lunedì 14 agosto 2017

Quarantaquattresima e quarantacinquesima tappa. Il canto d'oro e sangue dell'Enisej. Krasnoyarsk, i popoli scomparsi e gli spigoli cupi della Siberia






Quasi senza dubbio in questi raviolotti vareniki 



c’era un’abbondante dose di droga. A me parevano semplici saccottini di pasta ripieni di semolino dolce, bolliti e serviti con la smetana a parte. Ma siccome poi ho pedalato 141km con oltre 1000 metri di dislivello, il vento e un caldo atroce, senza nemmeno accorgermi di aver già bruciato l’intera tappa, evidentemente, nei vareniki c’era la droga. La tappa di ieri, in effetti, è stata lunga e tutta, dall’inizio alla fine, in un infinito rosario di salite e discese, strappi secchi sui fianchi di queste colline sempre più ripide, o almeno così pare quando si inizia ad agognare la pianura… Che non verrà più, in questo viaggio. Tuttavia non posso dire di essermi stancata o di aver sofferto più di tanto. Sarà l’allenamento, sarà che psicologicamente sono ormai temprata e quindi, se ho molti km davanti a me, riesco a tenere la strada anche per ore senza mollare di un soffio. Sarà la droga nei ravioli. L’unico problema è stato quello del rifornimento idrico. Parto sempre con la borraccia piena (e con i sali minerali) e una bottiglia di scorta, considerando che sulla strada si trovano comunque benzinai o persino kafè dove è possibile comprare tutta l’acqua che si vuole. Ecco, di solito è così. Ma non nel krai di Krasnoyarsk, dove per 100km non trovi altro che bosco e bosco, pineta e pineta, bosco e pineta, pineta e bosco.






Sicchè per circa tre ore di sole cocente e salite malandrine che fan sudare come un cinghiale ferito, mi son dovuta far bastare le ultime tre dita d’acqua della borraccia, centellinandole in sorsi sempre più piccoli, giusto per inumidire le labbra e la lingua. Al primo baracchino che ho poi trovato ho scolato un litro e mezzo di acqua e limone così, alla goccia, guadagnandomi la stima degli astanti, dei camionisti e della barista.



Il paesaggio è stato piuttosto monotono e piacevole, verde verdissimo e con aperture d’azzurro tra un bosco e l’altro, strappi d’immensa luce e orizzonti smisurati.





E di nuovo boschi davanti, sulla discesa, e boschi dietro, sulla salita appena percorsa. Così per ore. 




L’unica traccia d’umano è ahimè, quella dei venditori di cose a bordo strada. Se le suddette cose sono, di solito, funghi, pigne, fragoline di bosco e mele, questa volta tra le merci esposte si annoverano per lo più pellicce e animali imbalsamati. Orsi, lupi, cervi, volpi. Un cimitero.





In questi boschi immensi c’è ancora tanta fauna selvatica che vive libera dalla presenza umana, in un ambiente naturale a tratti incontaminato. Ma l’uomo c’è, eccome se c’è. E si avventura armato tra i tronchi e le felci e spara e ammazza, in un fuggi fuggi di corvi che si levano in volo spaventati dal colpo. E non viene risparmiata la madre, non vengono risparmiati i cuccioli. La morte arriva improvvisa e senza motivo, se non guadagnare qualche rublo in più e farsi fotografare, con il sorriso idiota della violenza, accanto alla preda. Ora, fra l’altro, io posso ancora capire il cacciatore, che qui è un lavoro a pieno titolo e non viene messo in dubbio da ombre di coscienza. Ma chi compra, chi alimenta questo mercato no, non lo capisco. Come può uno accostare nella polvere con il suo suv e tastare le pelli e accarezzare le pellicce, contrattando sul prezzo di quella morte, e poi ripartire con un orso impagliato nel bagagliaio? Specie se è qualche turista idiota che cerca l’esotico e crede così di poter vantare di essersi spinto più in là dei suoi amici, con i quali si fa bello dell’acquisto osceno.
E ciò vale per la pelle d’orso qui in Russia, per la foto con la tigre sedata in India, per il giro in cammello o in elefante e per il corallo strappato dal suo abisso. Siamo una brutta razza.
Fine dello sfogo.
Fortunatamente non sono nemmeno poi troppi i cacciatori che vendono la loro roba a bordo strada, e sono più gli spazi di foresta libera e selvaggia che quelli rovinati dai nostri simili. Almeno qui.
Pedalando presta e lesta son arrivata, tra case di dubbio gusto, alla meta di ieri, ovvero un ostello all’interno dell’aeroporto di Krasnoyarsk. Perché prima, come dicevo, non c’era nulla, fuor che boschi. 







