Quando arrivi in una città (mai
sentita nominare prima, ignoranza mia grande), e, nel giro di 5km trovi,
nell’ordine, un Buddha d’oro,
la più grande testa di Lenin del mondo
e la
cattedrale ortodossa di san Odigitrievskij che svetta candida con le sue cupole
blu,
quando finisci in un frullatore
culturale che ha mescolato ortodossia cristiana, buddhismo e comunismo, capisci
due cose: la prima è che sei ormai abbastanza lontanino da casa, anche perché
tutti han volto orientale e occhi a mandorla; la seconda, che di lì la storia è
arrivata per vie diverse e da tutti e 4 i punti cardinali, in un complesso
incrocio di strade dell’umano.
Ulan-Udè, capitale della
Repubblica autonoma di Buriazia, è proprio così. In questo oriente di Siberia
(non estremo: da qui a Vladivostok ci sono ancora quasi 4000km!) la Russia, con
le sue ideologie e ciò che ne consegue, dall’architettura ai volti della gente,
vacilla e sfuma, cedendo il passo a ciò che giunse da sud, dalla Cina e dalla
Mongolia. Il dominio politico ed economico della Russia tiene insieme tutti i
frammenti di questo folle mosaico, ma la cultura non è stata russificata del
tutto: ogni scritta è bilingue, le persone parlano in buriato e ascoltano la
radio in auto in buriato, ci sono più Buddha che croci di legno e le statue
raffigurano personaggi con gli occhi a mandorla. Solo i modelli ritratti nelle
foto delle riviste di moda non hanno tratti orientali, ma quelli sono gli
standard idioti del consumismo che arriva dall’Europa e dagli Usa, con la
febbre della globalizzazione di questi decenni; gli slavi di Russia non
c’entrano.
Andiamo però con ordine.
Dopo la notte trascorsa
nell’appartamento di Kabansk, Raymond ed io ci siamo salutati all’alba, dopo
colazione:
lui alle 7 era già in strada sotto ad un gelido sole, io sono uscita
due ore e mezza più tardi, per poi recuperarlo all’ingresso di Ulan-Ude, a
100km di distanza.
La cittadina rurale che si adagia
sulle sponde del fiume Selenga, là dove le montagne esauste di precipizi son
morbide colline verso il Bajkal, mi ha salutata con la sua sovieticissima
piazza centrale, con monumento ai caduti quel tantino vistoso.
Percorsa l’unica
breve strada che attraversa il paese, mi son trovata subito immersa nella
meravigliosa valle del fiume, che dovrò percorrere per tre giorni fino a
risalire quasi alla sorgente, sui monti che marcano il confine tra Russia e
Mongolia.
Pare di esser già qui in un altro
mondo, in un altro universo rispetto ai fradici boschi sulle rocce del Bajkal.
I colori e la luce son diversi, i profumi, gli insediamenti, l’intero orizzonte
e persino il cielo; tutto è mutato in pochi kilometri e questo nuovo volto
della federazione mi rende euforica: percepisco il cambiamento, sento di
essermi spostata, di esser giunta lontano; a volte la Russia, con la sua enormità
e compattezza, inganna: pare di non essercisi mai spostati dal primo villaggio
di case in legno incrociato dopo Mosca. E invece ora no, ora tutto manifesta
lontananza, significa spazi nuovi e sconosciuti da esplorare.
Restando in valle, la strada è stata
clemente e quasi del tutto in piano, protetta da entrambi i lati dalle pendici
morbide e brulle delle colline; sul Selenga si srotola una striscia quasi
ininterrotta di campi a spighe d’oro e paesini di legno scuro e storto; nel
mezzo capre, mucche e strappi cobalto di un cielo finalmente azzurrissimo.
Non inganni il sole, però: fa
freddo. La temperatura è così bassa che, intorno alle 11, la grandine di ieri
ancora non s’è sciolta sui prati.
