionali delle popolazioni
locali). L’azzurro rappresenta il fiume Ob, mentre la linea nera la
Transiberiana, che attraversa l’oblast da parte a parte.
Anche la seconda metà della tappa
è stata un tuffo tra campi e boschi; mi hanno colpita le ampie distese
gialloverdi dei girasoli: l’avreste mai detto, in Siberia?
E il numero più ampio di boschi,
che rubano spazio alla steppa e alle colture (nelle fto sotto, con una mandria in transito)
Questa regione è letteralmente ricoperta di alberi; infatti
la grossa parte dell’economia non è legata né all’agricoltura né all’industria,
nonostante l’ampio numero di fabbriche e pure di giacimenti, ma, eccezione in
Russia, al terziario. Sarà per questo che è l’oblast che vanta il maggior
numero di drogati, il maggior numero di alconauti e il maggior numero di
suicidi? Leggevo che tra le cause di morte non naturale si situano al primo
posto i suicidi, al secondo il coma etilico finito male, al terzo gli incidenti
stradali e al quarto la morte violenta per omicidio. La gente è felice da
queste parti. Sarà per i salari ridicoli in questa oscena società dove il
denaro compra tutto e vale più della vita.
Per fortuna questo discorso non
vale per tutta la regione nel suo insieme.
Qui dove sono, ad esempio, quasi
il 50% della popolazione è impegnato nel primario; si coltivano e lavorano i
cereali, ci sono le spighe e i panifici, ci sono allevamenti e industrie
casearie, ci sono i girasoli, la colza e i frantoi.
Poco prima di entrare in città mi
sono fermata in questa isola di naufraghi della strada. Ci sono il bar-ristorante,
il cesso e la chiesa. Insomma, quasi tutto.
Era in atto un litigio tra grosso
camionista e ancor più grosse cuoche in grembiule, che brandivano un pentolone
gigante pieno di purè cementizio Fassa-Bortolo. La materia del contendere era
proprio la qualità del piurè antisismico. Il camionista se ne è andato sconfitto dalla
pervicacia delle cuoche, che sostenevano fosse buonissimo, appena fatto con le
loro manine. Manine che è meglio non provocare, avrà pensato l’infelice
avventore. Io me ne sono andata zitta zitta con questo tè ai frutti di bosco
che è la fine del mondo, soprattutto se fa caldo, tutto è polvere e la bottiglia è
uscito dritta dritta dal frigorifero.
Al che ho lasciato l’arteria
principale per entrare in Tatarsk, attraversando campi coltivati e distese
incolte di cespugli e canne. Questa è la skyline del paese e la sua periferia.
Prima di entrarci si incontra il
vecchio insediamento di Tatarka, il primo villaggio settecentesco da cui la
città, ben più recente, ha preso il nome. Mi pare superfluo specificare chi
fossero i primi abitanti di queste fertili pianure, così presenti nei toponimi
tutt’oggi.
Tatarsk è una di quelle città
nate in concomitanza, anzi, proprio in funzione, della ferrovia transiberiana; è
il 1894. Iniziano anche qui i lavori per la posa dei binari e la costruzione di
una stazione.
Arrivano operai, commercianti, immigrati in cerca di lavoro. L’insediamento
si espande e diventa nodo di transito per i fiumi umani che da sempre qui si
spostano da est a ovest, da nord a sud e viceversa. Sorgono un ambulatorio
medico, due caserme, una chiesa e una taverna; nel 1900 un’altra chiesa, e lo
zar decreta che quella debba essere considerata comunità stabile (ma non ancora
città).
Con le riforme agrarie di Stolypin vengono deportate qui centinaia di
contadini, cui viene assegnato un lotto di terra di cui occuparsi e con cui
campare e che, da quel momento, devono chiamare casa.
Nel primo decennio del
secolo scorso la città cresce. I quasi 5000 abitanti chiedono, con una
petizione all’imperatore, che quell’insediamento venga considerato città e
quindi fornito di tutti i servizi necessari: acqua, polizia, assistenza
sanitaria, sedi per i commercianti, per le compagnie assicurative, banche. Nel
1911 nasce ufficialmente la città, con il suo sindaco e tutto l’apparato. Tra
1912 e 1914 si costruiscono nuove strade, e l’economia corre sul bitume e sulle
rotaie e gira tra le pale dei mulini: si producono tonnellate di burro, olio,
farina e pane, ma anche legname e mattoni, che vengono esportati in tutte le
Russie grazie alla tenacia di alcuni abili imprenditori che fanno qui la loro
fortuna. Aprono ancora nuovi negozi e ristoranti, veri e propri centri
commerciali di inizio secolo, compaiono perfino due automobili, mostri lenti di
ferraglia che atterriscono i contadini della zona.
