sabato 19 agosto 2017

Cinquantesima e cinquantunesima tappa. Nebbia, timori e, alla fine, un mare di luce con Sasha, Anya e Dasha. Alzamaj e Nizhneudinsk



Mi arrivano, intermittenti e a strappi, come da una radio abbandonata nel deserto, notizie tragiche d’attentati e follia omicida che ciecamente distrugge. Nel nome di un dio, di una fede, di un’ideologia, non mi interessa quale sia la scusa o la maschera o l’inganno che copre l’orrore senza fondo. Sappiamo tutti bene che in realtà sono sociali ed economiche, oltreché culturali, le (non) ragioni di quanto sta accadendo. Il mondo implode a velocità esponenziale. Le disuguaglianze, le discriminazioni, anni, secoli di sfruttamento e rabbia ingoiata non possono portar buoni frutti. E’ tutto sbagliato, tutto: ricchezze e benessere, per altro derivanti da un atroce abuso delle risorse naturali, animali e umane, sono nelle mani di pochissimi. I più subiscono e invidiano, campano più o meno e muoiono, schiacciati da un meccanismo, economico e sociale dicevamo, ingiusto, che segna la netta riga tra sommersi, i più, e salvati. Ciò giustifica un attentato? Assolutamente no, mai. Ma l’uomo è una brutta bestia, reagisce in maniera violenta, distruttiva e autodistruttiva. E’ il più storto degli animali, il meno razionale. E purtroppo non tutti usano l’irrazionale per comporre sinfonie o dipingere un cielo stellato.
Da qui, dalle distanze azzurre che mi separano da tutto, dai boschi di nebbia e dal vento verde, percepisco un fremito d’orrore nel pensare a chi è morto e a chi resta e con questa assenza dovrà fare i conti. Anche i miei zii e le mie cugine erano a Barcellona, e per fortuna stanno bene. Ma attenzione: non è con l’odio che si risolve il problema. Anzi, così si aggrava e incancrenisce.
“Ed ora imparo un sacco di cose in mezzo agli vestiti uguali
Tranne qual è il crimine giusto per non passare da criminali…”

Ora vediamo di ritrovare un po’ di fiducia nell’umanità. Che oggi ne ho incrociata di luminosa e bella. Comodi che vi racconto.

Partiamo da ieri. Tappa brevissima, sotto ai 70km, con un monte di dislivello atroce, rampe ripide e un solo pensiero fisso, inchiodato a martellate nel cervello e conficcato nei fianchi: non è che ho beccato un virus intestinale di quelli che ti stendono in due ore e ti riducono ad un grumo di spasmi tra di vomito e diarrea?
La domanda, più che lecita, è sorta a fronte di due evidenze: 1) fitte e spasmi assai dolorosi diffusi in tutto l’addome, dal fegato allo stomaco alla milza fino al basso ventre. Sono comparsi appena ho iniziato a pedalare, aggravati dalla posizione alla “scampone alla griglia” che si assume in bici, tutta piegata a sforzare sugli addominali. Per non parlare delle salite, dove il solo respirare mi causava lancinanti dolori. 2) le condizioni igieniche della cucina, del personale e del locale adiacente all’albergo e convenzionato per la colazione degli ospiti, compresa nel prezzo della camera.
Altro che ratti: era tutto lurido, unto e incrostato, ammuffito, maleodorante, marcio. Il mio vassoio, con il menu a sorpresa, attendeva, chissà da quanto, già pronto al tavolo. Solo il caffè, solubile 3 in 1 di quelli che mi faccio io col bollitore, è stato preparato al momento. La colazione consisteva in: pastone di latte e riso? avena? liquori intimi addensati con la fecola? cemento Fassa-Bortolo? Annegato nell’olio di semi. Sì. Latte e olio. Poi. Due micro-frittelle con colata di panna acida che si era liquefatta sul piatto annoiandosi nell’attesa. Due fette di pane con burro. Un bicchiere di misterioso succo che, bevuto così, sapeva di crodino, un po’ amaro, un po’ alcolico, un po’ “ti bevo solo perché devo buttar giù il pastone”. Caffè.



