6/8/21
Geysir-Selfoss
86km
Se ieri abbiamo visto il punto esatto in cui la crosta della terra si spacca e fa attrito sulla sua stessa ferita, se abbiamo visto l'acqua ribollire in vapori inferi dal cuore del mondo, oggi abbiamo invece ammirato l'opera al bianco dell'alchimia antica: fuoco che si fa roccia e acqua che forgia e precipita.
Purtroppo il sole di ieri ci ha già salutari con poche riverenze, e, come vedrete dalle foto buie e cupe, trovare un po' di luce e di tepore è stata ardua e vana impresa. Ma ciò che abbiamo visto, in questa seconda metà di circolo d'oro, è valso la fatica.
Che non sarebbe stata una giornata dal meteo brillante si è fatto chiaro fin dal risveglio, ai piedi del geyser. Le cime nebbiose dietro ai rari alberi ci hanno subito spiegato come funzionino qui le cose, e qui funzionano UMIDAMENTE. Tra vapori, pioggia, rugiada, condensa, tutto è bagnaticcio. I vestiti, freddi quando li si indossa, come le scarpe, le bici, le borse, la tenda. Tutto è rorido, e inizio a pensare che mi cresceranno intere famiglie di finferli e porcini tra le clavicole e le dita dei piedi, di questo passo.
I primi 10km sono in realtà una sorta di "vicolo cieco" che percorriamo in andata e poi in ritorno, ma conducono alle imperdibili cascate di Gullfoss, letteralmente "cascata d'oro", soprannominata "regina di tutte le cascate d'Islanda" per la sua spettacolarità.
Arrivarci è faticoso, perchè carburare al mattino non è affare semplice. Abbiamo fatto una colazione abbastanza minimal, non siamo ancora acclimatati e la salita attacca subito, ma con una pendenza quasi impercettibile, mentre il vento è contrario. L'insieme porta a pensare che la bici sia diventata più pesante del martello di Thor, per stare più o meno in tema, o che una malattia degenerativa rapidissima abbia eroso in una notte tutta la mia forza. E invece è l'Islanda!
Quando arriviamo a Gullfoss, in primis, rifacciamo, ma meglio, colazione. Perchè per godersi le cose belle e la conquista dell'inutile bisogna avere la pancia piena.
una volpe che presagisce la botta da cocainomane, ma con zucchero e non droga |
Nel locale ci sono foto d'epoca della gente che viveva qui. Nella fattispecie della vecia arcigna e indurita dal clima, contadina, che ha iniziato a rendere "turistico" questo luogo, guidando i visitatori ad ammirare le cascate e costruendo il primo percorso pedonale, fin dall'ultimo quarto del 1800! La signora, al secolo Sigriður, ha anche portato in tribunale un'azienda inglese che voleva acquistare il luogo per produrre energia idroelettrica. Ha minacciato persino di suicidarsi gettandosi nelle acque tumultuose; a questa causa ha lavorato anche il primo presidente della repubblica d'Islanda, prima di ottenere tale carica. Poi l'azienda, che pure ha vinto la causa, non ha pagato e quindi questa meraviglia è passata nelle mani del governo che ne ha fatto area protetta
Usciamo, rinfrancati nel corpo e nello spirito. Proprio davanti a noi, prima che l'orizzonte sia rubato dal fragore grandioso del doppio salto del fiume, si spalanca la sagoma candida del secondo ghiacciaio più grande d'Islanda, il Langjokull, letteralmente "lungo ghiacciaio". E' maestoso e incute sacro rispetto, anche da così lontano.
L'acqua, anche qui, è rossa e densa di minerali. Cotone selvatico spicca, bianchissimo, intatto e puro, in questo ribollire fragoroso.
E poi eccola. La regina delle cascate, con il suo doppio salto.
La roccia è spaccata in una frattura secca, una parete muta, il canyon del fiume Hvìtà. Intorno vapori bianchi e grigio, nel rumore assordante del precipizio verticale.
Il percorso di visita consente di avvicinarsi moltissimo ai balzi e alla schiuma, al punto che pare quasi, a tratti, di essere del tutto immersi in questo grandioso fluire. Ma non mi viene qui da pensare al fiume di Eraclito o a Borges. Questo è un rovinare violento, un dirompere, non un semplice scorrere. La roccia si sbriciola sotto a tanta potenza, e l'urlo profondo che le sale dalla gola riempie l'aria di minuscole gocce che riflettono la luce.
