lunedì 23 agosto 2021

19-20. Teatro d'ombre, una ringkomposition cantata da sirene nella foschia







BE'?



21/8/21
Svinafell-Kirkjubæjarklaustur
78km

Prometteva pioggia l'uggiosa mattina ai piedi del ghiacciaio e pioggia è stata, poi, per tanta parte del giorno e ancora adesso, mentre scrivo, diluvia al punto che ancora non abbiamo montato la tenda, nella vana attesa che prima o poi smetta. Ma pare il canto VI d'Inferno e l'unica consolazione è che, essendoci allontanati dal Vatnajokull, la temperatura è passata dai 4 ai 7 gradi. Son soddisfazioni!

Anche oggi siamo partiti con calma, tanto ormai lo spazio che ci separa da Reykjavik si assottiglia di giorno in giorno e possiamo permetterci tutto il tempo che ci vogliamo concedere.
La cucina era già affollata dalle 6 del mattino, con un gran spadellare e gorgogliare d'acqua, in un misto d'odore di bacon e caffè.

Ci siamo lasciati la microscopica cittadina di Svinafell alle spalle, su sterratino ghiaioso (perchè qui appena si lascia la 1 è un attimo tornare nei bricchi).






Il bordo roccioso del ghiacciaio si è un poco allontanato dalla strada, dopo le prime pedalate, lasciando lo sguardo libero di correre  verso le successive lingue candide di gelo e verso le vette velate di nubi del parco nazionale Skaftafell.







Mentre pedaliamo rapiti dal susseguirsi di roccia nera e ghiacciai vallivi bianchi di luce e azzurri, notiamo a bordo strada qualcosa di inatteso, nella vasta distesa desertica che si spalanca sul lato del mare. Sembrano rottami, e in un certo senso lo sono. Ma si tratta di un monumento, e anche di un monito della fragilità umana, pure quando pare sostenuta dalla forza della tecnica, a fronte delle forze bizzose della natura. E quanta ragione aveva Leopardi.

Si tratta dei piloni (in acciaio!) di sostegno di un ponte, piegati e ritorti come fil di ferro dall'alluvione scesa dal ghiacciaio nel '96, a seguito di una piccola eruzione vulcanica.





Ecco là dietro il gigante dormiente, ecco la Natura che dà vita e morte, con buona pace di qualsiasi divinità l'uomo si sia inventato.




Dopo aver letto tutta la storia di questo disastro naturale, ci rimettiamo in marcia verso ovest, affrontando di nuovo un paesaggio desertico di sabbia nerissima, finissima e livellata dal vento in onde ferme.





A tratti un fiume, che sgorga direttamente dal ghiaccio, rende un poco fertile questa terra secca e brulla, che si copre di erba giallastra o rossa lava. E le pecore ovviamente ne approfittano,  



Passiamo anche accanto alla carcassa del fu ponte sulla 1, quello piegato e spazzato in parte via dall'inondazione. E' un inquietante relitto, uno scheletro che rammenta l'impotenza, l'amechania umana.



I ghiacciai vallivi poi, pian piano, si fanno più distanti e le dune laviche prendono il sopravvento sull'orizzonte, con la loro tinta cupa che assorbe la luce. 




Un ultimo saluto ai ghiacci immensi del Vatnajokull, che ci ha fatto da sfondo per tanti giorni, dalle Highlands alla costa






e passiamo il confine che divide la regione orientale da quella meridionale, l'Austurland dal Sudurland.

Passiamo giganteschi fiumi glaciali, che paiono stagno colato su una piastra di ossidiana. Riflettono una non luce che pure da qualche parte risplende.




Davanti a noi si spalancano, oltre al deserto nero, alture che paiono scolpite, tanto la loro forma è perettamente geometrica. E invece è solo una sistematica erosione che sbriciola la pietra in sabbia.