Ma siamo alle porte della
rivoluzione e della guerra civile. Nel ’17, fin da subito, contadini, soldati e
operai si schierano con i bolscevichi, ma la città viene conquistata dai
bianchi e passa sotto al controllo del governo di Kolchak. Dura poco, però. Nel
’19 l’Armata rossa riprende Tatarsk, la riperde e la riconquista. I morti, i
fucilati e coloro che sono fuggiti tra i boschi e la neve, trovando morte nell’abbraccio
gelido di quel bianco infinito, nemmeno si contano.
Dopo una manciata d’anni di pace,
in cui fioriscono aziende agricole, fattorie e industrie, ritorna la guerra e
ritornano i morti. Tantissimi, tutti gli uomini quasi. Spediti su fronti
lontani a combattere una guerra non loro e mai tornati, ora nomi neri sul
marmo.
Ora la città è un quieto borgo
rurale. Ci sono i palazzoni orrendi, il realismo socialista, le strade piene di
polvere o fango a seconda degli umori del cielo e le casette in legno dalle
belle finestre
la scuola con il mulino e le sculture fatte con i copertoni
la piazza principale
gli amministratori locali, dall'aria truce e vagamente alcolica
i cartelli "Io amo Tatarsk!"
i tubi del gas
il cartello comunale in cui ci si vanta dei supermercati
il comando di polizia
i marciapiedi fiume
altri tubi del gas
Sono ospire, stasera, del Complex
Neptun, un prefabbricato in lamiera grande come un palazzo, dove ho faticato a
prendere alloggia per l’assoluta disorganizzazione della proprietà.
Sta da un’altra
parte rispetto alle indicazioni che si trovano su internet. La reception apre e
chiude a orari imperscrutabili e trovare qualcuno da cui farsi accogliere è
questione di pura fortuna. A chiamare il numero indicato, risponde una ragazza
che, alla prima parola in inglese o in russo mal pronunciato, chiude la
telefonata con un lapidario “Non capisco”. Diciamola tutta, entrare al Neptun è
stato faticoso. Almeno quanto farsi i tre piani di scale quasi a pioli tanto
son ripide con armi e bagagli.
Ma la stanza è bella, grande, tutta mia, con la
doccia e l’acqua calda, il bollitore, il frigo, la wifi. E costa 7 euro. Ho
speso il doppio nel far la spesa per stasera e domattina… Praticamente mi costa
più mangiare che soggiornare in hotel.
Unico problema, oltre al water microscopico e bassissimo che costringe a fare squat non richiesti, è l’acqua.
Da quando sono in Russia,
ovviamente, bevo solo quella in bottiglia. In tutta la Federazione è molto
inquinata e anche infestata di batteri e microrganismi cattivissimi che
derivano da marciume e feci e fogna e provocano diarree nilotiche.
Ma qui l’acqua del rubinetto puzza
proprio. Sa di zolfo, uova marce e discarica, tutto insieme. Non vi dico farsi
la doccia nel gabbiotto chiuso in cui l’aria non circola e si levano tutti i
vapori. Sembra di rovesciarsi in testa un secchio dell’umido dimenticato per
qualche settimana al sole.
Ah, Russia, Russia, magari
inquinare meno e gestire meglio i rifiuti, magari fare la differenziata e non buttare
tutto in campi recintati dove si creano montagne di spazzatura, magari
controllare emissioni e scarichi delle industrie e delle auto… Magari
rispettare l’ambiente un pochino di più ti eviterebbe di avvelenarti con le tue
stesse mani.
Ora, nel locale qui accanto, in foto a destra,
è in
corso un matrimonio (fin da quando sono arrivata; si noti l'auto degli sposi con le fedi e i cuori sul tetto).
Musica che spazia da Volare
al neomelodico russo, da Albano al Gangam Style. Ogni tanto il volume viene
abbassato e qualcuno prende il microfono e inizia a incitare: “Vod-ka! Vod-ka!
Vod-ka!”. Poi è venuto il momento dei fuochi d’artificio artigianali sulla
strada, e da lì si è passati ai colpi di pistola in aria. Gatto nero, gatto
bianco può accompagnare solo.
A proposito. Vi presento Kapitan
Nord.
E’ il Capitan Findus sovietico. Ha militato in marina, è stato sul
Baltico e sul Mar Nero. Del Findus, quello yankee belloccio e brizzolato, fa
polpette, impastandolo con granchio e maionese, in due minuti.
sei fantastica a presto
RispondiEliminaMi hai fatto sorridere quando hai detto del pastore errante per l'Asia...Quanto stupore per le enormi distese di girasole in Siberia! Che tristezza, però, la poca sicurezza ambientale (esempio lampante i tubi del gas) e igienica! Buon pomeriggio. Sila
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