domenica 27 agosto 2017

Cinquantasettesima tappa. Il Bajkal, mare sacro (e tutti i -troppi- monti in mezzo). Da Irkutsk a Kultuk.



Facciamo una piccola ma necessaria premessa. Non amo i preamboli, però questa cosa va detta.
Fare più di 100km, con 2100 e fischia metri di dislivello, con una bici che pesa 35kg, ovvero solo 15 meno di me, non è proprio un’idea brillante. Si può fare, certo. Ma ci sono motivi migliori al mondo per tirar giù tutti i santi in una continua giostra danzante. Ci sono modi migliori per sudar pure la cresima.
Detto questo…
Sono arrivata sulle rive del Bajkal!!! 




Certo, il lago non si è fatto vedere che negli ultimi kilometri di tappa, proprio sull’ultima, lunghissima discesa che dalle creste dei monti dove sono rimasta appesa l’intero giorno porta al primissimo paese lambito dalle acque scure di questo mare d’acqua dolce, paese che era anche la mia meta, Kultuk.
Raymond ed io siamo partiti insieme, stavolta, per uscire da Irkutsk nel modo più indolore possibile. Le grandi città sono sempre un casino da attraversare in bici, soprattutto se ci sono i bagagli ad appesantire ogni manovra, se ci sono incroci folli e con salite a tradimento, come qui, se alla guida ci sono i russi, come qui.
Sicchè abbiamo richiuso tutta la baracca e i burattini annessi nelle borse e via, ma via piano piano perché davvero il traffico cittadino in Russia è letale e bisogna essere attentissimi, cauti e concentrati a rimediar la disattenzione altrui.
Così i primi kilometri sono stati lenti e faticosi per la testa, mentre tutti gli altri lenti e faticosi per le gambe. Appena fuori Irkutsk ricomincia l’autostrada, l’unica via che taglia questa catena montuosa e porta al lago. Si viene accolti da questo mendace cartello, fin da subito, che fa presumere che il Bajkal non sia poi così lontano.



No, in effetti in linea d’aria non lo è.
Però, superati un paio di paesini ancora molto, molto orgogliosi del proprio passato proletario, superata Shelekov con la sua statua di falce e martello, 



ci si trova catapultati su colline sempre più selvagge e ripide di rocce e bosche, e poi su montagne completamente disabitate. In tutto il giorno, iniziate le salite, ho incrociato solo due villaggi microscopici con relativo kafè na ulitsa (on the road), e null’altro. Non un motel, non una gostinitsa, non una casa. Per fortuna, sapendolo, mi ero equipaggiata a dovere con cibo e acqua in modo da essere autonoma per l’intero tragitto.




Alle prime colline Raymond mi ha proposto di separarci e andare ognuno al proprio passo: lui era in ansia perché stava correndo troppo, mentre io dovevo fermarmi di frequente ad aspettarlo. Mi ha soprannominata Rita Pantanì, con l’accento sulla ì alla francese, e così ci siamo salutati, dandoci appuntamento all’arrivo a Kultuk. Qui avevo prenotato con Booking una stanza, ma non ero certa che la pratica fosse andata a buon fine perché mi era stato richiesto un pagamento anticipato con bonifico che non avevo fatto, perché qui in Russia vogliono che si trasferisca il denaro sulle loro carte prepagate, ma è un’operazione molto complessa da fare dall’Italia (le loro carte sono diverse dalle nostre, hanno più cifre, non si riesce ad inserirle nei terminali ed è tutto un casino enorme). Questo però a Raymond non l’ho detto. Se ci fossero stati problemi lì, avremmo poi cercato insieme un posto dove passar la notte.
Con pure il cruccio dell’albergo, mi sono arrampicata su un numero imprecisato di salite, tutte ripide, cattive, con il bordo stretto e i tornanti pieni di sassi.
Non so se le due cose siano collegate, ma mi piace pensarlo: qui ci sono moltissimi paesini che portano il nome di Shamanka, e molti di essi spillano soldi ai turisti vendendo collanine e aggeggini legati alla religione dei nativi, che venera il sole (e lo credo!), l’acqua, lo spirito degli alberi e l’anima di tutto ciò che vive o che ha vissuto ed ora aleggia tra muschio e corteccia.
Dunque ci sono i paesi Shamanka, e ad ogni vetta di collina si trovano alberi coperti di nastri colorati e fili di perline; a terra, monete piegate in due, lanciate da chi passa perché la strada sia clemente e il viaggio propizio.




