Oggi è stata proprio una bella
tappa.
Tutta giusta, liscia, senza
problemi, tranquilla, di fatica onesta.
I vari casini occorsi nei giorni
passati per trovare una sistemazione per la notte mi avevano messo addosso una
fastidiosa sensazione di incertezza, di insicurezza. Io posso fare tutta la
fatica del mondo in sella, e affrontare salite e vento e intemperie, ma con
l’idea di avere una meta certa, un porto a cui attraccare per riposarmi,
scaldarmi, rifocillarmi e stare al sicuro dal tramonto all’alba. Perché la
strada è vita, ma se presa nelle dosi giuste e sprattutto nei giusti tempi.
Ora qualcuno dirà: perché non hai
una tenda? E’ il primo viaggio in bici che faccio senza la mia fida Ferrino; ho
solo il sacco a pelo per gli ostelli ed eventuali alloggi/ripari di fortuna,
proprio alla peggio peggissimo. Non ho la tenda perché il campeggio libero,
qui, non mi dà grande sicurezza e vorrei evitare di dormire con gli occhi
aperti come Gandalf e con il serramanico in pugno. Il clima, come ci si può
aspettare dalla Russia e dalla Siberia in particolare, non è dei migliori e
pioggia e fango la fan da padroni, senza contare gli insettazzi (anche zecche
che trasmettono l’encefalite ecc), i cani randagi, gli ubriachi molesti e la
polizia, la militsja, con la quale non voglio proprio aver a che fare. E di
campeggi ne ho visti ben 3 in 5000km. Quindi no, la tenda ho deciso di non
portarla, studiando le tappe in modo da arrivare sempre ad almeno una
struttura, motel, ostello o locanda per naufraghi che sia. Finora non ho avuto
problemi perché mi muovo presto, arrivo presto, batto terre tutto men che
affollate dai turisti e occupo poco spazio e ho una faccia bella da volpe.
Ma i giorni scorsi ho davvero
rischiato di non aver un posto per fermarmi e quindi di dovermi arrangiare
altrimenti, e la cosa mi ha messo addosso l’ansietta, come il mare quando si
increspa al vento teso.
Oggi invece è andato tutto bene e
ho riacquistato fiducia in questa terra difficile e poco ospitale per natura;
le onde si sono placate e i miei cieli sono di nuovo sereni. Pedalare così,
leggeri e pieni di fiducia, è bello, bello davvero.
Dicevo che i miei cieli sono
sereni, ma soltanto i miei, perché quello vero oggi è stato veramente
imbronciato tutta la notte e tutto il giorno. Sveglia presto, colazione con
Luisona d’annata (e dannata) e caffè solubile in gamella di latta e via, sotto
una pioggia fine fine che mi ha fatto compagnia per l’intera giornata. In
realtà, passati i primi dieci minuti, non mi sono più accorta del fatto che
stesse piovendo: non faceva gran che freddo, mi ero coperta a dovere, e la
visibilità era buona, così come buone sono state le strade, oggi perfette, con
l’asfalto nuovo e liscio e il bordo ampio. E poi, da non crederci, il vento per
lo più a favore. Una cosa mai vista. Si sarà sbagliato, avrà capito male le mie
intenzioni di rotta. Fatto sta che mi ha dato una bella mano sulle solite
salitine, oggi meno aggressive e più stese dei giorni scorsi (se si guardano le
statistiche, il dislivello positivo è stato di 666m. La Signora sta cercando di
evocare i demoni siberiani?!).
Insomma, una pacchia. Non mi sono
nemmeno accorta dei kilometri che scorrevano sotto alle ruote, mentre pedalavo
tra boschi neri e nuvole basse, così basse da sembrar nebbia e avvolgermi in
un’ovatta umida e morbida, quasi che l’aria fosse di cotone.
Ho attraversato qualche
microscopico villaggio di legno semi-abbandonato, dove l’unico problema sono i
cani randagi o dei pastori che, come proiettili, schizzano fuori dal nulla di
cortili invisibili e te li ritrovi attaccati ai polpacci, con la doppia paura
di esser morsa e di tirarli sotto, che comunque mi dispiacerebbe e avrei pure
l’accollo del cane zoppo da curare.
Fatto sta che in un baleno sono
arrivata al confine tra il krai di Krasnoyarsk, alle spalle, e l’oblast di
Irkutsk, davanti a me. Nel giro di un metro ho perso un’ora di tempo: ora sono
a +6 rispetto all’Italia; è l’ultimo fuso che cambio.
Mi ha colpita subito lo stemma
dell’oblast: ai lati due strisce blu, che sono il Bajkal e il fiume Angara. In
centro, su striscia bianca che è la neve, circondata da rami di cedro, una
tigre siberiana (babr, parola persiana) nera con uno zibellino rosso tra le
zanne. La cosa che mi ha colpita è che lo zibellino è in realtà lo stemma e
l’animale araldico di tante regioni finora passate; come se questa oblast se le
volesse mangiare tutte in un boccone.
E’ una regione di colline e valli
dell’altopiano siberiano centrale, con enormi fiumi e lui, IL lago a cui punto
da un mese e mezzo, una prima meta del cuore sulla strada per la Mongolia.
Da queste parti i russi sono
arrivati ben tardi: le prime tracce di insediamento umano risalgono alla tarda
età del bronzo e son tombe di culture provenienti da sud, di nobili guerrieri
con gli occhi a mandorla sepolti con le armi e lo sguardo rivolto a oriente.
