martedì 17 agosto 2021

13-14. Vento, fiordi e un errore










15/8/21
Myvatn-Skjöldólfsstadaskóli.
121km

In Islanda c'è vento. E di solito è contrario o laterale che taglia le gambe. Lo sappiamo. Lo sapevamo, lo abbiamo appurato sul campo. Ma questo che stiamo vivendo è accanimento a nostro danno. Non importa cosa dicano le previsioni (oggi davano brezza a favore), non importa la logica. Il vento c'è, e ti sputa in faccia. Oggi abbiamo pedalato quasi 9 ore (effettive di movimento, già al netto delle pause) facendo una fatica titanica, infernale, insostenibile a tratti.

E dire che la giornata era partita sotto ai migliori auspici. Ci siamo svegliati intorno alle 6 per goderci un solicello mattutino già tiepido, e una bonaccia quasi totale. Abbiamo fatto colazione con cioccolata calda e vista sulla piana vulcanica del lago Myvatn. Pace assoluta. 




Lasciato il campeggio, abbiamo fatto sosta al supermercato del paese, ultimo luogo dove poter acquistare cibo per i prossimi 170km. Qui abbiamo incrociato un ragazzo di Bologna, anche lui in bici, che ha già fatto tutta la Ring road e ci ha chiesto informazioni in merito alle strade sterrate dell'interno. Pensava fossero una "scorciatoia" per tagliare... Ah ah, NO.
Ci siamo riforniti di viveri per questo giorno e mezzo di nulla, e abbiamo deciso di puntare ad una struttura con camere e piazzole, ma pure piscina calda, a circa 120km, nel mezzo del niente, a picco sul canyon del fiume Jokulsa a Dal. E poi via, verso l'azzurro limpido di questa giornata che pareva facile.



Ma in questa terra di ghiaccio e fuoco nulla è facile, mai.
Il primo tratto di strada ci ha permesso di vedere altri geyser e sbuffi di vapore rovente che esalano dalle ferite della crosta della terra. L'odore di zolfo è fortissimo, come quasi sempre anche nei bagni dei campeggi, e ogni volta pare che qualcuno abbia appena mollato una copiosa loffa.
Ci sono numerose piscine e vasche termali e un impianto per l'energia geotermica, che qui è assai  sfruttata.





Poi si comincia a salire e la 1 imbocca la via delle highlands, cioè dell'interno, quello stesso "entroterra" in cui ci siamo persi e ritrovati i giorni scorsi. La differenza è che in questo caso il fondo è asfalto, là le piste sono lastricate di dramma e disperazione.




Superate le prime colline ci si trova catapultati in un'altra piana formata da lava, ora ancora visibile in crostoni solidificati uno sull'altro, ora sbriciolata in sabbia nera e opaca. 



Intorno caldere, coni di eruzioni antiche e recenti e neri fumi inquietanti che fanno da pennacchio alle cime di quelli che paiono monti, ma sono vulcani.






In questa ruina di roccia che si sfalda e si fa polvere, in questo susseguirsi di croste e sassi e sabbia color pece, immagino sempre debba spuntare all'improvviso un dinosauro, che so, il lungo collo di un brontosauro o uno pterodattilo in volo. E immagino pure quale calderone spaventoso debba esser stata la terra al tempo di queste primordiali esplosioni di lava e magma e ceneri nere, quando l'aria era irrespirabile e la terra un oceano di fuoco.



Nello spalancato vuoto si distinguono, tra le strutture naturali della roccia, anche numerosissimi cairn che tracciano una pista sterrata parallela alla strada. Sono centinaia e si susseguono per kilometri.



A un tratto i campi di lava cedono il passo a cupa sabbia, e siamo di nuovo in un paesaggio desertico. Il vento, finora laterale e non molto teso, si alza. Si procede a circa 15km/h nonostante la strada sia quasi del tutto priva di salite. Si alzano nuvole di polvere che ci investono senza ritegno e inizia a farsi chiaro che anche oggi l'Islanda sarà croce e delizia, ed Eolo la famosa pigna in culo.




