Fortuna che, a parte gli Urali e
la Mongolia, mi immaginavo questo viaggio fondamentalmente in piano! Che belle
le illusioni che accarezziamo piano per non svegliarle, per non svelarle e
scoprire quanto poco siano aderenti al vero e frutto solo di un ottimismo
tipico di quando si è a casa, con il culo sulla sedia, al comodo.
La tappa di ieri, Ferragosto, è
stata veramente faticosa, infinita, lunghissima. I kilometri eran sempre
davanti e mai dietro alle spalle, sempre ancora tanti, troppi, e intanto
passavano le ore. Ho proprio avuto l’impressione che il tempo si dilatasse,
smagliandosi e stirandosi in strappi di luce via via più obliqua e ramata. I
motivi son presto detti: vento contrario a stecca e teso, salite, strada
sfasciata e a tratti impercorribile.
E quando dico impercorribile,
intendo proprio da fare a piedi. Ora vi do l’immagine definitiva della
frustrazione: siccome qui son tutte salite e discese che si susseguono una dopo
l’altra, quando si scende è bene prendere molta velocità in modo da guadagnare
almeno una parte della successiva rampa. Ma in discesa la strada è sventrata,
esplosa, con sassi enormi e sabbia, fango, cocci. E quindi devi scendere piano,
con il freno tirato, pianissimo, sempre più piano, a volte addirittura
procedendo a piedi. Così da arrivare all’inizio della nuova salita praticamente
fermi. E via così, da una discesa castrata a un’altra salita.
Oltretutto son stata costretta a
cambiare il percorso della traccia, studiato con cura da cartografo
napoleonico, a causa del pessimo stato del fondo stradale. Avevo infatti
pensato di lasciare l’autostrada, stretta, trafficata e pericolosa per gli
spostamenti d’aria causati dai tir, per una strada secondaria che passava nei
paesi, era più corta e con molto meno dislivello (correva ai piedi delle
colline, senza tagliarle a metà, come fa invece la principale). I primi 30km
circa sono stati effettivamente così, piacevoli e tranquilli, tra paesini,
boschi e laghetti.
Poi, ahimè, la strada è diventata
un sentiero di fango spesso, sabbie mobili impercorribili, e m’è toccato
tornare a riprendere l’autostrada, facendo kilometri e salite inutili, sempre
controvento. Che fastidio.
Quanta sia stata la fatica lo
dimostrano anche il numero di soste e di barrette fiocinate, cosa per me
inconsueta. Di solito sono a bassissimo consumo e, finchè sono in sella, tendo
a non mangiare quasi nulla, perché non ne ho bisogno ed evito problemini di
reflusso e altre belle cose così.
Ieri invece no, ero sempre
sull’orlo del calo di zuccheri, molle, una volpe di gelatina semitrasparente.
Troppa fatica, tra tutto.
Quando poi ho pensato che peggio
di così era difficile che andasse (la pioggia era esclusa, visto il cielo
azzurro) sono pure comparse mucche e pecore sull’autostrada. Il che non mi
stupisce più.
Ma mentre ero ferma all’ennesima sosta, ad osservare gli slalom
dei tir e delle auto per evitare gli animali in mezzo alla carreggiata, un
tizio in jeeppone quasi investe un agnello, inchiodando all’ultimo e fermandosi
ad inveire contro i pastori, accoccolati dietro al guard-rail. Ne nasce una
mezza rissa in mezzo all’autostrada, manate, urla e spintoni, mentre le auto
strombazzano perché, in effetti, se stai andando a 130km/h e ti trovi
improvvisamente davanti mucche, pecore, due pastori e un fighetto (uno tsar-ro)
che se le danno, un po’ alla sprovvista vieni pur colto. Fortuna non "hanno uscito 'o kalash'".