Nel grigio sempre più cupo del temporale che mi si sarebbe rovesciato in testa di lì a poco, ho attraversato i neri boschi  nel più totale silenzio, incrinato solo a volte dal grido di un’aquila.
Salite, discese. Salite, discese. Una cima. Discesa. Salita. Un’altra cima.




E’ stato davvero faticoso e in più di un’occasione mi son dovuta fermare per riprender fiato e sgranchire gambe e schiena. Son stata costretta a far gran parte della tappa sui pedali, fuori sella, anche perché il cambio anteriore più morbido, il rampeghino, ha deciso di scioperare.
E sali, e scendi. E risali, e riscendi.




Sempre davanti agli occhi altri muri da scalare, muri verdissimi di bosco fitto, in un orizzonte chiuso e umido di linfa, altero nel silenzio in cui stava chiuso quasi a giudicare la mia hybris, io che oso sfidare i monti di Siberia e dovrei soccombere.
E invece no.



L’unica anima incontrata lungo la via è stato Dmitry, questo grosso e sorridente omone. 



Gentilissimo, buono come il pane davvero. Mi sono fermata a 30km dall’arrivo nel suo kafè, uno di quei posti tutti in legno e con gli attrezzi agricoli, che mimano antichi insediamenti cosacchi. Un po’ kitsch, ma nemmeno troppo vista la location. Volevo soltanto dell’acqua, per non restare completamente a secco e non sapendo cosa ancora mi aspettasse lì negli ultimi strappi. Lui invece, quando ha scoperto che sono italiana mi ha offerto, oltre all’acqua, tè nero con miele, frittelle appena cucinate, ravioloni dolci con panna… Insomma, una cena più che una rapida colazione. Non che io abbia disdegnato, anzi! Diceva che lui è innamorato dell’Italia, è stato tante volte a Milano e a Venezia con la sua donna, che gli ha fatto spendere una fortuna in vestiti e scarpe e borse e tutte quelle porcate d’alta moda per cui i russi ricchi vanno matti. Mi ha pure lasciato il suo numero, pregandolo di chiamarlo in caso avessi avuto qualunque tipo di problema. Poi mi ha chiesto se poteva provare a parcheggiare la Signora sulla rastrelliera per bici costruita con le sue manine d’oro e saldata pezzo a pezzo da lui. Certo! Voleva vedere se le misure eran giuste. Poi ho capito. Aveva lasciato, tra una barra di metallo e l’altra, spazio per la ruota di una moto, ma una moto bella grossa. La bici ovviamente non stava in piedi. Tutto sconsolato mi ha spiegato che lui non ha una bici e non ne ha mai viste da vicino, aveva controllato le misure su internet ma evidentemente aveva sbagliato.
Povero Dmitry, pieno di soldi, con le scarpe di Armani e il borsello di Gucci, e nessuna idea di come sia fatta una bicicletta.
Nel giro di poco ho incrociato la ferrovia, che non corre in valle ma a mezza costa, tagliando a metà i boschi come una lunghissima cicatrice.






Poi, finalmente, l’agognata discesa. 10km di precipizio.
E il lago, là sotto, immenso nelle nuvole basse, ora spalancato alla vista e non più nascosto da monti e alberi.
Sua maestà il Bajkal. In Mongolo e in Buriato si chiama Dalai-Nor, mare sacro. 