Inizia ad essere necessario darsi di frequente il cambio: uno fa da rompighiaccio, l'altro sta in scia. Le orecchie sibilano e l'aria arriva gelida addosso. Intorno, nera sabbia con formazioni vulcaniche azzurrognole nella distanza.





Facciamo una sosta merenda e mi accorgo, stavolta inconfutabilmente, di come le pietre laviche siano quasi indistinguibili, per forma, colore e peso


dalle caramelle zozzone di cui ultimamente mi nutro pedalando, pescandole dalla tasca posteriore, una ogni tot kilometri. Sono zucchero, cioccolato e liquirizia salata, una delizia!


Ripartiamo e attraversiamo un ponte che viene definito il "golden gate delle Highlands". Sì, certo, ok. E' un trabiccolo sul fiume, lungo pochi metri. Certo gli archi bianchi attirano lo sguardo perchè sono l'unica costruzione umana, oltre alla striscia di asfalto, per decine di km.



Il vento man mano si alza e non ci dà tregua. Ora è laterale e sposta la bici, per la quale le borse fanno da vela, ora è contrario e ci impedisce di proseguire. Intorno l'orizzonte si fa mosso di alture, e tra rampe e discese ci toccherà affrontarle. Ovviamente sempre controvento. Intanto la rara vegetazione sparisce del tutto, lasciando nuda questa terra sferzata da tramontana.







Con una breve discesa, sulla quale bisogna comunque pedalare di gran lena per vincere la forza contraria di Eolo, imbocchiamo un vallone stretto tra creste di lava solidificata. Qui facciamo una breve pausa pranzo con le scorte che ci portiamo appresso. Si sente qualche uccellino emettere un richiamo simile al fischio dei freni a disco, e soprattutto lo starnazzare sguaiato delle oche selvatiche, che popolano a centinaia queste zone.  Probabilmente per questo a terra è pieno di bossoli di fucile. 







Non possiamo stare troppo a lungo fermi a riposare, perchè l'aria è comunque fredda e ci si tiene caldi solo in movimento. Pronti, via! Una salita, una discesa, e uno schiaffo in faccia del vento. Da qui in poi, forse perchè siamo più in quota, più esposti, procedere diventa quasi impossibile. Aggrappati, avvinghiati, abbarbicati a quel quasi, tutti piegati come gamberetti, procediamo noi, ed è continuo spasmo. Nessun muscolo è rilassato, dalle gambe alla schiena, dalle braccia al collo. Quasi non si respira. Non si riesce mai a cambiare posizione in sella o a rilassare qualche fibra. Piedi e mani si gelano, il viso è aperto in due, spaccate le labbra e disseccati gli occhi.




Intorno, deserto.




E l'urlo del vento che non ci darà pace, in questo modo, fino alla fine, per oltre 50km. Si procede a circa 10km/h. Pare un incubo. Una strada liscia, piatta, perfetta, sulla quale si potrebbe correre una gara a cronometro, diventa un infernale corridoio che, come negli incubi, si allunga a dismisura mentre le gambe sono inchiodate al terreno.

Il paesaggio sarebbe anche meraviglioso, tra colli, fiumi e ghiacciai all'orizzonte, ma persino posare lo sguardo sulle cose è una fatica immane.



Sbuca persino il sole, di nuovo, ma è tardo pomeriggio e non scalda più. La luce dolce della sera diventa sinistra e inquietante perchè, come meridiana, segna l'esatto inesorabile scorrere del tempo. Arriveremo mai? Mi si spezzerà un tendine del ginocchio o del collo? E' possibile proseguire, in queste condizioni? Persino le pecore si acquattano a terra per evitare il vento, e diventano dei batuffoloni bianchi o neri cotonatissimi.





