lunedì 21 agosto 2017

Cinquantatreesima tappa. Si prosegue in due. Ancora Raymond, l'esperto in cammelli





Han voluto, la strada e la sorte, che in una giornata di gelidi venti da nord che fanno e disfano i sentieri,
in un mezzogiorno scuro come il crepuscolo, su una salita delle infinite di questi bassi colli tra gli Altai e il Bajkal,
han voluto, la Siberia e il viaggio che rimescola le carte, spettina gli schemi e scompiglia di continuo gli astragali e gli altri ossicini in cui legger la fortuna,
han voluto, i cieli e questa terra fradicia,
che io e Raymond ci incontrassimo di nuovo.
E forse, da qui in poi, per qualche giorno, fino ad Ulan Ude, il viaggio non sarà più in solitaria per entrambi.



Questa mattina sono stata svegliata dal frastuono delle raffiche di vento che frustava gli alberi e sollevava mulinelli di polvere, in uno sbattere di finestre e cigolare dei tetti e dei muri.
Vento fortissimo, da tempesta perfetta.
Immaginate con quale spirito io abbia fatto colazione, nel timore che potesse essermi contrario o anche solo laterale.
Nemmno il buonissimo pane pieno di semini, il Mamma mia, è riuscito a distrarmi dall’angoscia.



Dall’alto della collina mi scrutava il monastero in rovina, sotto un cielo che non prometteva nulla di buono. 



Pioggerella fine e un freddo per me invernale (6 gradi! Ma che è, novembre?) sono infatti stati compagni di viaggio per tutta la tappa.
Sono uscita tardi, non osavo togliermi il dubbio e scoprire la verità in merito alle intenzioni di Eolo. Ne ho approfittato per scrostare un po’ di fango e nero orrore dal deragliatore e dalle altri parti del cambio in cui si erano incrostate tre dita di schifo, che quasi impedivano alla catena di girare. Un’oliatina e la Signora è rimasta lurida quanto prima ma almeno funzionante.
Sì, ho fatto tutti questi lavorini nella camera d’albergo rosa e fucsia con i tappetini e i cuori. Però non ho sporcato a giro, giuro.
Poi è scoccata l’ora fatale e, con l’ansia montata a neve, sono finalmente uscita.
La gioia che ho provato nello scoprire che il vento sarebbe stato a favore, il sollievo e la leggerezza che mi hanno invasa nel vedere che le raffiche correvano a sud-est, non si possono descrivere. Davvero. “Ho visto cose che voi umani…”. Vi giuro che timbrato il cartellino dei 5000km, qui in questa terra inclemente per clima, natura, dislivelli e umanità fredda come la pietra nera, vi giuro che per me adesso avere il vento così forte a favore è vincer la lotteria.
Pertanto sono balzata in sella piena di ritrovata energia, che è fiducia nella possibilità, e mi sono lanciata diritta e svelta lungo quella strada che pareva un fiume di cui seguir la corrente. A tratti ho tenuto una media ben superiore ai 30km/h, cosa che non si vede da settimane; le salite, comunque non ripide, tutte mangiate con il cambio duro e senza mai avere il fiatone e ampi tratti di pianura percorsi quasi senza pedalare. Ma io isso una vela e tiro diritta fino a Ulaanbataar in giornata! Ma che, scherziamo? Di questo motore che non brucia e non fa fumo bisogna approfittare! Perciò ho dato gas, volpe a manetta, e ho percorso quasi l’intera tappa in pochissimo tempo. Il fondo stradale era anche per lo più ottimo, conditio sine qua non per mantenere quella velocità senza spalmarsi sull’asfalto alla prima discesa.
Ho pedalato a scheggia rossa nei venti grigi carichi di pioggia, tra villaggi di legno marcio, boschi neri e campi d’oro opaco. Un mosaico assetato di luce, un caleidoscopio d’ombre.









Ho passato in volata Kujtun, paesotto con qualche struttura in cui avevo pensato di fermarmi in caso di vento contrario, che vanta una chiesa in legno proprio sul ciglio dell’autostrada.





Fuori di lì, a circa 30km dall’arrivo, in cima a una salita, tutto sbilenco, ho visto un puntino giallo fluo e blu avanzare pian piano. Raymond, per forza. Chi altri? Ma non aveva detto che si sarebbe fermato ben prima di me? Ma non andava lento lentissimo da non starmi dietro? Che ci fa DAVANTI a me? Lo raggiungo. 