Gigi ed io abbiamo lo stesso pensiero: se i colori fossero diversi, non nero e verde ma rosso e ocra, potremmo esser tornati nella Monument Valley, che abbiamo attraversato in sella due anni fa. Anche lì la pietra si erode e crolla sotto l'azione del vento e delle intemperie, anche lì ciò che resta pare rudere diroccato d'opera umana, di castello o palazzo. E invece è l'enciclopedia geologica della fuga temporis.






Poi anche queste alture spianano un poco e si moltiplicano le casette e le fattorie, ma pure le strutture ricettive (che non si vedono, perse tra i sentieri che portano a rocce e crepacci, ma segnalate da cartelli)




Poi la parete rocciosa si alza di nuovo e diventa un susseguirsi di cascate di ogni dimensione e forma, con salti più o meno alti, singole, doppie, larghe o strette. L'acqua si getta a valle ed è una danza continua, un volo leggero di precipizio a perdersi. Ma ci sarà sempre un mare ad accogliere nella sua vasta calma di sale tutto questa andarsene.






In tutto questo non vi ho detto che ogni metro ci ha visti offesi dalla pioggia e dal vento, benchè ormai in grado di resistere a qualsiasi bizza del cielo con strati su strati di materiale tecnico.
E comunque qui le pecore si mettono in posa:


Siamo giunti alla meta di oggi, Kirkjubæjarklaustur, prestissimo, perchè i quasi 80km sono stati percorsi senza soste più lunghe di 3 minuti, proprio a causa del maltempo. Quindi abbiamo tirato diritto e alle 15 eravamo già a destinazione. Abbiamo fatto la spesa e una sosta tè/cioccolata in un caffè. Poi ci siamo ritirati in campeggio a far doccia e cambiarci e attendere, nella sala comune, che la pioggia cessasse, per piantare la tenda. E così è stato.
Domani, con altri 70km o poco più torneremo a Vik, ultima città vista prima di tagliare, all'andata, per le highlands e lasciarci la civiltà alle spalle. Sarà l'occasione per recuperare ciò che s'era lasciato indietro e non si era visto, nell'ansia di andare senza indugi. Abbiamo cammini da esplorare e relitti d'aereo da visitare, musei e scorci perduti. Insomma, tanto di nuovo ancora ci aspetta, per quanto la strada sia in parte la medesima.
E così il cerchio inizia a chiudersi, senza intoppi, senza problemi, senza passaggi in autobus o scorciatoie. Che non mi sono mai piaciute.


22/8/21
Kirkjubæjarklaustur-Vik
79km

Va bene pioggia, l'hai voluto tu. Ci offendi, ci sfidi, ci tartassi ogni notte e ogni giorno. E noi sfoderiamo le nostre armi segrete, con tradizionale vestizione dell'eroe, dai calzari agli schinieri all'elmo.
Per tutta la notte ha diluviato e anche questa mattina non è da meno; le previsioni anticipano un'intera giornata di acqua battente, quindi tanto vale prepararsi. Facciamo colazione, chiudiamo le borse sotto alla tettoia e ci bardiamo come s'è capito essere necessario. Antipioggia e antivento ma non troppo caldi, perchè ora, a sud e lontani dai ghiacciai vallivi, la temperatura è già aumentata e si aggira sempre intorno e poco sopra ai dieci gradi. E sudare è come infradiciarsi di pioggia: i vestiti bagnati addosso, con il freddo e l'aria, diventano una trappola di gelo.

Sicchè: termica medio peso, calzino caldo tecnico, pantalone lungo e giacca bici come softshell, poi k-way di kevlar (scherzo, ma è spesso e grosso) e copriscarpe in neoprene, sovrapantalone impermeabile con ghetta, guanti impermeabili, cuffia, scaldacollo e sottocasco, copricasco impermeabile e giacca finissima ad alta visibilità, perchè con la nebbia e il grigiore che tutto velano non si vede a un palmo dal naso.



E così conciati, nello stupore degli altri campeggiatori (tra cui tre scozzesi simpaticissimi con cui ho chiacchierato ieri), dopo aver chiuso la tenda fradicissima, partiamo.