Non conto i km, ma le decine di metri e i metri. Uno, due, tre, cento, novecentonovantanove, un kilometro. Bene ne mancano solo altri 40! Evvai! Gigi, a un certo punto, prende il controllo della situazione si mette a trainare come un trattore, lento ma inarrestabile. Io, a ruota, soffrendo e ingozzandomi di caramelle laviche per consolarmi, seguo. Gli ultimi km ci vengono risparmiati. Imbocchiamo un canyon e scendiamo in picchiata tra folate laterali che ci spostano di parecchi metri in mezzo alla strada (per fortuna gli automobilisti qui son pochi e rispettosi). Ma si scende, e anche in fretta.





Così, prima del previsto, ma esausti e sfibrati, cotti, disseccati, giungiamo al campeggio in mezzo al nulla, oasi di pace per un conforto vespertino. Doccia rovente a bordo piscina termale, cena e persino un piccolo extra per festeggiare il Ferragosto e la buona riuscita della sfida ad Eolo.






Ora sono nel cucinino riscaldato (qui, come in Nord Europa, i campeggi hanno un locale cucina/area comune attrezzato) e ancora il vento infuria e il suo grido si amplifica tra le pareti di roccia verticale del canyon. Domani torneremo sulla costa, nella zona dei fiordi sudorientali.

Postilla: a inizio giornata non abbiamo preso la deviazione per le cascate Dettifoss per questione di economia dei tempi e perchè di cascate pazzesche ne vediamo almeno una al giorno. E' però interessante dire che il nome del canyon, Asbyrgi, verde di betulle e nato da alluvioni disastrose, significa letteralmente Rifugio degli dei Asi; la leggenda narra che, quando il popolo islandese tradì gli antichi dei e gettò i loro simulacri nella cascata di Goðafoss, questi non abbandonarono l'Islanda, ma si rifugiarono ad Ásbyrgi, da cui continuano ancora oggi a vegliare sul paese. Il mito vuole anche che Ásbyrgi sia uno dei luoghi più popolati dall'huldufólk, il Popolo Nascosto. Il canyon, per altro, sarebbe nato da uno degli otto zoccoli del cavallo di OdinoSleipnir, Colui che Scivola Veloce. Secondo la mitologia, di color grigio, dotato di otto zampe, è il migliore cavallo che esista, il più veloce, in grado di cavalcare il cielo e le acque, e anche lungo gli altri mondi. La forma curiosa delle rocce sarebbe invece dovuta al fatto che siano volti di elfi pietrificati da un mago dispotico (e invece è lava viscosa solidificata a strati)


16/8/21
Skjöldólfsstadaskóli.-Fáskrúðsfjörður 
133km

Sapete cosa non c'era questa mattina tra le 7 e le 9, ovvero il periodo intercorso tra la sveglia e il primo colpo di pedale?
Il vento. Non c'era.
E sapete cosa è comparso alle 9:01, appena dato il secondo colpo di pedale?
Esatto, proprio lui, sempre il vento.

Durante la colazione abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i nostri vicini di tenda, cicloturisti berlinesi ultrasettantenni che hanno viaggiato un po' in tutto il mondo. Lui vede solo al 10% ma riesce a fare tutto e per pedalare segue da vicinissimo la bici della moglie, Percorrono così tra i 20 e i 50km al giorno e si godono la pensione. Che grandi!

In ogni caso, come dicevo, un attimo prima di rimetterci in sella c'erano sole e bonaccia totale. Appena imboccata la strada, le nuvole hanno velato il cielo e si è alzato il vento maledetto e contrario. Subito la temperatura si è abbassata ed è ricominciata la cantilena ubriaca del pedalare lento e storto, dandosi cambi frequenti. Nota positiva: la strada procedeva per lo più  a scendere, seguendo il corso del fiume, tra le spalle del grande canyon che corre per decine di km.