Per tre secoli, due avanti e uno dopo Cristo,
si è spinto fin qui l’Impero Xiongnu, confederazioni di popoli nomadi
tuttora avvolti nel mistero, di cui la storia (che si basa su fonti
esclusivamente cinesi) ben poco conosce; poi, fino al 234, il potere è passato
nelle mani dello stato mongolo Xianbei, un impero nomade di cui si sa ancor
meno. In seguito, fino al 555, hanno governato gui i signoi della guerra del
khanato di Rouran, altra confederazione di nomadi collegati con gli Avari. Dopo
un periodo di “medioevo” di cui non restano tracce evidenti all’archeologia, è
arrivata la grandiosa furia dell’Orda d’oro, che proprio all’inizio della sua
immensa espansione a occidente ha sottomesso queste terre dichiarandole parte
dell’Impero mongolo di Gengis Khan; siamo tra 1200 e metà 1300. Infine, dopo la
disgregazione dell’impero e l’espulsione dalla Cina, e fino al 1691, ha regnato
qui la Dinastia Yuan settentrionale, sanguinoso coagulo di principi in lotta
per il titolo di Gran Khan. Di tutte queste etnie è rimasta traccia
nell’oblast, benché la stragrande maggioranza della popolazione sia di
discendenza russa. Loro, i conquistatori, sono arrivati qui solo a fine
Seicento, sull’onda dell’espansione nel “far East” dopo la conquista del
khanato di Siberia, nel 1582; in un primo momento qui si avventuravano solo
cacciatori e cercatori d’oro, ma, con l’espansione oltre il Bajkal, Irkutsk e
il suo territorio divennero nodo cruciale per i commerci e per il transito di
merci e carovane. Venne a crearsi una classe di ricchi mercanti che fecero
della città il simbolo di Siberia, la sua più grande espressione; da qui Bering
organizzò le spedizioni alla scoperta del nord del Pacifico, le compagnie
commerciali strinsero accordi con la “concorrenza” americana e questa economia
in decollo fece crescere Irkutsk e altre città in dimensioni e servizi. L’arrivo
delle strade e della ferrovia non fecero che accelerare ulteriormente questa
tendenza.
Tuttora è una regione piuttosto
ricca, con stipendi medi più alti del resto della Russia e basata su industrie
pesanti e siderurgiche, raffinerie e di produzione di macchinari. Nonostante il
benessere piuttosto diffuso, in questa oblast, nello scorso decennio, è esplosa
una vera e propria epidemia di HIV, che si è diffuso strisciando di vena in
vena tra coloro che abusano di droghe (centinaia di migliaia, a quanto pare. Considerando
quanto poco sia popolata la regione, la cosa è preoccupante).
Detto questo, torniamo a me,
sotto la pioggia, sulla strada, tra i boschi scuri e le nuvole basse.
Ho attraversato il fiume Biryusa
e in un soffio di verde fradicio sono arrivata alla meta di oggi, Tayshet (che
in lingua Ket signifca fiume freddo… e in effetti il Biryusa resta ghiacciato
da novembre ad aprile).
Mano a mano che mi avvicinavo mi si affollavano in
testa ondate di preoccupazioni riguardo agli alloggi, al razzismo di certi
ceffi, al rischio di trovare i due alberghi della città già tutti pieni… Invece
no, invece no. E’ andato tutto benissimo. L’enorme ecomostro omonimo del fiume,
il Biryusa, mi ha subito accolta con il viso sorridente della rubizza
receptionist. Ci sono anche la palestra, il centro sportivo, la sauna e il
ristorante, nonché una colazione a sorpresa che mi attende domattina. Insomma,
c’è tutto. Sorge pure in centro, proprio di fronte alla stazione, che si vede
dalla mia finestra.
L’insediamento è stato fondato
solo nel 1897 come cantiere per la costruzione della Transiberiana, ed è
diventato città nel 1938. Proprio in quel periodo, tra gli anni ’30 e ’50, è
stata centro amministrativo dei due campi di lavoro gulag Ozerlag e Angarstroy.
Non è un caso che la BAM, la ferrovia Baikal-Amur, che parte da qui ed è stata
costruita a partire dal 1937 come ramo della Transiberiana, sia stata
realizzata tanto in fretta. Erano i deportati ad ammazzarsi, letteralmente, di
lavoro. Stando alle testimonianze di alcuni sopravvissuti, sotto ad ogni
traversa dei binari c’è un uomo morto. Erano quasi tutti prigionieri di guerra,
giapponesi e tedeschi, condannati a 25 anni di lavori forzati. I prigionieri
tedeschi sono stati rilasciati nel 1955 quando Adenauer, allora cancelliere
della Germania ovest, andò in visita a Mosca.
Oggi la città dispone di stazione
con monumento ai caduti e locomotiva,
case di legno e mattoni e
palazzoni abbelliti in maniera pittoresca,
altri monumenti che invitano alla
pace e alla fratellanza,
quel che resta della chiesa (c’è
anche una moschea, da qualche parte, ma non l’ho trovata),
il vecchio acquedotto,
mucche nelle aiuole del centro
e un accenno di sole da day after
di un conflitto nucleare, che comunque domani sparirà perché è prevista pioggia
tutto il giorno. Yay.
Vi lascio due extra: le patatine
al gusto panna acida (smetana) e porri, che sono, vi giuro, la fine del mondo,
anche se detta così potrebbe non sembrare
E una volpe che, quando si
accovaccia a scolare il fango e l’acqua prima di insozzare tutto, mostra le sue
nuove zampe di pollo ruspante. Mado’ che brutta roba. Ma è solo la prospettiva,
dai, vista dall’alto è tutto normale.
Quando sorridi tu, sorride il mondo. E, quando il mondo ti sorride, il cuore di chi ti segue si riempie di gioia. Sila
RispondiElimina