La strada segue il fiume,
dicevamo, e dunque per metà tappa ho proseguito verso est (ultimi 50km in
questa direzione, dopo quasi 6000 ostinati) per poi piegare bruscamente a sud,
dove sono diretta da ora alla fine del viaggio. La longitudine ora per me
resterà quasi immutata, su questa linea immaginaria che segna per me l’estremo
oriente del viaggio; ora mi muovo verso il meridione, con il sole in faccia che
mi disegna un arco tra occhio sinistro ed occhio destro.
Il panorama muta ulteriormente,
piegandosi la valle, e tutto si fa ancor più brullo e deserto escluse le basse
rive del fiume dalle acque torbide.
In tutta la tappa ho incrociato
una sola salita, per superare una collina dove le cicale assordano nascoste tra
i cespugli e i tronchi. La cosa bella, ma bella davvero, è stato trovare, sulla
cima, non una croce né un cartello con freddi numeri, ma un minuscolo rotolo da
preghiera e due “totem” buddhisti coperti di nastri colorati (a terra, un mare
di monete, con tanto di pover’uomo intento a raccoglierne manciate, che agli
dei i rubli non servono, a lui sì per il pane e la vodka).
Sono sulla strada giusta,
evidentemente.
Una volata di discesa ed ecco di
nuovo il fiume, una cappella ortodossa e la valle, sempre più chiusa tra i
rilievi, sempre più brulla e diversa da tutto ciò che finora ho visto.
A meno di 10km da Ulan-Udè ho
recuperato Raymond, che nel frattempo aveva incontrato un cicloviaggiatore
cinese (che però andava nella direzione opposta, quindi solo rapidi saluti);
ancora qualche curva tra terre brulle, ancora qualche riverbero dell’acqua
sotto al sole ed ecco i cartelli che segnano l’ingresso alla città, cui si
accede attraverso due ponti: quello sull’Uda e quello sul Selenga.
La meta era
l’Hotel Buriazia, prenotato da Ray con l’idea di passar bene, in un lusso buffo
per il nostro tipo di viaggio, l’ultimo giorno insieme. Viene chiamato Mammuth
e si capisce: è un palazzone enorme di epoca sovietica, tutto rimodernato in
stile buriato; svetta nel cuore della città ed accoglie ospiti di riguardo,
attori cantanti e politici, di cui ci son le foto appese nei corridoi; io e Ray
siamo entrati nella hall con le bici cariche, il caschetto e i vestiti luridi,
sotto agli sguardi attoniti dei presenti, uomini e donne d’affari tirati a
lustro, tra cravatte e gioielli. Che godimento.
Dopo aver preso possesso della
camera con vista sulla valle,
ci siamo diretti subito a ciò che più mi
interessava vedere in città: il tempio buddhista più importante di Buriazia e
di Russia, il datsan “Rimpoche Bagsha”, che si trova sulla vetta del monte
Lysaya. La città e i suoi dintorni sono pieni di monasteri e templi simili, ma
qui ha sede la scuola buddhista e valore aggiunto, si gode di una vista unica
su Ulan-Udè.
E’ stato istituito solo nel 2000, su un sito già sacro per gli
sciamani, da tal venerabile Eshe Lodoi Rinpoche con la benedizione del Dalai
Lama; nel 2002 è stata portata qui dalla Cina (che allunga in Russia le sue
zampine appiccicose in ogni modo) la statua del Buddha, che pare sia la più
grande di Russia e d’ “Europa” (così si legge sul sito del monastero… Ma quale
Europa?!).
Nonostante la recentissima
costruzione questo luogo trasmette un senso di pace ancestrale, di sereno
equilibrio nel fluire delle cose, e pare il tempo si fermi, cristallizzato in
un eterno attimo di vento e luce obliqua, come se l’intero universo, per un istante,
trattenesse il respiro e confluisse in quel punto preciso, in un abisso di
costellazioni, maree, nomadi in transito, urla di guerra e semi che
germogliano, tutto insieme, tutto risucchiato dall’immobilità del momento.