Ai lati roccia coperta da un tappeto verdissimo in cui le pecore dai corni torti pascolano placide. Torrenti e cascatelle ricamano i fianchi dei colli, perchè non c'è acqua dolce che non cerchi il sale.







Dopo innumeri soste per coprirsi strato dopo strato, iniziamo ad incontrare fattorie e cascine sparse, che punteggiano il vallone e lo rendono un poco più umano.



Ma la tentazione di cedere al nulla vuoto di deserto e steppa è sempre grande, per la terra qui.





Purtroppo la festa della discesa dura poco e, con un ponte che sutura i due lembi di valle, si attraversa il fiume nel suo letto di roccia e si comincia a salire per imboccare la via che riporta alla civiltà.



Questa, alla fine di una lunghissima e ripida salita, si apre davanti a noi con volto di colli e monti dalla cima innevata,




un dolce ininterrotto scendere e, soprattutto, incredibile a dirsi, il vento a favore. A FAVORE! Forse Njordr, la divinità norreno che ha potere sui venti, è stato mosso a pietà. Forse Gigi, stanotte gli ha offerto in sacrificio una pecora lanosa dalle tenere carni. Forse è solo una botta di culo. Ma imbocchiamo questa galleria del vento e quasi senza pedalare veniamo sospinti di gran carriera attraverso valli e pianure di roccia nera.









Così, in un attimo felice, veniamo sospinti fino ai primi paesini dopo 170km di desolazione. Ranga, Fellabaer ci accolgono e invitano a superare il fiume Lagarfijot con il suo ponte di legno. Siamo in una città. Una città vera. Egilsstadir.




Con le sue 2500 anime, è la città più grande dell'Austurland  la regione dell'Islanda orientale, ed ospita i principali servizi, trasporti e centri amministrativi della regione. La città possiede un aeroporto, un'università e un ospedale e dovrebbe continuare ad espandersi nei prossimi anni in conseguenza del boom economico atteso nella regione, collegato ai progetti di produzione di energia idroelettrica e di una fonderia d'alluminio.
Ci fermiamo nel primo supermercato a bere e mangiare qualcosa di sfizioso che non sia acqua barrette di cereali, e qui ci rilassiamo al sole, che è spuntato di nuovo. Ci rilassiamo troppo, però, e l'errore è imminente. Puntiamo a un campeggio sulla costa orientale, nel secondo fiordo che la 1 raggiunge. Dovrebbero mancare meno di 50km, tutti tendenzialmente in discesa e a favore di vento. Arriveremo prestissimo, faremo la spesa (i market qui chiudono alle 18) e ci riposeremo, finalmente! Stamattina i sono svegliata fresca come se fossi stata investita da un camion che poi ha fatto anche la retro, una giornata semplice ci sta.
Ma l'errore è imminente.

Bisogna sapere che questa città è giovane, anche per gli standard islandesi dove l'urbanizzazione è una tendenza piuttosto recente in rapporto all'Europa continentale. È stata fondata nel 1947 per il raggruppamento dei distretti rurali che si andavano avvicinando tra loro e che sentivano il bisogno di un centro di servizi per la regione. È stato così scelto un piazzamento sul terreno della fattoria Egilsstaðir (dalla quale la città trae il nome) vicino al ponte sul fiume Lagarfljót, perché è un punto dove tutte le vie della regione si incontrano: la strada n. 1 così come le principali vie verso i fiordi dell'est.

TUTTE le strade confluiscono qui e il centro è una sorta di gomitolo di numeri e rotte. A tal punto che, quando ripartiamo, imbocco decisa il naturale proseguimento della strada che stavamo percorrendo, che va verso sud est, scende ed è favore di vento. Tutto perfetto, una pacchia, una gioia.





Il panorama è fantastico, placido come certi scorci delle nostre Alpi in estate. Ci sono pure gli alberi, ma quanto sono belli gli alberi? Ci avete mai fatto caso?







E nella spensieratezza più lieve scendiamo e scendiamo, con il vento che ci spinge e l'immagine di noi sazi e a calduccio in tenda in orari decenti.