Così mi sono potuta fermare in periferia, per spostarmi in centro con tutta calma il giorno successivo, cioè oggi, tattica ormai consueta quando intendo visitare una città grande. L’ostello, popolato da hostess assonnate e da personale dell’aeroporto, è più che buono, quasi deserto e tranquillo. Ha solo due problemi: il primo è che non c’è modo di cenare o di reperire cibo, se non cose piccole e tristi nell’unico negozietto in zona; la micro-cena mi ha costretta a un infinito via vai alla macchinetta delle schifezze e del caffè, perché sono una volpe ma mangio come un lupo famelico. 



Il secondo problema è che c’è un solo bagno ed è al pian terreno. Io ero al quinto. A parte le rampe di scale fatte su e giù con le borse, su e giù coi sacchetti e il resto dei bagagli, su e giù con la bici, su e giù per ogni richiesta e informazione, si aggiunge la questione della pipì notturna; che non sarebbe nemmeno grave, non fosse che nel rincoglionimento, tornata in stanza e senza accender la luce, ho preso in pieno un mobiletto in legno massiccio; quello si è fracassato, io anche. Sono qui piena di lividi… Lo so già che, mai dovesse succedermi qualcosa, non sarà in bici o sulla strada, ma nelle situazioni più innocue e tranquille, quando ci si sente al sicuro e l’attenzione cala. Tipo tagliarmi un dito mentre apro una latta con il coltello o arruzzolarmi sulle scale mentre vado al cesso. In fondo la gente si fa male per lo più in ambiente domestico, e non è un caso.
Fatto sta che, tutta sacagnata e livida, stamattina sono scesa a far colazione, quella sì offerta dall’ostello e davvero ben degna. Il salametto lì nel panino non l’ho ancora digerito ma amen.



Sotto un cielo plumbeo sono ripartita alla volta del centro di Krasnoyarsk, capoluogo del krai; dopo dieci minuti mi son resa conto di aver sbagliato tutto nell’abbigliamento: ieri c’erano 30 gradi, oggi 6. E ha iniziato presto a piovere di una pioggina finissima e gelida, spilli di ghiaccio. Che tempo di merda. O troppo caldo o troppo freddo. Siberia, mon amour, sei tanto bella ma quanto a clima fai proprio cagare.
Così i 50km scarsi di oggi non son stati piacevoli affatto: freddo, freddo, sempre più freddo nonostante i vari strati aggiunti mano a mano. Perché in salita sudi comunque, in discesa ti surgeli come un’aringa del Baltico, con la pioggia e il sudore che ti si raffreddano addosso e mi vengono i brividi solo a ripensarci. Tra l’altro, con la pioggia, le strade si erano trasformate nell’ormai nota apocalisse siberiana, che è fango, è ghiaia, è acqua lercia che nasconde le infide buche. A ciò, si aggiungano le bande di cani randagi che ho incrociato nel primo tratto di strada, che, in due casi, mi hanno inseguita abbaiando forte e ringhiando. E in quei casi te la fai sotto davvero, perché lì, appesa alla bici, in equilibrio sempre precario, c’è poco da fare. Fortuna ero in discesa e sono filata via come una volpe in fuga dai bracconieri, una scheggia bianca e rossa nel vento di piombo. Certo che quei mentecatti che abbandonano i cani andrebbero rieducati come si usava qui un tempo, con le buone maniere e tanto lavoro con la schiena piegata. Perché la colpa non è mica dei cani, che fan quel che possono per campare.
Insomma, quella che doveva essere una tappettina breve e semplice si è trasformata in una piccola agogè spartana, tra freddo e bestie.


 Visto che mi pareva di far troppo poca fatica, ho anche pensato bene di fare una deviazione, prima di spingermi in albergo (in realtà è una nave ma dopo vi spiego meglio). Mi sono issata su su fino alla cappella Paraskeva Piatnitsa, che è un bussolotto bianco architettonicamente irrilevante e non dissimile da una supposta, che però compare sulla banconota da 10 rubli.




In realtà quel che mi interessava era il balcone panoramico sulla città, un must per chi visita Krasnoyarsk. Nonostante in nuvoloni, devo dire che la fatica della salita in più è stata ampiamente ripagata.









