venerdì 25 agosto 2017

Cinquantacinquesima tappa. Lungo il fiume e i campi d'oro, fino ad Angarsk. I profughi, il petrolio e altro fumo d'anime



23/08

Una tappa che si rispetti non può che cominciare con una colazione che rispetti, così al kafè Bajkal, sperso nelle verdi lontananze della Siberia orientale, mi hanno offerto paninazzo con hamburger e gelato Magnat, che sarebbe il Magnum, così da iniziare con il piede giusto la giornata. 
Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si digerisce.
 


Mi aspettava una tappa di poche salite e qualche kilometro più del solito perché con Raymond avevamo deciso di avvicinarci il più possibile a Irkutsk, così da poterci fare una quasi sosta il giorno successivo. Dunque la meta era Angarsk.
Come sempre il giovanotto bretone è partito ben prima di me, in modo che ciascuno potesse percorrere la tappa al proprio ritmo e senza patemi. Anche oggi non ho incontrato Ray per l’intero tragitto, anche oggi ho pensato di esser partita troppo, troppo tardi rispetto a lui. Anche oggi l’ho trovato poi esattamente due metri prima del punto stabilito per l’incontro, il ponte d'ingresso alla città. Oh Raymond, che tempismo!
Fatto sta che quindi ho pedalato in solitaria anche oggi, con però la consapevolezza di non esser sola del tutto, nè da tutti lontana; ed è bello, così.
Mi sono lasciata presto alle spalle l’Alarskij rayon, che ha per capoluogo Kutulik, notando che proprio in corrispondenza del cartello che segna il confine del distretto i viaggiatori usano gettare una moneta, spesso piegata in due con i denti.



La strada, così, si trova ad essere tappezzata di rubli e kopeki, alcuni nuovi e scintillanti, altri infossati nel fango e mangiati dalla ruggine. E’ così da sempre, da quando passavano da queste parti i nomadi sulla strada del principe senza casa e guerriero Alar, che ha dato nome alla regione, è così da quando i cosacchi transitavano su sentieri di fango nella neve sciolta a primavera, in vapori di vita nuova. E’ così da quando i mercanti affamati di oro, pellicce e spezie battevano per primi il tracciato che sarebbe poi diventato la grande strada di Mosca. E’ così da sempre e ancora chi passa getta una moneta perché il viaggio e i cieli siano clementi. Da lì sono poi ricominciate le colline, sempre più morbide però e dolci nei loro bassi pendii, splendide d’ondante d’oro delle spighe al vento. Spighe mature, vento contrario.





In una luce polverosa e obliqua sono giunta a passare la Belaya, affluente dell’enorme, ultimo fiume che incontro in questo viaggio, l’Angara.



Ad accogliere, dopo il ponte, ci sono tre mammut, che non sono tre pelosi camionisti russki ma il monumento dedicati ai reperti archeologici trovati dove ora sorge un antico paesino di contadini (e stranamente non di muratori), Malta.





In un soffio di luce ramata sono poi giunta a Usolye Sibirskoye, un’orrenda cittadona tutta a ciminiere e palazzi di cemento che giace nel fango secco e nella polvere, ai bordi dell’autostrada; nella tabella di marcia stilata a casa avevo previsto di fermarmi qui, ma vista la (in)natura del luogo, forse meglio tirar dritti e andare avanti. A poca distanza mi sono imbattuta nella bella chiesa ottocentesca dedicata alla Madonna di Kazan, in stile barocco siberiano, che si staglia al centro di Thelma, villaggio fondato a metà Seicento e sviluppatosi poi nel secolo successivo grazie alla costruzione di una fonderia e di una fabbrica di tessuti.





Ancora un po’ di fatica, ancora qualche colpo di pedale, ancora gocce di sudore nell’ultimo sole estivo di quest’angolo di mondo, e sono giunta alla meta prefissata: Angarsk.



