domenica 20 agosto 2017

Cinquantaduesima tappa. Raymond il bretone e la capitale delle meteo-follie. Da Nizhneudinsk a Tulun


Uno si aspetta di trovare un francese sotto alla Tour Eiffel, al Louvre, in una panetteria di Marsiglia o a pesca con gli stivaloni di gomma su in Normandia. Uno si aspetta di trovare un francese in molti luoghi, ma non certo in Siberia orientale, in mezzo ai boschi neri di pioggia, in bicicletta, tu e lui.
E invece.
Questa mattina me ne sono andata da Nizhneudinsk piano piano, quasi con lenta pigrizia di bradipo, perché pioveva e non è che avessi troppa voglia di pedalare per 120km su e giù tra le colline scure, esposta al vento e all’acqua come una barchetta che arranca in mezzo al mare in tempesta. Si stava così bene all’asciutto, al morbido, al caldo… Però, fattasi una certa, m’è comunque toccato uscire e buttarmi sulla strada, perché i kilometri sono lì e van percorsi, non c’è modo di metterseli alle spalle altrimenti, nessuno me li può regalare.
C’è da dire che ormai sono talmente abituata a questo genere di fastidi da non accorgermene nemmeno più. Non mi sono neanche accorta di impregnarmi lentamente di grigia pioggia, di inzaccherarmi fino a diventare una statua di fango incollata alla bici. Non faceva freddo, non c’erano problemi di visibilità e quindi via con tranquillità. Una cosa invece continua a farmi tirar giù tutti i santi cattolici e ortodossi: le condizioni del fondo stradale. Ma voi non avete idea, è una cosa che per un europeo nato dopo la guerra è inimmaginabile, inconcepibile proprio. La palta, la sabbia fradicia, le buche da bombardamento piene di acqua marrone e schiumosa, che nasconde il pericolo come una trappola, i sassi aguzzi, la ghiaia buttata su tutta la carreggiata dalle auto che sbandano. Un delirio, un incubo terribile che costa fatica e ansia, ansia e fatica. Oggi poi, a metà tappa, ho incrociato dei cantieri allucinanti: vi dico solo che ampi tratti di AUTOSTRADA erano STERRATI con il fango e i sassi e i camion che, pur rallentando, sbandavano e andavano tutti sbilenchi, tra un sobbalzo e un deragliare più o meno sotto controllo. Salite così, discese così. Bestemmie fortissime.
Facendo attenzione a tutti questi inutili maledetti rischi dovuti al fondo stradale, sono uscita dalla città attraversando entrambi i rami del fiume Uda, che rifletteva senza fantasia gli umori del cielo di alluminio.




Una cosa buona è stata invece il vento, oggi abbastanza a favore: ma che bello, che godimento! L’aiuto di quella mano invisibile che accompagna con continue spintarelle sulla schiena è tutt’altro che irrilevante, e sono arrivata oggi alla meta presto e senza troppa fatica. Grazie Eolo, continua così, dai, ancora per un paio di settimane. Ho bisogno anche del tuo aiuto per compiere quest’impresa, su, non mi sembra di chiedere troppo, solo di venire con me a sud-est, di accompagnarmi per questo tratto di strada; cosa saranno mai per te questi spazi, tu che corri i cieli e le terre da un capo all’altro del mondo.
Mentre formulavo queste preghiere pagane nella solita giostra di salite e discese, sotto lo sguardo di pini e betulle grondanti pioggia, 



vedo davanti a me, sulla strada, un puntino giallo e blu che si sposta piano piano. 