Tra l’altro, proprio mentre fotografavo il panorama, due simpatici soldatini hanno esploso un colpo a salve con quel cannone che si vede lì sotto, che pare piccino e però fa un casino allucinante. Era mezzogiorno. Mi pare un modo saggio per scandire le ore, le campane non son mica roba da compagni bolscevichi.



Oltretutto, scendendo dalla collina, ho anche incrociato il grande monumento ai caduti della Guerra patriottica, con i mezzi militari e la fiamma che dicono eterna e invece dura solo un po’ di più delle vite di tutti questi ragazzi massacrati al fronte.












Da lì è stata una volata di discesa ripida verso l’Enisej, l’enorme, grandioso signore della Siberia, che, insieme all’Ob, fa da confine alla steppa e all’altopiano. Il fiume immenso dove desiderava tornare Mandel’stam in una febbre di nostalgia, l’Enisej, con le sue acque cupe e le sue storie d’oro e sangue che corrono verso nord, culla e tomba di tanti popoli.



Dicevo, la mia tana di oggi è il Mayak, il faro. Che è un traghetto sul fiume, cosa di cui mi sono accorta solo in loco. Una bellissima sorpresa!








Tra l’altro il Mayak è attraccato proprio sotto al Kommunalnyy most, il ponte simbolo della città; perché ai russi piace quest’idea di aggiogare la natura, novelli Serse, di unire ciò che è separato per natura e avvicinare ciò che è distante. 





E’ una loro fissazione. E’ per la terra crudele in cui vivono, credo. Qui, oggi, ho avuto proprio la sensazione concreta e ineffabile, ho com-preso quanto questa terra sia maledettamente inospitale, e lo sia stata ancor di più in un passato privo di tecnologia. Krasnoyarsk ha un volto duro, freddo, austero sempre, anche là dove si è tentato di ingentilirla con l’arte. Le statue sono di metallo nero, i palazzi imponenti e pesanti anche là dove vorrebbero essere fini e leggiadri. Per certi versi mi ricorda Belfast, in Irl… ahem, Inghilterra, che mi aveva dato la stessa impressione di austera durezza.
E in effetti vivere qui non è mai stato facile. Se a Ferragosto ci sono 6 gradi, pensate d’inverno. Pensate alla neve e al ghiaccio, a farsi largo in quella morte bianca con fiammelle minuscole, prima dell’energia elettrica e prima del motore. Niente strade, niente riscaldamento, niente luce. Niente. Solo distese di boschi e di neve e a perdita d’occhio. Altro che into the wild.
Dopo una doccia bollente e un po’ di tregua, mi sono buttata sotto al diluvio per visitare un po’ il centro; visto il prezzo popolarissimo e i commenti positivi, ho visitato il museo di cultura locale, che merita anche solo per la struttura in si trova: una specie di tempio egizio farlocco, ben più kitsch degli interni del Pergamon. Perché nell’Ottocento l’antico Egitto piaceva, oh se piaceva! Certo è che un edificio così, qui, fa proprio ridere fortissimo, da far risuonare tutte le vallate dell’Enisej, che no, signori miei, non è il Nilo.




L’interno è quello classico del vecchio museo, anzi, del vecchio museo russo: le cose sono buttate lì alla rinfusa, in modo più artistico che scientifico, e servono a catturare l’occhio del visitatore e impressionarlo più che a dargli nozioni precise.
Un esempio su tutti: la sala centrale è occupata da un velieri tradizionale con cui i primissimi russi e cosacchi condussero esplorazioni sull’Enisej; intorno, ma senza soluzione di continuità, vari modellini di aerei, civili e militari, di ogni epoca, nonché un satellite spaziale. Ma che c’entra? Non bisogna chiederselo, solo ammirare la grandezza del popolo russo che ha conquistate le terre e i cieli. Almeno credo sia questa l’interpretazione.






Macabre le sale con la ricostruzione degli ambienti naturali del krai, tutte fatte con animali impagliati male (a parte il mammuth e i rinoceronti pelosi preistorici); diciamo che va già bene se non sono cadaveri impagliati i manichini dei tartari e dei nenet. 





 




Il vero pezzo forte della collezione, che merita sì una visita, è proprio il piano dedicato alle popolazioni indigene pre-russe, per lo più sterminate o russificate a forza nei secoli, esattamente come accaduto con gli indiani d’America. Volti scomparsi, inghiottiti per sempre dal silenzio della storia. 





















Molto interessanti anche le vetrine dedicate alle esplorazioni Sette e Ottocentesche della Siberia, che dimostrano lo sforzo immenso e la follia che han spinto l’uomo fino a qui, a caccia di pelli e di oro, di ricchezza per la quale tanti han ritenuto giusto morire.