“Hello again!” “Oh hello! Alla fine sono arrivato anch’io praticamente a Tulun, ieri sera, e stamattina sono partito molto presto”. Ahhh ecco. E mascherando un bruciante interesse mi chiede: “Senti ma tu dove ti fermi oggi? Perché io non ho trovato nessuna struttura da qui a 200km e mi sa che mi tocca piantar la tenda nei bricchi”. Ma no Raymond, c’è un kafè gostinitsa qui a breve, altrimenti un paese con alberghi a 50km. Son studiata io, mica scherzo. Ti so fare la mappa delle strutture di tutte le Russie così a occhi chiusi, TripAdvisor mi fa una pippa. Seguimi (che poi la strada è una sola, sempre dritta, non è che si possa troppo sbagliare. Ma tant’è).



E così ho rallentato un po’ il passo, ma non troppo: oggi Ray, secco com’è e leggero come una piuma, si faceva portare dal vento e viaggiava bene, per non parlare della follia sfrenata con cui affronta le discese. E’ matto! 



Con tacito assenso e in silenzio, lasciando che fosse la strada a cementare l’intesa, abbiamo deciso di proseguire insieme. Lui, che è un uomo dalla gentilezza tutta europea (eh sì, quella qui un po’ manca) mi ha anche chiesto se per caso volessi andare avanti più svelta, senza aspettarlo, o se semplicemente preferissi pedalare da sola. Avrei voluto chiedergli io la stessa cosa, perché tra lupi, orsi, volpi e animali del bosco si ha sempre paura di dar fastidio e intaccare la bolla di solitudine in cui si viaggia. Si ha paura di stare addosso, di infastidire. Invece no. In questo momento avere qualcuno con cui percorrere le tappe mi dà sollievo e sicurezza. Inizio a temere forte gli imprevisti e i problemi, che si rompa la bici, che cada, qualunque sfiga. Non esser sola del tutto, poter contare, anche se per poco e senza pretese, sulla presenza di qualcuno di cui mi posso fidare è bello e basta.
Siamo giunti così al Nash Dvorik, kafè con camere in mezzo al nulla assoluto, tra i boschi e la polvere, non distante da Perevoz. Ci siamo accorti che, proprio di fronte, era stato costruito un albergo novo di pacca, sempre sull’autostrada, sempre con ristorante kafè al pianterreno. Dopo due ore spese a discutere quale fosse il migliore, abbiamo optato per il più sgrauso e vecchio. Appena entrati ci han detto che non facevano più da affittacamere e quindi bene, riattraversa la strada e la decisione è già presa.




In quest’altra gostinitsa, sulle prime, han tentato di rimandarci alla prima, rimbalzandoci come la pallina in quel gioco a pixel del ping-pong. Poi, insistendo una camera è saltata fuori. Ma come una? Eh sì è da 5 persone. E Raymond non è che paresse troppo infastidito dalla cosa, anzi. A insistere e insistere, è saltata fuori una seconda camera. Naturalmente ci han gonfiato i prezzi a dismisura ma amen; insieme on the road e poi su de doss e ognuno a casa propria. 



anche oggi camera con vista:



Ci siamo dati appuntamento di lì a un’ora per far merenda (al kafè di là dalla strada, decisamente meglio fornito); tralasciando il fatto che il buon bretone si è manifestato con due ore di ritardo, scusandosi però da bravo galantuomo, chè non aveva avuto internet per giorni e aveva mille messaggi a cui rispondere, ci siamo bevuti un caffè caldo con palacinke e crema. Lui ne fucila interi caricatori, giustificandosi con il fatto che sono come le omelette di casa sua.

questa sono io che mi chiedo se per caso Raymond non sia caduto in doccia battendo la testa e morendo lì, così, tra vapori e schiuma. Apprezzate i pantaloni russki acquistati ad Acinsk a sostituzione dei miei bracaloni sderenati dal packaging estremo