I paesaggi non son stati molto
diversi da quelli di ieri, solo un po’ meno selvatici e con più aree agricole.
e altri mille... |
L’unica città grandina incrociata
è stata Borodino, che non è quella famosa per la battaglia in cui Kutuzov fece
perdere a Napoleone, che pur vinse, oltre 80.000 uomini (di russi sul campo ne
restarono “solo” 50.000), raccontata in Guerra e pace. Da quella sono passata
l’anno scorso. Questa Borodino, invece, è stata fondata nel 1949 come
insediamento per i minatori impegnati a violentare il ricco bacino carbonifero
che riposa in quest’area dei monti Saiani. Ha ricevuto lo status di città solo
nel 1981 e, su questa terrazza panoramica che accoglie chi arriva, c’è un
monumento che piacerebbe molto a Salvini: un’immensa ruspa in ghisa con i
colori della bandiera russa. In compenso, c'è una Trattoria Lenin che è un spettacolo. Direi che è tutto chiaro.
La mia meta, così sudata, così
desiderata per ore di fatica lenta e viscosa, era però Kansk.
Dovrebbe essere una bella
cittadina. Dico dovrebbe perché una malaugurata serie di sfortunati eventi mi
han costretta ad uscirne rapida come una freccia delle avanguardie dell’Orda
d’oro. E’ stata fondata nel 1628 come roccaforte, presidiata dall’ormai solita
milizia cosacca che doveva proteggere le strade e le stazioni di posta dagli
attacchi dei nomadi mongoli e kyrgizi. Poi s’è scoperto il giacimento di
lignite e carbone, è arrivata la strada da Mosca e pure, a fine Ottocento, la
ferrovia. La città era già molto sviluppata, con numerose fabbriche (cuoio,
sapone, vodka, cera, lavorazione dei minerali), scuole e persino, dal 1911, il
cinema Furor (oggi museo di storia locale), comparso qui prima della biblioteca
pubblica. Durante la Seconda guerra mondiale Stalin spostò qui grossi impianti
di produzione tessile e alimentare, che poi son rimasti, e furono aperti ben 5
immensi ospedali militari, chè i feriti arrivavano a vagonate dal fronte. La
città si sviluppò ulteriormente come centro industriale fino agli anni Ottanta,
raggiungendo gli attuali 100.000 abitanti. Ha ospitato, fino a una manciata di
anni fa, anche una base dell’aeronautica militare.
La città è nota anche per i
gulag e i campi di lavoro in cui son finite migliaia di anime, prima sotto gli
zar, dai decabristi ai marxisti, poi sotto il regime sovietico, in particolare,
nemmeno a dirlo, con Stalin. Oggi, nonostante tutto, potrebbe essere una città
carina, con il suo arco di trionfo e le poche schegge di fiume Kan che si
intravedono dal ponte, se solo non mi avesse tirato un altro pacco con gli
alberghi.
Dopo la tappa campale, che
davvero non vedevo l’ora finisse perché ero bollita dalla fatica e disseccata
dal vento, m’è pure toccata la sorpresina finale.
Puntavo alla gostinitsa Sibir’,
nome che porta evidentemente sfiga per gli alloggi (si chiamava così anche
quella dei bimbi randagi), immenso blocco in cemento tanto brutto quanto grande
e facile da trovare, in pieno centro. Arrivo, entro tutta feliciona e, in due
parole, la rospaccia platinata della reception, sgarbata e gonfia, mi fa
incrinare il sorriso sul volto: “Niet miesto”. Non c’è posto. Ma dai. Ma che
significa. Ma sei sicura? A Kansk, qui, in questo bucio de culo di una terra
dura e inospitale, così tanta gente da riempire un hotel? Da. E che sfiga. Dopo
molto insistere, il biondo batrace mi dà l’indirizzo di un’altra struttura, a
4km circa, tale Medved (orso), fuori dal paese. La trovo anche su Google e via
che riparto, con l’ansietta che sale e sale.
I 4km, tra l’altro, erano tutti
di strada devastata dai lavori in corso, praticamente da fare con la bici a
mano. Ha anche iniziato a piovere. Mancava davvero solo il lamento di un
violino triste in lontananza. Raggiungo finalmente il Medved, che è il classico
motel sulla strada, e, una volta dentro, prima che io proferisca verbo, vengo
bloccata sull’uscio da un “Niet miesto” di un secondo batrace, sosia di quello
del Sibir. Non ci posso credere. Ma un divano, una poltrona, un anfratto, un
tavolaccio? Niet miesto. E che cazzo.