Bella, da ultimo, la ricostruzione della vita quotidiana da queste parti nei secoli scorsi, e soprattutto l’eco dei grandi eventi della storia russa giunta fin qui: il reclutamento per la prima guerra mondiale, i prigionieri austriaci deportati in Siberia e poi arruolati nelle file dei bianchi durante la guerra civile, l’arrivo della rivoluzione, spiegata ai Samoiedi e agli allevatori nomadi di renne (e mi vengono in mente certe scene del film Reds), le deportazioni in gulag, il crollo dell’Urss, in cui ancora alcuni non credono.













Insomma, bello.
Da lì mi sono poi spostata all’inizio del ponte, dove sorgono il Big Ben de noantri e il municipio, nonché, difronte, la piazza centrale, con il teatro dell’opera e del balletto. E le fontane, perché piove abbastanza poco già. Accanto varie statue, tra cui quella composita dedicata ai fiumi.















Infine mi sono trasferita sull’Ulitsa Mira, considerata nel suo insieme patrimonio culturale perché ricca di teatri, università, case mercantili e palazzi dei secoli scorsi, sia di fine Ottocento, sia di epoca stalinista. Antico e moderno si mescolano in un alternarsi di stili archiettonici. E nemmeno qui c’è un senso logico, solo senso di straniamento e meraviglia.



































Fermiamoci un attimo a dir due parole su questa città, fermata di Transiberiana e terza per numero di abitanti in Siberia. La fondazione risale al 1628, quando un manipolo di cosacchi fu inviato a costruire una fortezza a difesa delle strade commerciali e delle rotte sull’Enisej;



 si chiamava, la fortezza in legno, Krasnyy Yar, Riva rossa, nome che fu poi trasformato in Krasnoyarsk nel 1822, quando divenne città. Tra 1735 e 41 l’insediamento crebbe grazie all’arrivo della vecchia strada postale (oggi l’autostrada M53, quella che sto seguendo io) che la collegava ad Achinsk e poi a Mosca. Nel 1895 fu poi costruita la stazione della Transiberiana e l’economia della città decollò. Fabbriche e magazzini si moltiplicarono, e questa tendenza rimase sia poi durante i piani quinquennali sia durante lo stalinismo, sia dopo la guerra, che portò qui numerose industrie dal fronte. Fu anche, e da sempre, luogo di confino ed esilio: per i decabristi, per i liberi pensatori invisi allo zar, prima, e per i nemici del popolo e della rivoluzione poi. Furono esiliati qui sia Lenin sia Stalin, che poim dopo aver ben appreso la tecnica della repressione sulla sua pelle, la mise in atto facendo sorgere qui e nei dintorni ben tre campi di lavoro forzato
Dopo la seconda guerra mondiale, oltretutto, Krasnoyarsk divenne “città proibita” sia agli stranieri sia ai russi stessi, se non con speciali permessi, perché ospitava industrie di armi e di lavorazione del plutonio. Dopo il crollo dell’Urss la città ha sofferto di quella crisi che ha investito l’intera Russia, tra privatizzazioni selvagge, oligarchie a capo di politica e aziende e altre malversazioni. Oggi la situazione pare stia migliorando e anche l’aspetto della città ne trae giovamento. Anche se, ripeto, da ogni mattone, da ogni asse di legno, da ogni lastra di cemento emerge tutta la mastodontica fatica che la gente ha fatto per poter vivere qui. “La terra è bassa, la vita è storta e al camposanto poi nun se canta” insomma.
Un po’ per questo un po’ per necessità, mi son rifatta della magra cena di ieri con una mangiata imperiale, unica cliente del ristorante con vista.







E il fiume scorre qui sotto ai miei piedi e porta il canto muto dei popoli scomparsi, le risate ubriache degli esploratori e dei cacciatori d’oro, la voce fioca di una rivoluzione che voleva esser giusta, ma poi non lo è stata. E la storia scorre, con l’acqua, e va al nord, nel tremore delle ultime luci e del lamento di un gabbiano.
Domani sarà già tutto alle spalle, domani saranno di nuovo strada e monti e boschi e cielo d’Oriente.








1 commento:

  1. Ho letto e riletto questo racconto e ogni volta un groviglio di sentimenti e sensazioni mi suggeriva di rileggere. E' tutto così discorsivo, quasi amichevole e pure così leggero mentre parli di un ambiente freddo, strano, lontano da quelli noti,... Buon proseguimento. Sila

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