Che oggi sarebbe stata una tappa
lunga e non linearissima si sapeva, ma che rischiassi di non uscirne integra
no, non era in programma. Già ieri ho detto quanto, da qualche giorno, il
viaggio mi stia esponendo, seppure in misura controllata, alla durezza, alle
asperità e alle difficoltà cui questa terra disumana espone. Le distanze, gli
“spazi interminati”, la natura che si riprende tutto ciò che è suo di diritto,
il clima impossibile, i balzi di roccia in salita e “l’angoscia che dà una
pianura infinita” tutt’intorno. Oggi, poi, per un problemino di contatti
elettrici, mi si è scaricato subito il lettore mp3, fedele compagno di tante
pedalate, e mi sono trovata a galleggiare in questi silenzi sì sovrumani, ma
davvero, che possono donare la più azzurra quiete d’animo terso o possono far
perdere il senno, andar via di testa, uscir matti.
Tutto dipende da come si
vive l’attimo. E’ come con i cartoni d’acido, a quanto ne so: la stessa dose
può farti fare viaggi meravigliosi o trip dell’orrore. Il punto, credo è che c
si trova soli con le proprie paure e le proprie forze, i propri forse, nudi di fronte
alle stelle che ci si accendono dietro le palpebre ed esposti alle mareggiate
che si infrangono tra costola e costola; non ci sono maschere, distrazioni,
difese, nascondigli. E se dentro si hanno grumi d’ombra, questo silenzio ne
amplifica l’eco cupa. E’ un immenso specchio, la Siberia sconfinata. “E imparo
dall’impatto con la verità/ che è trasparente come il vetro e puoi tagliartici
a metà”. Non è un paese per deboli, questo è certo.
La giornata è pure iniziata con
il piede storto: niet colazione. Quei rincoglioniti del Mayak, del Mayal
cancher de ***, mi avevano chiesto ora e desiderata, dimenticandosi che questa
mattina non ci sarebbe stato personale. Siccome ormai conosco i miei polli
russi e mi fido ma mai del tutto, ieri avevo fatto una spesa più abbondante del
solito; non proprio da tirarci fuori una colazione pantagruelica delle mie, ma
nemmeno da stare a pancia vuota. E via così, dopo aver fatto una piazzata in
grammelot conclusasi con scuse nient’affatto sincere e con un “eh sorry sorry
ma da’ via l’organ testina”. Tanto più che, beffa al danno, quando ho chiesto
almeno dell’acqua, mi han detto di usare quella del lavandino; premetto che
sapeva di fogna in una maniera indecente e che pure far la doccia era stata una
prova di forza. Alla mia espressione scettica quanto al fatto che quell’acqua
potesse esser potabile, l’orsa platinata della reception ha ghermito la mia
borraccia e l’ha riempita dell’infetto liquido. Orrore! Ho letto che ci sono
dentro i peggio parassiti intestinali, che arrivano direttamente dalla fogna,
dalle acque nere, e provocano nilotici cagotti fino al deperimento e alla morte
tra atroci spasmi, in un bagno di sangue e merda. Per altro, proprio il 14
agosto di due anni fa, avevo preso la salmonella ad Olimpia, in viaggio in bici
verso Atene, ed avevo vissuto tra i più drammatici momenti della mia piccola
vita, là sui monti d’Arcadia, con la febbre altissima e la bile che usciva pure
insieme alle lacrime, la pioggia, la salita, i dolori atroci e le vecchie nere
che continuavano a offrirmi caffè al posto di portarmi in ospedale o al
cimitero. Sicchè ho dovuto poi lavare la borraccia e far sosta a rimediare
acqua sana. Uscire da Krasnoyarsk non è stato proprio facilissimo, soprattutto
a causa della pioggia e delle strade ridotte alla consueta apocalisse di fango
e buche infide nascoste; aggiungiamo qui anche i bordi dei marciapiedi alti
mezzo metro, che se ti viene la brutta idea di salirci poi non ne puoi più
scendere finchè morte non vi separi, visto che fare i balzi alla Brumotti, con
le borse, un intero reparto di ortofrutta caricato sul portapacchi e il
traffico del centro che sfreccia proprio a filo a filo del cordolo rischiano di
trasformare il tutto in un volo di Icaro, ma con più sangue. Altro problema
stamattina son stati gli ubriachi. Nient’affatto molesti, ma in cammino,
soprattutto sui ponti, con il loro passo obliquo e il loro storto andare.