Sarà qualche motorino scassato o qualche biroccio a scoppio di quelli che i contadini qui usano per portare il fieno, il maiale e la moglie al mercato.
Dopo qualche minuto il puntino sparisce e mi convinco che l’ipotetico motociclista abbia svoltato nel fango di qualche sentiero per raggiungere la propria izba, sicuramente sbilenca, di legno scuro con le finestre azzurre e il fumo bianco che esce dalla canna in metallo della stufa.
Poi, il puntino ricompare e vedo che si muove quasi a zigzag, come se stesse andando troppo piano per restare in equilibrio. Accelero il passo. Eh ma quella è una bicicletta però. Sempre più chiaramente si delinea lì in quel vuoto d’umanità un cicloturista fatto e finito, con borse anteriori e posteriori, caschetto, antivento giallo fluo. Mi accodo e, prima di affiancarmi spero forte che non sia un cinese di quelli che sorridono molto ma non parlano un’acca di inglese. Perché, in tal caso, l’incontro mi darebbe tanto quanto la conversazione con uno dei molti corvi imperiali che incrocio quotidianamente per via.
Mi accosto. “Hello!” esclamo sorridendo e vedo che il volto è da “occidentale”. Un omino secco e cotto dal sole e dal vento, sicuramente non giovane, piccolo e infagottato in vari strati antipioggia, con le gambette magrissime, abbronzatissime e muscolose che sbucano dai pantaloni corti e finiscono in un paio di sandali. Miiii con sto freddo i sandali! Che coraggio! “Hello” mi risponde stupito. E inizia così una bella chiacchierata con Raymond Puill, bretone, anni 66. E’ partito da casa e sta andando a Vladiostok, dove si imbarcherà per il Giappone. Ma attenzione, questi sei mesi di viaggio cadono dopo altrettanti passati a pedalare in Thailandia con la figlia, il marito di lei, e il nipotino di un anno, imbustato in un carrettino a traino. E quando è partito per quel viaggio era da poco tornato dal periplo degli States, sempre in bici ovviamente. “Ma sei stato dappertutto!” “Eh, se contiamo anche l’Australia, la Cina e la Mongolia, il Sudamerica e l’Europa… Un po’ quasi, sì. Approfitto della pensione!”. Giusto, grande Ray. Ero già convinta di aver trovato, almeno fino a Ulan Ude, un compagno di viaggio. Purtroppo i 40 anni di differenza che ci separano pesano sulle gambe e sulla schiena di Raymond, che a fatica stava al passo (ed io stavo comunque andando piano), soprattutto in salita. Si sarebbe infatti fermato a metà della mia tappa. “Vai troppo forte per me”. Ma uffa. Così, perché io non rallentassi troppo e lui non infatuasse, ci siamo dovuti salutare presto. Ci siamo fermati a bordo strada, lui ha fatto foto con una Nikon grande e con il tablet e con il telefono, lamentandosi poi di aver portato troppa roba. “Mi si è pure rotto il borsello davanti. Sono caduto ieri l’altro per colpa del fango” e mi mostra le gambe piene di croste e lividi. Ah il fango, vedi ben che c’è da stare attenti. Ci siamo scambiati i contatti Facebook e poi via, ognuno per la sua strada, che è la stessa, ma in tempi diversi. Perché in questi viaggi tutto si gioca sull’improvvisazione e sul cogliere l’attimo, ma non ci si può inventar nulla, non ci si può fingere altro da ciò che si è. La realtà chiede costantemente il conto e gli spazi, i tempi, la natura concreta delle cose si impongono su tutto. Non ci sono i vorrei, i se, i magari. C’è la strada, ci sono le proprie forze su cui contare, e c’è la sorte. Virtù e fortuna, per dirla con Machiavelli. Fine dei giochi. 



Bonne route! Sento alle mie spalle e sono già nel vento. La tappa era quasi ancora tutta davanti, tutta da percorrere ed era già tardi. Eolo e le pendenze meno aggressive rispetto ai giorni scorsi mi hanno permesso di scivolare tra la ferrovia e paesaggi più umani, campi e pratoni, tra colori che ormai sanno di autunno. La bella stagione sta per volgere al termine e si legge nella luce obliqua e nel seccarsi delle foglie, nel cielo e nella terra. Conviene andare, e senza esitazioni.