A quel punto ho avuto, per un
attimo, una frazione di secondo, un totale crollo. Stava facendo buio. Ero
troppo stanca per fare altri kilometri. Pioveva. La strada era tutta a salite e
buche e sassi. Ma dai. Perché devo essere così sfigata? E adesso? Dormo qui al
bar che è aperto 24 ore? E se poi mi cacciano prendendomi per una barbona? Ma
sono, fino a prova contraria, una senzatetto, adesso. Cerco un taxi? Trovarne
uno che porti la bici, qui e quest’ora, è impresa quasi impossibile. E intanto
la disperazione monta e fa perder lucidità, tutto si annebbia, si annacqua, e la
confusione grigia e opaca sale e sale e confonde ogni cosa. Per fortuna io sono
strutturata come certe navi, con le porte stagne e impermeabili da chiudere per
limitare le falle, per contenere l’acqua che entra dalle ferite aperte sullo
scafo. Se imbarco acqua di disperazione e inizio a inclinarmi, molto, molto
prima di lasciarmi affondare, chiudo ermeticamente la porta da cui entra la
paura e guadagno tempo e lucidità per trovare un porto dove condurre in salvo
la nave, cioè moi.
Con molta, moltissima calma ho
chiesto alla brava rospa se ci fossero altri motel sulla strada e lei mi ha
risposto che sì, a 800 metri sulla destra c’era l’Uyut. Cerco su Google e mi
risulta sia solo un kafè, che per altro sta per chiudere. Le spiego il problema
e lei ribadisce che no, ha anche le stanze. Ok. Sperem. Rimonto in sella e
faccio gli ultimi, questa volta davvero, metri della giornata, arrancando nella
sabbia fradicia che si mangia le ruote della Signora.
Mi si para davanti una struttura
bella, tutta a fiori e piante, finestre e tendine. Un paradiso ritrovato.
“Siate buoni non ditemi che non c’è posto o è chiuso o altri cazzi per favore
per favore accogliete una volpe stanca per favore non ho dove andare e fa buio
ormai e freddo per favore” pensavo entrando. Dopo qualche attimo di panico in
cui l’anziana e occhialuta receptionist mi ha guardata come se fossi una folle
di dio a chiederle se avesse una stanza, mi dice che sì, certo, c’è posto per
me, c’è il garage per bici. Signora con gli occhiali, ti amo tantissimo.
potenti mezzi in parata |
In breve prendo possesso della
camera e, per di più, mi viene portata la cena in stanza perché il ristorante
sta chiudendo. Sicchè cuoca, cameriera, receptionist e altre clienti di mezza
età un po’ brille mi adottano e mi coccolano in tutti i modi, tra cibo,
chiacchiere, complimenti e aiuto concreto nel portare i bagagli. La cosa si ripete anche la mattina successiva, con colazione dello chef a base di pane, cotechino e burro. Una roba leggera.
la cena: pesce pressochè intero fritto, purè, insalata a tocchi grossi di ver-dura, pane |
Ciò mi ha dato ulteriore conferma
dell’impressione raccolta i giorni scorsi in merito alla gente di questa
Siberia sempre più difficile e disumana: la durezza e le asperità dei luoghi,
del clima, della storia di sangue e cemento e di un’economia che ride solo a
pochi (perché la Rivoluzione è fallita sì) sono una lama affilatissima che
divide le persone in due gruppi ben distinti. Da un lato stanno coloro che
hanno accettato la durezza e si sono adeguati ad essa, diventando a loro volto
cemento e acciaio, ghiaccio e pietra. Gli stronzi. Dall’altro ci sono quelli
che, invece, proprio reagendo alla difficoltà di essere esseri umani da queste
parti, rispondo al freddo con il calore, con l’accoglienza, con la gentilezza.
Per me, per la mia tenuta psicologica e fisica, è indispensabile avere a che
fare con i secondi, ed evitare come la peste i primi. D’ora in avanti una delle
grosse difficoltà sarà questa: imparare a distinguere le ombre sui volti,
intuire con le vibrisse di volpe dove stiano coloro di cui ci si può fidare,
perché ancora umani e capaci di sentire i bisogni del prossimo, e tenermi alla
larga dagli anaffettivi, dagli indifferenti, da coloro che, per i rigidi
inverni e la molta fatica, hanno ormai il cuore di ghisa.