Evitarli è stato arduo, ma s’è fatto anche questo. Krasnoyarsk mi ha salutata
con il cielo più imbronciato che avesse, tanto dar sembrare nera la statua del
cavallo bianco.
Anche l’Enisej era piombo fuso e
cupo, in entrambi i suoi rami, qui divisi da una delle molte grosse isole che
costellano il su corso.
Lasciata alle spalle la ferrovia, dopo una sosta di quasi mezz’ora
per far passare un piccolissimo treno merci,
è stata subito salita. Salita
cattiva, ripida, con numerosi strappi al 12%, resi torrenti in piena e cascate
grigie dalla pioggia. Nemmeno a dirlo, il vento mi è stato tutto men che a
favore: contrario, laterale, di tre quarti. Ma sempre in mezzo alle balle a dar
fastidio e a sputarti in faccia.
Queste sono le pendici dei monti
Sajani, la propaggine ultima dell’altopiano della Mongolia e degli Altai, con i
quali delimitano la Siberia. Non sono alti (le vette più imponenti arrivano a
3000m circa) ma sono scoscesi e disordinati in picchi e valloni. Qui per
fortuna arrivano solo gli ultimi lembi d’altura, ma si fan sentire tutti e
senza sconti, tanto più con una Signora dal culo pesantissimo e stracarico
(ormai si sta trasformando in uno di quei cammelli delle carovane del tè).
Certo i paesaggi valgono,
nonostante tutto, la fatica.
Sibir, Sibir, quanto sei maestosa
e bellissima nelle tue azzurre distanze. Quanto fai paura e quanta meraviglia
accendi con la luce dei tuoi cieli enormi e sempre spettinati dai venti. Sibir,
Sibir, gelida madre che finge di scordarsi dei suoi figli e invece li conosce
uno ad uno e li educa al rigore più puro. Poi, oltre ai falchi e alle aquile
ormai consuete, ho visto tantissimi cani della prateria!
Alla sosta per rimediare un caffè
al benzinaio (ognuno si rifornisce del carburante di cui ha bisogno) ho anche
incontrato il buon Sasha, Alessandro, musicista metal-punk di Omsk, che mi si è
avvicinato tutto timidone come tipico di questi “cattivi ragazzi”, grandi,
grossi, pieni di tatuaggi e borchie.
Mi ha detto che stava andando ad Irkutsk
insieme alla sua band (gli ho chiesto il nome e finto di capir la risposta, ma
solo finto), composta da musicisti di Mosca e San Pietroburgo, per un festival.
Poi sarebbero tornati “in Europa” (parole sue), cioè di là dagli Urali. Mi ha
chiesto se conoscessi un ciclo viaggiatore tedesco che l’anno prima aveva fatto
la Transiberiana su una bici di legno, con cui avevano bevuto una birra. Dopo
qualche chiacchiera ancora i suoi compari gli hanno tirato una clacsonata per
farlo risalire a bordo del van tutto scassato e pieno di adesivi su cui
viaggiavano. Sono certa sia stato lì lì per propormi un passaggio che,
sinceramente, avrei accettato. Ma, dopo un istante di esitazione, mi ha
salutata di fretta con un “magari ci ribecchiamo on the road” e si è tuffato
sul furgone. Ciao Sasha, neh.
Sicchè me la son dovuta pedalare
tutta quanta, la tappa, e per metà sotto l’acqua. Quel che mi ha fatto
veramente incazzare è che il cielo non era tutto coperto, anzi, tendenzialmente
era azzurro e macchie di luce squarciavano monti e piane. Sulla mia testa,
però, stava la Lurida, che è il nome proprio della mia privata e personale
nuvola nera temporalesca, che mi segue e mi piscia in testa.
Sali e sali, arrampica e sbuffa,
inerpica e banfa, sono persin riuscita a seminare la Lurida, che ha lasciato
dunque campo libero all’azzurissimo e a un tepore così dolce dopo il freddo
preso.