E’ una città giovanissima, costruita tra 1945 e 1948, che prende nome dal fiume Angara, ma viene chiamata anche “città nata dalla vittoria” o “città petrolchimica”. E son proprio queste le due anime del luogo. Da un lato le industrie chimiche, le raffinerie e gli impianti di lavorazione dei combustili fossili; dall’altro i rifugiati, gli esodati, i sopravvissuti, i lavoratori trasferiti a seguito della Seconda guerra mondiale. Masse umane che, dopo 4 anni di conflitto, si sono ritrovate senza più un tetto a cui tornare, ormai lontanissime da casa, una casa che non esisteva più. E così si è deciso di costruire una città nuova, dove questi naufraghi della storia potessero metter nuove radici, e crescere i figli e lavorare nelle industrie della Russia vincitrice e così sconvolta dalla violenza, ammutolita dal regime.
Angarsk è una città ancora in espansione: ci sono nuove case e interi nuovi quartieri in costruzione, una chiesa di cui per ora ci son solo i muri portanti e tra le impalcature e tutto ferve in un’aparente quiete di cupo cemento. Gli anni scorsi han trovato qui rifugio numerose famiglie di ucraini.

il centro geometrico della città, con un bel Lenin nero nero

il municipio

il csiddetto carillon, una sorta di campanile ma senza chiesa, bensì con stella rossa

il prestigioso museo degli orologi, con bus con la data di fondazione della città

il monumento ai gloriosi costruttori di Angarsk


un monito: come si diventa a viver qui



In tutto questo, io e Raymond non avevamo un posto dove passare la notte.
Stando al menzognero Google, la città è piena di alberghi. Tre in ogni via, cinque nelle vie più grandi. Pieno, pienissimo di strutture ricettive. Quindi ci siamo dati appuntamento al ponte per oi cercare insieme l’hotel che più ci sarebbe piaciuto. Cerca il primo della mappa, e non esiste. Cerca il secondo, ed è chiuso, cerca il terzo, e ci sono i lavori in corso. Il quarto non ha posto. Primi brividi d’ansia. E mo? C’è il Pushkin, ma costa troppo. E’ di lusso, cinque stelle,  non ci siamo. Cerca ancora, chiedi, fruga la città e nulla. I millemila hotel si rivelano tutti, mano a mano, miraggi inconsistenti, ombre vane della speranza di potersi riposare. Mentre io e Raymond cercavamo soluzioni alternative sotto una pioggia fina fina che accompagna sempre i momenti più drammatici, veniamo raggiunti da un uomo in bicicletta, un pescatore evidentemente, con i baffi e il sorriso largo e d’oro, stortissimo d’alcol e obliquo nel pedalare. Ci chiede se abbiamo bisogno. “Sì! Cerchiamo una gostinitsa!”. “Ah, bene, seguitemi!”.
Inizia così la corsa dell’Angara Dream Team, composto dal campionissimo Raymond, 66 anni, veterinario bretone, cicloviaggiatore; dalla Volpe a pedali, 26 anni, italiana, esordiente in confronto ai veterani là avanti; dal pescatore in mimetica, tanto gentile quanto ubriaco.





Battiamo ogni hotel della città, guidati dal buon uomo, e la risposta è sempre la stessa: niet.
Si finisce così tutti e tre davanti al Pushkin, unico albergo in cui non abbiamo nemmeno messo il naso. Ed è lì che finiremo a dormire io e il buon Ray, per altro dividendoci la suite, un po’ perché è  l’unica rimasta libera, un po’ per divider la spesa.







In breve diventiamo i nuovi idoli della receptionist, abituate a spocchiosi borghesucci di provincia con il portafoglio pieno, il vestito buono e le cattive maniere.




La giornata si conclude con una cena a base di spiedini cotti sulla griglia e luci sempre più basse, in questa parte di mondo che per qualcuno è un ombelico, per altri una tomba, per altri ancora un semplice nome mai sentito sulla mappa, denso d’anime e altro fumo bianco e denso.
Irkutsk ci aspetta, qui poco avanti, e l'orizzonte si fa meno sconfinato.





2 commenti:

  1. Questa nuova svolta insieme al signor Raymond è favolosa. È straordinaria l'intesa che si può trovare con un altro viaggiatore che condivide i tuoi stessi obiettivi, quel vostro lasciarvi la mattina per ritrovarvi la sera, per avere e dar modo di proseguire il VOSTRO PROPRIO viaggio. Un saluto immenso a tutti e due!

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  2. "...La consapevolezza di non esser sola del tutto, né da tutti lontana...".Sì, è davvero molto bello condividere le proprie passioni, le proprie aspirazioni, le proprie fatiche nel raggiungimento di una meta. Sila

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