Restiamo a lungo ad impregnarci di questo antico pianto, e pare quasi di assorbirne linfa vitale. C'è una forza cosmica, un grandioso rovinare, che quasi paiono salire attraverso i piedi su su per le gambe e la schiena fino alla testa e alle mani. Penso alla Natura immaginata da Leopardi nelle Operette morali. E' lei, che dialoga con l'islandese, è lei quella che dice "Io sono quella che tu fuggi". Bella e terribile. E noi le andiamo incontro, a braccia aperte, per rubarne un poco e conservare come vestali quella scintilla d'energia perpetua.
Dopo tanto scioglierci nell'aria intorno ci rimettiamo in sella, percorrendo a ritroso una decina di km, fino a Geyisir e oltre, al bivio che conduce a sud, verso Selfoss. Sempre il ghiaccio ammicca da lontano ed io non riesco a togliergli gli occhi di dosso.
Incontriamo spesso anche gente a cavallo, ora provetti fantini ora turisti in cordata. Ricordo la mia unica e ultima esperienza da amazzone, in Mongolia, quando mi sono lasciata convincere da un pastore a provare a saltare in sella. Il povero cavallino ha capito che non ero a mio agio e si è messo a correre nella vasta steppa cercando di disfarsi del mio peso. E i pastori, che imparano a galoppare a tre anni e fanno acrobazie pazzesche pure senza briglie e staffe, ridevano, oh se ridevano! Molto meglio cavalcare i cammelli battriani, che sono più paciosi e ammortizzati.
Ripercorsa la strada già battuta imbocchiamo il tratto nuovo di 35 e, dopo un saliscendi abbastanza tranquillo, facciamo sosta a Reykholt. Oggi è un minuscolo centro abitato, ma un tempo fu centro culturale e sede di scuole prestigiose. Qui ha vissuto Snorri Sturluson (1179-1241), politico e poeta, autore dell'Edda in prosa. Io ne approfitto per spendere bene altre corone, perchè dai, come fai a dire di no a tre etti di caramelle così?
Da questo punto in poi comincia a piovere e di foto non ne scatto più. Ci bardiamo via via sempre di più perchè il vento contrario ci gela i vestiti addosso. Arrivo persino a indossare i guanti gialli Vileda, quelli per lavare i piatti, che sono l'ultima ratio dell'impermeabilità.
Solo un istante di sole illumina un'ansa ed è un attimo eterno.
Poi ricomincia a diluviare e l'orizzonte si fa cupo di ombre. Colli, alberi, roccia e nubi si confondono in un grigio indistinto. Pare lo sfondo di un teatro delle ombre.
Ma la strada ci regala ancora una goccia di splendore, il Kerið.
Un luogo figlio di catastrofe, di terra che si ribella e contorce e vomita. Un abisso che ne specchia un altro, un pozzo che fissa il cielo, per citare Pessoa, nell'eterna irrealizzazione di due profondità
Dopo questo luogo lunare, sotto al segno della terra dei ghiacci
bardati oltremodo perchè FA FREDDO e siamo fracichi,
ripartiamo in un paesaggio post apocalittico di nero su nero.
Ma dura poco. Il cielo decide, come regalo di fine giornata, di concederci un poco di tregua. E torna la luce e tornano con lei i colori, il verde e l'azzurro.
Ma pure il nero della pietra lavica che qui è ovunque. Pure sulla strada che, per lavori in corso, è per lungo tratto sterrata e polverosa.
In breve raggiungiamo il fiume Olfusà e la città che vi sorge, meta di oggi, Selfoss. Questo fiume è la continuazione di quello che crolla a Gulfoss e poco avanti sfocia mescolandosi all'oceano, acqua dolce acqua salata (e salmony).
pino detto "il polena" |
Questa città è nata nel 1891 con la costruzione del ponte sospeso sul fiume, ai tempi avvenieristica opera edile del paese. Poi, nel 1930, ha aperto qui una latteria che ha richiamato tanta popolazione; l'economia si basa ancora su questo settore.
Noi ci accomodiamo nel locale campeggio, che si trova in una zona di attività geotermica e offre acqua naturalmente calda e puteolenta ma benefica. E approfittiamo di un supermercato per una lauta spesa che servirà stasera e domani.
💦💭
RispondiEliminaBella descrizione, complimenti per la pedalata islandese. Sto leggendo i tuoi libri con grande ammirazione per l'intraprendenza, il coraggio, e la schiettezza del racconto.
RispondiEliminaracconto di viaggio coinvolgente e il luogo aiuta
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