Tutto è fradicio di un'umidità fredda che assorbe persino la luce, e il paesaggio assume i contorni di sfondo un'inquietante fiaba horror, come se da un minuto all'altro dovesse comparire qualche mostruosa creatura. Invece l'aria lattiginosa nasconde solo altra aria lattiginosa, e la strada bagnata che pare un fiume nero porta solo ad altra strada bagnata.







A tratti si aprono scorci di una poesia ineffabile, per quanto sempre un poco sinistra. E' la Contea? E' la casa di ninfe seducenti e pericolosissime, che promettono amore e conducono alla perdizione, alla follia o alla morte? Chi abita questi luoghi impalpabili e fatti d'acqua e linfa? La terra è nera sabbia, e i cespugli sono verdi d'un verde d'altri mondi, troppo chiaro e fresco per questa stagione.




Dopo circa 20km passiamo da un punto simbolico per questo lungo breve viaggio. Si tratta dell'incrocio tra la 1, la Ring road, la strada asfaltata che stiamo percorrendo da Akureyri in senso orario, e la 208, la strada che in breve diventa sterrata e poi sterratissima, verso il Landmanallaugare le highlands. Questo è il punto esatto in cui, pare dieci vite fa, abbiamo lasciato la costa per affrontare le montagne e il deserto, la tundra e i ghiacciai, l'Island nella sua pura feroce disumana meravigliosa essenza.



Sembra davvero passato tanto, tanto più tempo del poco che è in realtà. Siamo cambiati, siamo più esperti e più vecchi, più duri anche, e cinici nei confronti dell'umana piccolezza. Ogni deserto che si attraversa lascia dentro un granello di sabbia, che si fa perla di consapevolezza.

Rientriamo così nel Katla geopark, patrimonio Unesco nato per proteggere i delicati equilibri di una natura fragile, esposta a un clima avverso e a un territorio in continuo fermento, sempre sull'orlo della catastrofe.
Katla, per la cronaca, è il nome del vulcano (attivo) la cui sommità è coperta da un altro immenso ghiacciaio, il Myrdalsjokull, spesso circa 600m.



La sua ultima eruzione risale al 1918. La sua caldera ha il diametro di circa 10 km ed erutta con una cadenza variabile tra i 13 e gli 80 anni, l'eventuale nuovo fenomeno è perciò piuttosto in ritardo e il cratere risulta costantemente monitorato. A partire dall'anno 920 si sono avute 17 eruzioni documentate. Il Katla fa parte di un sistema vulcanico più vasto (uno dei più complessi e poderosi al mondo), centrato sul vulcano Grímsvötn e che include inoltre il vulcano Laki e la fossa vulcanica di Eldgjá.


Passiamo di nuovo anche dal famoso wc in mezzo al nulla, quello con terrazza panoramica, sistema di videosorveglianza e a pagamento (anche con carta di credito). Ne approfitto perchè la cosa peggiore di tutte, quando piove e fa freddo così, è spogliarsi del tutto come la mia natura costringe a fare per una banale pipì (le braghe da bici hanno la salopette e quindi davvero resto in mutande, sotto la pioggia, una visione miserrima.

Approfittiamo della tettoia per mangiare qualcosa al volo e Gigi cade in un sonno comatoso di dieci secondi, stile sugnetin da la legura. Siamo un po' stanchini.



Io, che paio l'omino Michelin dai tanti strati che ho addosso (sotto di ciccia non è rimasto quasi più niente, il freddo e le salite e il vento hanno consumato tutto), inizio a congelare e questo significa che si deve ripartire. L'unico modo per tenersi caldi è continuare a muoversi.

Le dune di sabbia nera sono qui ricoperte di un muschio rotondo e pieno, che, non fosse una spugna gonfia d'acqua, inviterebbe a rotolarcisi dentro insieme alle pecore.


All'orizzonte compaiono profili noti di alture già conosciute. Sono i neri faraglioni di Vik!



Questi luoghi, visti la prima volta andando in direzione opposta, controvento ma con un sole limpidissimo, appaiono quasi altri, diversi ora nella luce cupa che fa tutto di stagno e di piombo.