Patrimonio dell’umanità, una delle 7 meraviglie di Russia. Uno dei più grandi laghi al mondo, steso per oltre 600km, con una superficie immensa, quasi impronunciabile, 32000km. Ed è pure il più profondo al mondo: arriva a 1600m, in un abisso nero che si mangia la luce, tra misteriose creature cieche e un mondo di gelido fango abissale. I suoi ghiacci sciolgono completamente solo a maggio, csa che lo rende adatto alle foche che lo abitano, le piccole nerpe*; il clima disumano è reso ancor peggiore dal sarma, il gelido vento che frusta la superficie cupa con raffiche fino a 150km/h. Nonostante i numerosi disastri ambientali che han messo a rischio l’ambiente, le acque sono rimaste purissime e si può vedere fino a 40m di profondità tanto sono cristalline.
Lungo le sue sponde si sono alternate popolazioni diverse, che han portato qui diversi cieli: quello dello sciamanesimo tibetano dei nomadi buriati, di cui parleremo domani, quello azzurro e oro del buddhismo e infine quello di nero legno del cristianesimo ortodosso, quando Kurbat Ivanov scoprì il lago nel 1643.
Sulle sue rive in tanti sono morti, e le sue acque son diventate una grande tomba per i nomadi, per i cinesi che qui combatterono nel ridicolo tentativo di aggiogare le acque a sottrarle ai nativi siberiani, fin dai primi secoli dell’evo antico. Dal 1896 morirono troppi operai e forzati ai lavori per costruire la grandiosa e tragica ferrovia lungo la costa meridionale, tra ponti, tunnel e cadaveri congelati nel bagnasciuga. Dopo la rivoluzione Bianchi e Rossi si scontrarono anche qui, e qui passò la grande marcia nel ghiaccio siberiano, nel 1920. Le armate anti-bolsceviche, ormai sconfitte, tentarono la ritirata attraversando a piedi la superficie ghiacciata del lago. Morirono quasi tutti, i soldati, le loro famiglie, gli uomini, le donne e i bambini, tutti congelati, nel sonno e mentre camminavano, a causa del vento da nord. I loro cadaveri rimasero lì rattrappiti sul ghiaccio fino al disgelo, quasi in estate, quando gli abissi senza luce inghiottirono ciò che restava dei Bianchi. Kolchak era prigioniero a Irkutsk e stava per essere fucilato. Il comandante Kappel tentò di portare in salvo in Cina i superstiti, con l’oro dello zar, e di salvare Kolchak, ma il suo cavallo cadde nelle acque gelide del fiume Kan e a lui, risvegliato dal coma, furono amputate gambe e dita con un coltello; continuò a guidare i suoi legato al cavallo per non cadere, quasi in coma, ma morì di polmonite. Vinsero i rossi, il resto è storia già scritta.
Ed ecco che anch’io ci sono arrivata, qui al grande mare sacro, e vederlo, pur grigio nelle nuvole basse del temporale, è stata un’emozione grandissima. Ci sono, l’ho conquistato, e sarà mio per sempre.
Quest’istante, l’attimo di volata in discesa, il primo sguardo alle acque scure. Ormai sono frammenti del mosaico della mia vita, e risplendono forte.
Per fortuna anche con l’albergo è andato tutto bene. Trovarlo è stato difficile, perché situato in una via sterrata che è un sentiero, ma c’erano le camere e la cucina, c’era un piccolo negozio alimentari lì sotto nel fangoe c’era la finestra bella con vista sul Bajkal. C’era anche un grado sotto zero, per cui i riscaldamenti erano accesi e fumava il camino di fumo bianco, in questa piccola casa dall’altra parte del mondo che ci ha accolti con il suo calore dopo tanta strada.



camera con vista







1 commento:

  1. EVVIVA!!Sei alla meta più ambita. GRANDE GRANDE, FORTE E CORAGGIOSA VOLPE!
    Un abbraccio affettuoso. Sila

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