L’incantesimo si incrina al suono
sordo della campana, che i fedeli suonano prima di far girare i rotoli delle
preghiere, e la magia si spezza nel volo dei corvi, per poi ricomporsi ancora,
e di nuovo infrangersi e ricomporsi, in continue ondate.
Notevoli le statue dei demoni e
degli spiriti, che paiono personaggi dei fumetti giapponesi e forse lo sono
anche, chissà.
Dopo aver respirato a pieni
polmoni quest’aria sacra che accoglie in sé tutte le nature del cosmo, le luci
e le ombre, siamo tornati in centro, sull’ulitsa Lenina (l’ennesima); si
respira una calma nuova, tra le vie della città, e la luce è diversa, più
dolce, più morbida. La pietra e il metallo s’impastano con questi colori di
miele e tutto pare caldo, accogliente, a misura d’uomo pur nel mezzo di una
natura sconfinata. Così sono la piazza del teatro
e la Sovetov, dominata
dall’orrendo cranio di Lenin (8 metri) e da alcuni palazzi governativi d’epoca
sovietica; la statua in bronzo risale al 1970, centesimo anniversario della
nascita di Lenin; è luogo d’incontro per la gioventù locale, setting per foto
dei matrimoni e per selfie assurdi. La mia attenzione si è fissata
irrimediabilmente sulle spropositate narici e sul dubbio se, in nome del
realismo, dentro vi siano scolpite ciclopiche caccole. Per fortuna, no.
Da lì siamo poi scesi verso la
locale via pedonale e di negozi, l’Arbat di Ulan-Udè, calma di statue e aiuole
fiorite, un po’ troppo commerciale e turistica per i miei gusti, così è.
La passeggiata termina alla
cattedrale di Odigitrievskij, ottocentesco simbolo del barocco siberiano.
Lì
intorno si trovano quartieri di case in legno dei mercanti, risalenti al secolo
scorso, mescolate ai blocchi di cemento sovietici e ai palazzi ultramoderni
ancora in costruzione.
Ulan-Udè (che significa Ude Rossa
e porta questo nome solo dal 1934), infatti, è stata fondata sì dai cosacchi
nel 1666, che han sottomesso Evenki e Mongoli buriati, ma si è sviluppata
grazie alle ricchezze portate qui dai commercianti che trafficavano tra Europa,
Russia, Cina e Mongolia. Nel 1878 è stata semidistrutta da un violento
incendio, per poi esser del tutto ricostruita e fiorire con l’arrivo della
Transiberiana, nel 1900; dopo la rivoluzione, tra ’20 e ’22, è stata anche
capitale della Repubblica autonoma dell’Estremo oriente, poi annessa anche
formalmente all’Urss. Qui, da sempre, transitano anime e merci, e ancor di più
dagli anni Cinquanta, quando è stata costruita la linea ferroviaria
Transmongolica, binario unico e non elettrificato che corre da Pechino a
Ulan-Udè attraverso, appunto, la Mongolia, e si connette in città alla
Transiberiana. Sono proprio questi i binari che seguirò d’ora in poi fino ad
Ulaanbataar, che ormai è tanto vicina…
La giornata si è conclusa con una
cena proporzionata alla nostra fame, in un ristorante dove Raymond ha, senza
sapere, ordinato un piatto lungo un metro, con carne e formaggio, pannocchie e
verdure alla griglia; nonostante tutto, abbiamo avanzato ben poco!
Ora io e Raymond dovremo salutarci. Lui muove ad est, verso Vladivostok e poi in Giappone, in un viaggio di altri 3 mesi. Io a sud. La Mongolia dista solo due giorni di pedalata, e ormai, quasi, ci sono.
Quante cose belle hai visto e ci hai fatto conoscere! Sei un gioiellino unico, speciale. Sila
RispondiEliminabellissimo
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