Che a posteriori, ripensandoci, è già tanto che io sia ancora viva.
Però, più dell’attenzion potè il digiuno e ho buttato giù tutto senza farmi troppi problemi. Ma in questo viaggio sto pagando ogni minimo errore, ogni piccola distrazione. E anche stavolta…
Il problema, più che il dolore, comunque sopportabile, è stata la paranoia quasi invalidante di essermi ammalata sul serio. Un virus intestinale, adesso, vorrebbe dire rovinare o quasi l’ultima parte del viaggio, impedire di pedalare e soffrire tanto. Perché già si sta male quando si è a casina propria. Quando invece ci si trova in un bucio di culo in mezzo al niente con il cesso in comune a due piani di distanza e senza carta igienica, con le medicine contate e la paura di crepare divorati dalle proprie interiora, be’, si sta proprio di merda. In tutti i sensi.
Per fortuna non ho avuto né coliche né conati, e ho attraversato la tappa in trance, in ascolto di ogni minimo movimento o cenno da parte delle budella. Chè quando occorrono questi problemi ci si rende conto di quanto, pur grandi nell’ingegno, nella fantasia e nelle risorse, gli uomini siano deboli e fragilissimi esserini, che possono essere messi al tappeto da un invisibile virus che ti sputtana l’apparato digerente. Gli altri animali sono molto più attrezzati. Come diceva una vignetta “La tartaruga è l’animale con il guscio. Il toro l’animale con le corna. L’uomo l’animale coi problemi”.
Tra l’altro ha minacciato pioggia per tutto il giorno, senza però osare farmi anche prender freddo, in quelle condizioni.




I boschi scuri e umidi si sono susseguiti rapidi in una striscia grigioverde di sfondo, indistinta e quasi non vista: ero troppo concentrata sulle mie interiora. 





Purtroppo ho incrociato diversi cantieri, di quelli con il senso unico alternato con il semaforo, in salita; i tempi son calcolati sulle auto e, in bici, è un continuo scendere a piedi e camminare proprio nel fango e nell’erba e tra i tronchi per evitare i camion che arrivano in direzione opposta sull’unica corsia. In attesa del verde, in coda, questa chicca.




Qualche strappo, qualche fitta, qualche salita e curva ancora e sono finalmente arrivata alla meta, il glorioso Pallada, un motel a ore, sull’autostrada, che attira famigliole al ristorante, durante il giorno, e prostitute kazake (ipsae dixerunt) e camionisti di notte.






Mi sono buttata nella camera (senza finestre, mannaggia a loro) e sono rimasta in uno stato comatoso, tra un brivido e un rutto, fino a sera, in attesa che l’infezione si manifestasse in tutta la sua cruda violenza oppure sparissero i sintomi. Fortunatamente, si è dato il secondo caso.




Per evitare problemi volevo cenare con qualcosa di leggero, sostanzioso ma niet maionese, niet salumi, niet latticini. Mi sono dovuta affidare alla cameriera dai modi sbrigativi, alla quale ho tentato di spiegare la situazione per farmi consigliare. Risultato. Doppia insalata non troppo condita, con pane, e fin qui ok.



Poi avevo capito mi sarebbe arrivato del riso e invece no, è arrivata questa misteriosa terrina.




S’è scoperto contenere una buonissima (benché certo non leggera) zuppa di pesce, funghi, verdure e formaggio o panna. Na mazzata. Però dai, sono ancora viva.
Mi sono limitata a fare il giro del motel e a godermi le luci livide del tramonto, senza spingermi fino al paese, Alzamaj. Infatti non risultava nulla di interessante da vedere e si tratta del solito villaggio senza storia, fondato nel 1897 per la costruzione della ferrovia e poi travolto da tutte le onde della storia russa, dalla rivoluzione alle guerre. A mezzanotte s’è anche tentata una diretta con Radio Popolare; siccome ogni forma di connessione faceva schifo e peggio, mi sono spinta nell’angolo estremo del parcheggio dei camion, nel fango, tra il bosco e l’autostrada, con un freddo dell’osti, il cappuccio con le orecchie e due telefoni: inutile dire che ho intrattenuto tutte le prostitute e alcuni clienti per una buona mezzora di fox show.