La mia meta di oggi era Uyar,
cittadina incastrata tra saliscendi e boschi che deve tutto alla stazione di
Transiberiana, che ha reso il villaggio agricolo, fondato a metà Settecento,
una città (sulla carta solo dal 1944) di tutto rispetto. Uyar, oltretutto, è
“famosa” perché qui è capitolata, sconfitta dai bolscevichi, la cosiddetta
divisione siberiana dell’esercito polacco, formatasi per contrastare i rossi e
presto accorpata nelle file dei bianchi di Kolchak, insieme alla legione
cecoslovacca. Non è certo stata gratuita la rivoluzione, né incruenta. Anzi.
Per i 100km precedenti non
c’erano strutture, e non ce ne sono per i 100 successivi. A Ujar risultava,
stando ad internet, una gostinitsa Sibir’; ma mi puzzava di truffa, uh se mi
puzzava. E il naso della volpe è finissimo ormai: recensioni poco recenti,
nessuna foto, nessun recapito. Mh… Brutti segni. In ogni caso, ho voluto tentar
la sorte. Ho lasciato l’autostrada per entrare in paese, e da lì, passata la
piazza del municipio con un piccolo Lenin che ti manda a quel paese, mi sono
diretta alla gostinitsa.
Mi si para davanti un palazzone enorme, tutto
decrepito, cadente, arrugginito e scassato; l’insegna dell’hotel è quasi
completamente sbiadita ma c’è. Provo a entrare, il portone d’ingresso è aperto.
Mi si presenta una hall completamente vuota, con qualche scartoffia polverosa
in terra e sul bancone; sembra tutto chiuso da anni… Eppure sento delle voci,
ai piani superiori, e vedo biciclette da bambino parcheggiate nel sottoscala.
Mi addentro di qualche passo, fino alle scale, e lancio degli “Hello”
segnaletici come razzetti luminosi. Appena proferisco verbo, tutte le voci
tacciono. Esco di nuovo, per controllare che non siano numeri da chiamare.
Nulla. Rientro, intravedo un ragazzino tutto sporco sulle scale che, appena mi
vede, corre ai piani superiori. Sento di nuovo voci. Decido di seguirlo, magari
l’hotel è sopra e sotto ci sono solo i resti di qualche azienda fallita. Salgo
al secondo piano, dove c’è un corridoio con una porta sbarrata in fondo, e lì
incrocio il ragazzino: è proprio sporchissimo, ha croste di cibo e fango sul
viso e sulle mani. Gli chiedo se lì ci sia un hotel. Mi dice sì, c’è, è di
sopra. E scende correndo. Salgo ancora. C’è puzza di muffa e di piscio. Arrivo
ad un piano che è evidentemente ciò che resta dell’hotel: moquette, ormai una
crosta di schifo e immondizia. Divani e poltrone sfondati e polverosi nel
corridoio. Quadri alle pareti, carta da parati grigia d’unto. Le porte delle
camere sono tutte solo accostate. Mi accorgo che da molte fessure d’ombra,
dall’interno delle stanze, mi sbirciano
occhietti di bambini; una, più coraggiosa, apre del tutto la porta, mi squadra,
poi rientra e chiude. Appena mi avvicino i bambini si rintanano nei loro miseri
buchetti, come paguri. E’ un hotel abbandonato e popolato abusivamente da
famiglie di senzatetto, poveri, “zingari” di cui ora sono a casa solo i
bambini. Di sicuro. Non faccio in tempo a formulare questo pensiero che subito
mi compare il flash della povera Signora abbandonata sola soletta giù nel
cortile, alla mercè dei malintenzionati, uno su tutto il ragazzino sporco.
Corro giù per le scale sperando di non aver fatto la cazzata del secolo, apro
di slancio il portone d’ingresso e… E’ chiuso. Serrato, forse a chiave. Prima
era aperto, quando sono entrata. Ora sono chiusa dentro, la bici e il ragazzino
sono fuori. E adesso? E se qui dentro non ci sono davvero solo bambini e mi
fanno la pelle per aver messo il naso dove non dovevo? Fortunatamente la
serratura era abbastanza scassata da cedere agli scossoni e ai calci che ho
tirato quasi inconsciamente. Il ragazzino stava effettivamente trafficando
intorno alla Signora ma, appena mi ha vista, si è dileguato nei cortili. Tutto
era al suo posto, comprese le miei reni e le cornee, così preziose da rivender
sul mercato nero degli organi che, per un attimo, dentro all’’hotel, ho pensato
di perderle, squartata dai rospetti.