Questa regione precisa in cui mi trovo ora è nota e studiata dagli esperti per i bruschi, improvvisi e imprevedibili sbalzi di temperatura e meteo schizofrenico, che fa saltare il termometro da un opposto all’altro. Confermo. Se al mattino pioveva, il pomeriggio si era steso in un pallido azzurro polveroso, ma pur sempre baciato dal sole. In un paio di minuti, a 13km dall’arrivo, si è addensato un temporale nero come l’apocalisse, tra tuoni, fulmini e scrosci violentissimi che mi han costretta a riparare ad una fermata del bus: non si vedeva nulla. Ma niente proprio, pareva di stare sul fondo di un lago torbido.




Fortuna vuole che la follia del cielo va in entrambe le direzioni, quindi nel giro di una mezzora i nuvoloni si sono sciolti e il sole è riemerso tra lame di luce. 




Tutto il pomeriggio è stato poi così, come ho potuto notare dalla finestra, comodamente spaparanzata in camera.



La destinazione di oggi era Tulun, capitale del meteo matto e sbagliato. 



Sorge sulle sonde dell’Ija e infatti il nome deriva dalla parola in linua sacha, o jakuta (parlata dai sacha, popolazione turco fona della siberia del nord, animista, che si nutre di latte e carne di cavallo e cervo), “tolon” che significa valle. Già all’inizio del XVIII secolo sorgeva qui un villaggio, menzionato nel 1735 da un botanico (Gmelin) che ha tenuto un diario della spedizione in Kamchatka di cui faceva parte. Parla di ben 10 case di contadini. A permettere lo sviluppo dell’insediamento è, questa volta, non solo la Transiberiana ma la strada da Mosca, nella seconda metà del Settecento; la ferrovia avrà lo stesso effetto ma un secolo più tardi, dal 1897. Tulun cresce, sorgono fabbriche, soprattutto legate alla lavorazione del legname e all’estrazione del carbone, di cui qui c’è un giacimento enorme. Convivono qui cinesi, russi, buriati, ebrei, zingari, polacchi, tedeschi, ucraini. La rivoluzione e la guerra sortiscono però un pessimo effetto sull’economia del paesino, che rimane spopolato. Una ripresa si avrà solo negli anni Cinquanta, con l’apertura di nuove aziende, per poi ricadere nella crisi del crollo dell’Urss. Vanta una bella e particolare chiesa, oggi in ristrutturazione, che risale al 1913 ed era parte di un convento ormai in rovina; poi ci son izbe e periferie di lamiera e fumo, campetti da basket con le capre, vecchi palazzi molto storti, che resistono con quella inspiegabile, irrazionale e cieca forza russa, e un Lenin che osserva tutto il viavai del divenire in silenzio.






















Io sto ‘na crema, invece, in questo bellissimo alberghetto tutto carino, fresco e nuovo, incastrato al secondo piano di un sovie-palazzone nella via centrale del paese. Via Lenin, ovviamente.




Il personale, dopo avermi detto di portar pure bagagli e bici in stanza e aver visto le quantità di fango e schifo gocciolante che ho menato meco, sta un po’ meno bene. Ma che ci volete fare? Io e la Signora abbiamo la strada addosso, e tutta questa terra son granelli di libertà.
E zozzura. Sì. Siamo luride e sporche. Ma a me basta una doccia, alla Signora un acquazzone notturno, e siamo bellissime e scintillanti, rosse schegge di vento nei cieli di Russia.
Poi g'avemo l'anguria che è un sorriso scarlatto per natura sua, che vuoi di più?

 




2 commenti:

  1. Tu, bellissima e scintillante, hai scattato una foto che è un capolavoro di fresca gioia. Sila

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  2. la tua avventura è straordinaria brava volpe e grazie x i posti che a me sconosciuti mi fai conoscere anche nei dettagli sei mitica

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