Oggi invece è andato tutto molto meglio, ho fatto più fatica ma con la testa libera dalla paranoia del virus. Stamattina, infatti, avevo fame, che è sempre un buon segno. Poi non ci sono più stati sintomi preoccupanti e quindi benissimo così.
Ho fatto una colazione a pane, marmellata e tè, giusto per non buttarmi subito su caviale vodka e maionese, e via. Anzi, via due ore dopo il previsto, causa nebbia.





Ebbene sì: il tentativo di sole (poi, più tardi, riuscito) ha fatto evaporare tutta la massa di umidità dei temporali e i boschi e i fianchi delle colline erano avvolti una spessa, lattiginosa coltre che impediva quasi del tutto la visibilità anche a pochi metri. Troppo pericoloso nonostante tutte le mie lucette e l’abbigliamento giallo fluo con catarifrangenti (di cui a casa spesso mi vergogno per i colori troppo sgargianti, ma in viaggio si rivelano sempre utilissimi, una sicurezza in più).
Verso le 10 la nebbia ha iniziato a diradarsi e così mi sono rimessa in pista, in un ambiente che pareva il Valhallah, ma più silenzioso. Solo, a tratti, il grido di un’aquila o il gracchiare dei corvi.




Se avessi qualche secolo in meno avrei giurato di vedere gli spiriti della foresta e le anime dei defunti aleggiare tra le foglie e sul filo opaco dell’orizzonte e tessere impalpabili danze tr i rami secchi e le nuvole.





Poi, improvviso e affilato come una lama d’oro, è comparso il sole.
In un attimo tutto è tornato a ridere di luce, sbriciolata in mille schegge di rugiada e gocce su ogni foglia e ogni filo d’erba. Un’esplosione di verde e d’azzurro da far fare le capriole al cuore.
I villaggi minuscoli, i campi, le strade, i boschi, e persino le mucche che attendono alla fermata del pullman, sono stati inondati del calore improvviso e insperato.
Io anche: ero uscita con l’invernale (c’erano 8 gradi) e sono arrivata alla meta in forma di cotechino lesso nella busta argentata: si è arrivati a 31 gradi.









Pare quasi di essere a casa, nella bassa terra della Pianura padana, tanto è orribile il clima: freddo, caldissimo, nebbia. Ma la Siberia non sa che io sono temprata da allenamenti nelle sere di dicembre, tra Magenta, Abbiategrasso e San Siro, quando cala la “scighera” che ghiaccia addosso, non sa che resisto alle temperature tropicali del luglio a Milano. Il tempo di merda mi è ben noto, cara Siberia, e, finchè è estate, non mi cogli impreparata. Finchè è estate, eh.
Alla sprovvista mi ha colta invece il turpe vento, che, improvviso insieme al sole, si è alzato; fortissimo, contrissimo, smadonnissimo. Ho dovuto fare alcuni tratti a piedi da tanto era teso e mi impediva di pedalare, da tanto mi ha sfilacciato le fibre delle gambe, insieme alle salite. Chissà che gli ho fatto di male, io, a Eolo. Chissà in quale otre proibita ho sbirciato, facendone uscire tutti i venti.
Tra un grano e l’altro del rosario, comunque, sono riuscita a portarmi fino alla meta di oggi, Nizhneudinsk, incastrata tra i monti Sajani e il fiume Uda (che in questo tratto si chiama Chuna). Il nome è tale per distinguerla da  Verkhneudinsk, ora Ulan-Ude. 





E’ una città antica, fondata nel 1648 dai cosacchi come fortificazione a difesa delle rotte commerciali per legname, pelli e oro.
Dopo esser stata distrutta da un attacco di nomadi kirghizi e ricostruita, è divenuta città, nel 1783, espandendosi, indovinate un po’, grazie ai traffici portati qui dalla Transiberiana. 






Durante la prima guerra mondiale è stato istituito qui un campo per i prigionieri di guerra; tra ’15 e ’16 c’erano qui 2200 detenuti. Risultato: è stato un focolaio di bianchi durante la guerra civile, di truppe cecoslovacche alleate a Kolchak. Nessuno di loro, sconfitto due volte, ha fatto una bella fine.