La tappa di oggi, per fortuna, è
stata breve. Salite e vento contro ci han provato di nuovo a rendermi
impossibile il viaggio, ma sono arrivata a destinazione prima della stanchezza.
Avevo bisogno di ricaricare le batterie ed è stata l’occasione per fare un po’
di kilometri d’avvicinamento a Tajset, meta di domani. Dovrò partir presto,
perché, uscendo dal krai di Krasnoyarsk ed entrando nell’oblast di Irkutsk
(ebbene sì, che bello! Il Bajkal si avvicina… O meglio, sono io che mi avvicino
al Bajkal!) perderò ancora un’ora a causa del fuso. E’ l’ultima volta che
sposto in avanti le lancette. Poi ci sarà il frastuono del rewind di 6 ore
tornando a casa, ma questa è un’altra storia.
Da Kansk si esce così, con un Lenin che dice: "Ma che bel tempo di merda anche oggi!"
Dunque oggi pochi kilometri,
tutti nel verde verdissimo dei boschi dei Saiani, in un continuo bisbigliare
d’argento delle foglie. Luce di latte, cielo bianco e azzurro a strappi, rami,
gocce di luce, linfa che corre nelle vene dei tronchi.
Pedalando ho visto la
mia ombra, di lato, a terra, spostarsi in questo ambiente surreale, così altro,
così lontano. Ho avuto un brivido di consapevolezza che questi attimi sono
eterni, ormai, nel loro effimero divenire, eterni per me che son misura di
tutte le cose, eterni sotto la pelle e impressi nell’iride, scritti sulle linee
lunghe del palmo della mano. Eterni, attimi già fuggiti, eterni e miei per
sempre. Sto scrivendo la mia storia, che è una gran bella avventura, e questa
sono io, e la mia vita è una collezione di istanti, non tutti pieni di luce, ma
nessuno del tutto inutile e privo di valore. Io che ho sempre avuto la paura di
vivere un’esistenza eterodiretta, decisa da altri, di essere ammanettata ai
fili di un qualche burattinaio, ecco, ora ho disinnescato queste ansie. Tutta
questa fatica è libertà guadagnata metro a metro.
Con questi pensieri sono
approdata alla vicina meta di oggi, passando per Ilanskij, città “rossa” dalla
prima rivoluzione del 1905 e bolscevica non per forza ma per amore (cosa rara
da queste parti, dove quasi tutte le città, casa di imprenditori, mercanti e borghesi,
si erano schierate dalla parte dei bianchi).
Poi ho attraversato Verkhniy
Ingash, città lineare, con una fila di case a destra e una a sinistra rispetto
all’autostrada che passa in mezzo
e infine Nizhny Ingash,
dove mi sono fermata
al Bayazet. Anche qui la signora non voleva darmi la stanza ed è stato tutto un
gran contrattare e impuntarsi; alla fine, mi son trovata sola in una camera
enorme, una reggia per volpi. Fuori, i consueti animali imbalsamati a render
tutto più macabro.
Avendo tempo, ho esplorato il
paesino, fondato nel 1775 e considerato città dal 1961.
Ci sono le consuete casine di
legno e i palazzoni
L’immancabile monumento ai
caduti, in una piazza centrale che, nonostante i fiori, è piuttosto tristerella
Il municipio con un cranio di Lenin
molto, molto serio e corrucciato, che vede che fine ha fatto il suo sol dell’avvenire
Una chiesa in legno e una che
pare una bomboniera brutta
E un lago che invece riporta alla
pace dei sensi.
P.S. concludo rapidamente il
resoconto perché è appena sfrecciato lungo il muro un ratto grosso come un
vitello. Anche qui! Già ho sempre il mio bel da fare a casa con quelli che mi
portano i gatti… E niente, adesso devo andare a caccia.
Anche da noi nonostante il clima temperato c'e' chi ha il cuore di ghiaccio.... ed occorre guardarsene
RispondiEliminaSperavo che tu potessi ricordare la tappa di Ferragosto meno faticosa e meno frustante. La belle persone e la struttura " tutta a fiori e piante, finestre e tendine", dove ti sei fermata per la notte, siano di buon auspicio nel proseguire questa tua "gran bella avventura". Sila
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