Adrenalina a manetta. Però,
risolto il problema della sopravvivenza, a quel punto mi si presentava il
secondo busillis: dove diavolo passar la notte? Fermo alcune signore per
strada, ma sanno solo dirmi che la gostinitsa Sibir è chiusa. E grazie al
cazzo, ho visto fin troppo bene. Poi vedo un taxista molto anziano parcheggiato
poco distante e penso che, nel peggiore dei casi, se proprio non c’è nulla per
i successivi 130km, lui può aiutarmi. Avendo probabilmente visto la scena,
senza dir nulla mi allunga dal finestrino questo biglietto, con scritto
“appartamenti”, un indirizzo e un numero di telefono.
Lo guardo con aria interrogativa
e lui fa un ampio cenno di assenso. Spasiba. Cerco l’indirizzo su maps e non
esiste. Decido comunque di provare ad andare a vedere se esistono davvero
questi fantomatici appartamenti. La strada è così,
poi così,
e, in fondo, oltre
il paese, dove l'asfalto finisce, in mezzo alle betulle, mi compare una casa
tutta nuova e fresca e bella.
Mi avvicino e in effetti parrebbe aperta e
abitata. Incrocio un ragazzo sdentato e con una felpa con la bandiera russa.
Gli chiedo: “Appartamenti?” E lui, annuendo, mi accompagna al terzo piano,
suona al campanello di un appartamento e
se ne va. Apre un secondo ragazzo, bello ciocciotto e coperto di lentiggini, ma
soprattutto completamente nudo. Richiude un po’ la porta per nascondere le
grazie e mi dice che sì, l’appartamento c’è, devo suonare al 16. Vado al 16,
suono e mi apre una fanciulla giovane, bella, in pigiama e con bambino in
braccio; sembrano fratello e sorella, ma è suo figlio. Mi dice di aspettare un
attimo, recupera una chiave e mi apre la porta di fronte alla sua casa.
L’appartamento sarebbe questo, va bene? Va benissimo! E intanto arriva anche
l’ignudo giovane ora, per fortuna, rivestito. Dopo una lunga tiritera con
Google translate, riusciamo a intenderci su tutto e, addirittura, vengono
accompagnata in auto al pur vicino negozietto di alimentari, perché non so il
russo, metti mai che io non riesca a comprarmi tre mele e una confezione di
spaghetti liofilizzati. Al ritorno, vengo trascinata in un delirio di
chiacchiere in runglish dal comitato di accoglienza del palazzo, ovvero da
tutte le giovanissime famiglie che vivono qui e han deciso di adottarmi.
Mi
aiutano con i bagagli, mi mettono la bici al sicuro, mi offrono da bere e da
fumare. E intanto chiedono e chiedono e ridono e ridono. Che combriccola. Però
sono brave persone, davvero. Lavorano tutti, chi come operaio chi come
cassiera, e si fanno un culo così per la casa e i bambini. E sono gentili e
onesti nonostante l’ambiente e le condizioni che potrebber far di loro dei
delinquenti, per altro giustificati. Invece giocano come scemi con i motorini
nel fango e fan ridere i figli e aiutano le volpi lontane da casa.
Ora sono qui nella mia piccola
reggia, immersa nel bosco di betulle e in un quartiere, diciamo, tranquillo,
dove l’unica luce accesa è quella del “supermarket”.
Scende la sera su questa bella e
malandata Russia dove tutto è difficile e troppo grande, troppo lontano e in questa fatica molti cascano e diventano
duri e cattivi e si fanno inglobare e mangiar vivi dal meccanismo; per fortuna
qualcuno rimane fuori da questo farsi pietra gelida del cuore, e ci si salva
solo così, tra gesti di gentilezza gratuita e risate buone in un crepuscolo di
ferragosto siberiano.
Ne stai passando di tutti i colori.......
RispondiEliminaSei fortissima Volpe ma stai attenta, sempre.
Il finale del tuo racconto esprime in pieno la tua forza nel superare le difficoltà. Buon 15 agosto 2017,anche se da te è ormai sera. Sila
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