Oggi la città è nota per ospitare un enorme deposito di armi e munizioni dell’esercito; uno di quei posti in cui è meglio non buttar cicche di sigaretta altrimenti salta in aria mezza Russia.
Come vi dicevo, qui ho incontrato persone belle. Si chiamano Sasha, Anya e Dasha.
Cercavo l’albergo individuato su booking e, come sempre, non riuscivo a trovarlo. L’indirizzo risultava inesistente, non c’erano indicazioni né insegne, come al solito, e giravo a vuoto nel quartiere ormai da mezzora, pur avendo chiesto informazioni ai passanti. Nulla. Alla fine, come ultimo tentativo, mi sono rivolta a tre ragazzi seduti su una panchina a bighellonare; da lontano le due ragazze mi eran parse più grandi… Comunque sapevano più inglese degli adulti e, alla mia domanda se sapessero dove trovare l’hotel, mi han letteralmente presa di peso e scortata… A un altro albergo, poco distante, che avevo già visto arrivando ma mi era parso un po’ troppo in centro, un p’ troppo pretenzioso. Be’, poco male, vada per questo hotel Uda. E vai di selfie.






Dopo aver preso possesso della camera, mi ero appena spogliata per entrare in doccia che sento bussare alla porta. Penso sia la receptionist che ha dimenticato di dirmi qualcosa. Mi rivesto alla bell’e meglio, apro, a mi ritrovo davanti l’intraprendente Sasha, che si è intrufolato fin su al terzo piano dell’hotel per regalarmi un cigno fatto di conchiglie. Oh ma che amorino! Purtroppo non ho nulla da dargli in cambio, se non le ultime tre caramelle che mi son rimaste nel borsello. Le arpiona con avidigia, ringrazia e scappa via. 



Non faccio in tempo a spogliarmi di nuovo e metter piede in doccia che sento bisbiglii e risatine fuori dalla porta. Faccio finta di nulla, così come non rispondo ai primi colpetti sulla porta mentre sono in doccia. Appena fuori, bussano di nuovo. Mi vesto in corsa, apro, e mi ritrovo davanti l’allegro trio. Dasha si è armata di telefono per i selfie e di quadernino su cui si è scritta delle domande in un inglese very sbilenco. Dove vado, da dove arrivo, quanti anni ho e via così con il terzo grado. Siamo rimasti a chiacchierare un bel po’, finchè per loro non è venuta l’ora di tornare a casa (non prima di ricevere un bel pacchettone di caramelle, assai gradito vista la rapidità con cui l’hanno ranfato, recuperato nelle borse). Mi han chiesto i contatti social, e-mail e il gagliardo Sasha ha persino trovato il coraggio di chiedermi il numero di telefono. Inutile dire che, da qualche ora a questa parte, ricevo sms a fiotti. Mi hanno anche già chiesto a che ora io parta domani… Mi sa che avrò il comitato di saluto!
Che bello, però. Sono contenta.



Per chiudere la giornata ho fatto un giro in centro, tra casine, palazzoni con propaganda annessa, mucche e mercati che ci ricordano che comunque siamo in Asia, cupole di chiese e ciminiere. Che poi è un po' la Russia in breve.




























Ora punto diritta verso sud-est. Irkutsk e la sua nera tigre sono ormai qui vicine, e sento il richiamo blu del Bajkal che mi attira a sé come una calamita. Io mi lascio affascinare e attrarre. Siamo quasi al cuore pulsante del viaggio. 






2 commenti:

  1. Dai, col fatto del fuso orario ulteriormente dilatato, sei diventata la regina della prima serata anziché doverti spartire il pubblico con Marzullo!
    Alla prossima!

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  2. Dalle foto traspare un senso di "normalità" che non immaginavo: casine, palazzoni con propaganda annessa, mucche e mercati, fiori lungo lo spartitraffico e vicino alle case (anche i girasole), come in primavera avanzata. E poi quei tre "fiorellini" sorridenti e tecnologici accanto a te! Che espressione radiosa hai! Sila

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