Poi, a un tratto, improvvisa, la consapevolezza. Questa è la strada sbagliata. Non è la 1. Me ne accorgo perchè giungiamo a un bivio ed entrambe le vie portano nomi (numeri) che non mi risultano, a due e poi tre cifre, roba da sterrati di me', roba che non va bene assolutamente. Guardo maps e mi rendo conto che, proprio quando siamo ripartiti, ovvero 12km indietro, abbiamo toppato in pieno e mancato il bivio, perchè là la 1 vira in un'altra valle. Anche la strada che stiamo seguendo prima o poi torna alla costa, ma lo fa passando di nuovo nelle highlands e senza nulla, nemmeno un alimentari, acqua chissà e strutture figuriamoci. Insomma, per non improvvisare troppo, visto che è presto, tocca tornare indietro di quei 12km, che ora sono in salita e controvento. Gigi ha rischiato la vita quando, nel pieno del mio dramma della contezza dell'errore, mi dice: "Ah ma io sapevo che non eravamo sulla 1, ho visto i cartelli fin dall'inizio ma pensavo stessimo facendo una deviazione".

NULLA MI VIENE RISPARMIATO.

Così si torna, a manetta per non perdere altro tempo, al punto esatto in cui avremmo dovuto svoltare. E qui la strada inizia ad inerpicarsi inesorabilmente per quasi 10km di strappi più o meno duri, che conducono alla valle accanto. Una croce.




Per fortuna la vista intorno placa un po' lo scorno di aver cannato strada e aver perso tempo in una fatica inutilissima. Si procede tra stretti costoni di roccia verdissima, punteggiati di neve o trascorsi da rivi.



Poi, insperata. ormai solo sognata, giunge la discesa. Ed è un volo in picchiata tra ordini di monti disposti in fila come una catena di tessere di domino. Fa freddissimo, perchè siamo sudati fradici e l'aria, che comunque on supera i 10 gradi, ci gela i vestiti addosso.



Siamo quasi alla costa e il sipario di roccia inizia ad aprirsi



fino a disvelare il mare che nell'azzurra distanza si confonde al cielo.





Montagne di oltre 1000m, possenti e dalle profonde rughe di sabbia, scavate dal vento e dal ghiaccio, ci accompagnano fino a Fjardabiggd, città sul fiordo più vasto dell'Islanda orientale, il Reydafjordur, fiordo della balenottera (perchè prima che aprisse l'acciaieria, qui si viveva di pesca e caccia alle balene). Qui facciamo sosta spesa, entrando dieci minuti prima che il negozio abbassi la saracinesca. Per un pelo!
Dopo aver sistemato tutto nelle borse ripartiamo per l'ultima tratta, che, per altro, prevede un tunnel. Ho fatto studi in merito, in pausa pranzo, appurando che non è vietato alle bici. Bene, si fa.







Addobbati di luci segnaletiche come alberi di Natale, pedaliamo i 6km di galleria, illumanata e quasi deserta d'auto, per arrivare al nostro fiordo, quello dove ci fermeremo (99km sulla carta, pedalati 131, sigh, sob, gasp, sgrunt).



Usciamo così, intirizziti e stanchi, a Fáskrúðsfjörður, sull'omonimo fiordo.




Qui si trova un campeggio minimal, ma con le docce. Non c'è nemmeno la reception. Passano a sera due ragazzini con un pos per il pagamento, e ciao. E' stracolmo di oche, anatre e vari uccelli marini, che starnazzano fino a tardi. L'arai sa di salmastro e alga secca, di porto e mare.


Non ci sono locali al chiuso e, dopo la doccia calda, azzardiamo una cena sui tavoli all'aperto. Dopo mezz'ora siamo costretti a rintanarci in tenda, surgelati. Per fortuna abbiamo i sacchi a pelo corazzati, ingombranti sì, ma salvifici!



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