L'ultimo tratto è un volo, con il vento a favore e il muro di roccia che risuona del grido dei gabbiani che nel monte fan nido.






Siamo tornati! Che gioia rivedere queste alture aguzze e questi prati che già una volta ci hanno accolti.









Siccome è molto presto e siamo già per via, nel approfittiamo per una puntata alla Vikurfjara, la famosa spiaggia lavica nerissima che separa la città dall'oceano.



La conformazione delle rocce qui è unica e, in cima al promontorio su cui nidificano le pulcinelle di mare, pare di vedere un castello o un vascello spettrale.







Il contrasto tra il nero della sabbia, il biancore opaco della nebbia e il verde gemma della vegetazione crea un gioco di colori che rapisce lo sguardo e distrae persino dal freddo che man mano si arrimpica dai piedi e dalle mani al petto e alla schiena.




Compaiono nella foschia, sulla linea del bagnasciuga, alcuni cavalieri al galoppo, figurine d'uno spettacolo al teatro delle ombre quali siamo.







Si lascia questo spettacolo alle spalle, domani torneremo sperando in un cielo più sorridente, anche se le previsioni smentiscono ogni ottimismo. Torniamo al campeggio che già abbiamo sfruttato all'andata, l'unico del paesino. Siamo fradici e lo è pure la tenda, chiusa stamani sotto al diluvio. Ci tocca rimediare, asciugandola e mettendo vestiti e noi stessi nei locali semiriscaldati (solo perchè chiusi, mai veramente CALDI).




Dopo la doccia e tutte le operazioni necessarie, ci concediamo un giro nel locale megastore di souvenir e soprattutto materiale e abbigliamento tecnico per ogni tipo di attività outdoor. Mi fa ridere pensare che questa sia l'ultima spiaggia di chi, dopo i primi giorni sull'isola, si rende conto di aver sbagliato guardaroba, venendo in canotta e bermuda.
Poi una cioccolata con panna e tortino di marmellata e infine la spesa, e la cena, nel locale comune che si popola di russi e giapponesi e americani, spagnoli e italiani.

Sto ancora ridendo per un minuscolo dettaglio accaduto oggi di ritorno dalla spiaggia. C'era un gabbiano, malato ahimè, proprio al centro del sentiero che stavamo percorrendo. E stava lì, immobile, probabilmente a un passo dalla morte, incapace si scappare.
Sapete voi quanto per i romani antichi (e pure per i greci in parte) fosse importante avere buoni auspici prima di qualsiasi impresa; gli aruspici leggevano interiora ma anche il volo degli uccelli, per dedurne il favore divino. I soldati non scendevano in battaglia senza un buon segno, tanto che, spesso, i comandanti facevano accadere voli d'aquile ad hoc o altri propizi accadimenti.
Ora, a noi è toccato ricevere il fiotto di vomito del gabbiano malato, sulle ruote della bici.
Aruspice, che dice il cielo? Cosa gli dei comunicano?
Sbratto di gabbiano!

Dopo questa immagine splatter, vi devo assolutamente parlare di una cosa, ora bella bella. Lo Skyr.
E' un prodotto tipico islandese, latticino nell'anima, fatto con latte scremato e acido di vacca, che a primo sguardo pare yogurt, anche perchè viene commercializzato con aromi di frutta. 


Ma è MOLTO più denso e cremoso dello yogurt, e MOLTO più dolce e meno acido, per quanto più magro e con migliori proprietà organolettiche. Sembra un po' il Fruttolo, ma con tre marce in più. D'altronde è il Fruttolo tradizionale dei vichinghi e delle popolazioni gaeliche, in uso da oltre un millennio in tutta l'area scandinava ma rimasto poi solo in Islanda. Viene tradizionalmente consumato con latte e zucchero e ne sono state trovate tracce sia nelle letteratura medievale islandese, sia in scavi archeologici sull'isola.
E' magro, proteico, fa bene ed è buono. E noi lo si mangia!

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