no, no: era vivo e affamato


Mi ha raccontato dei suoi mille viaggi lunghissimi per il mondo. Da cinquant’anni esplora i continenti in sella alla sua bici, a piedi, con ogni mezzo. Non c’è posto in cui già non sia stato. Ha fatto il periplo del Nordamerica, la Transandina, l’Africa da Tunisi a Cape Town, il perimetro dell’Australia, la Nuova Zelanda, tutta l’Europa, il Medio e l’Estremo Oriente più volte. Da solo, con i due figli (e nipoti nei carretti) e con la moglie. La moglie era un’insegnate, viaggiavano insieme su un tandem. Poi si è ammalata di un tumore al cervello e dopo operazioni devastanti e cure inutili è morta, due anni fa. In viaggio, a Siena. Erano in tandem e stavano andando in Sicilia.
Era il primo viaggio da pensionato che faceva. Perché Raymond, fino al 2015, ha esercitato come veterinario. Mi ha fatto vedere tutte le foto di lui che fa nascere vitelli, lui che ricuce cavalli, lui che resuscita pecore. “I miei erano contadini e allevatori e anche due dei miei cinque fratelli lo sono. Ho sempre voluto far questo lavoro. Da un po’ di anni ho anche una clinica veterinaria per piccoli animali, sai i cani, i gatti, non quelli da fattoria. Ci lavorano otto ragazze… Tutte donne!” e mi mostra orgoglioso la foto delle veterinarie in camice. “In realtà la mia laurea è stata di specializzazione sui cammelli” aggiunge, serissimo, ma io inizio a ridere e non smetto più. “Sì, cammelli. Sono stato quattro anni in Algeria a far ricerca sul sangue dei cammelli e le loro malattie. Ho vissuto tanto tempo con i Tuareg. Poi a casa di cammelli e lama e simili ne ho curati un po’, quando passavano i circhi. Non dico di esser l’unico in Bretagna, ma insomma, di veterinari esperti in cammelli non ce ne sono molti dalle mie parti”. Ma che ridere! Si può? In Siberia ho incrociato un bretone esperto in cammelli.
Poi mi ha chiesto se fossi mai stata dalle sue parti, e no, non ci sono stata. “Allora devi assolutamente venire, in bici! Mi scrivi, e ti ospito. Se non sono a casa vai alla clinica e lì ti fai dare le chiavi. Perché io a casa ci sto circa 3-4 mesi all’anno, non oltre. Poi viaggio, vado a trovare i miei figli e i miei fratelli in giro per la Francia, scendo in Burkina Faso dove opera una missione del mio paese… Insomma, non è che ci stia molto a casa”.
Hai capito il Raymond.
Dopo aver scambiato esperienze di viaggio e aneddoti, siamo tornati in hotel, e poi di nuovo al kafè per la cena. 



Altri racconti, altri frammenti di mondi distanti e volti seminati nella memoria. Parla spesso di sua moglie, non lo dice ma è chiaro: gli manca tanto.
E da lì la domanda cruciale: “Raymond ma domani alla fine tu dove ti fermi?” “Non lo so… Tu?” e sorrisone. Allora gli mostro le varie opzioni. Abbiamo un paese a 70km, uno a 105, un motel a 115 e uno 125. Il primo si esclude, il secondo probabilmente non ha nulla da offrire, vada per il terzo con rete di sicurezza sull’ultimo, se ci fossero problemi.
Restavano da chiarire due punti: come facciamo a pedalare proprio insieme se andiamo a velocità così diverse? Perché ho il sospetto che tu, giovanotto, parta prima dell’alba, mentre io prima delle 10 col cavolo che esco? (infatti senza dirci nulla avevamo legato così le bici: la mia, con la mia catena, a se stessa, la sua, con la sua catena alla mia. Perchè, che lui partisse prima di me, era di fatto implicito).
Si son risolte entrambe le cose con la delicatezza di chi capisce senza troppe parole: lui parte ad ore impronunciabili, al freddo e al buio, perché preferisce così. E va piano piano. Io lo raggiungo per strada o, se tardo molto, direttamente all’albergo stabilito. O arriva prima lui e mi prenota una stanza, o arriviamo insieme, come oggi. In caso di imprevisti, telefonata.
Perfetto, no?
Poi abbiam più o meno deciso le tappe fino a Irkutsk, dove ha già detto che dobbiamo cenare assolutamente in un ristorante che sa lui. E chi si oppone!
Così si prosegue a sud est, portati da un vento amico, e le minacce della strada e del cielo suonano meno spaventose, disinnescate in parte da un anziano francese esperto in cammelli.





2 commenti:

  1. Quale gioia e' poter stare insieme
    Se l'amico guarda dive guardi tu

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  2. "Freddo invernale (6 gradi! Ma che è novembre?", "Campi d'oro opaco" (E' il mese di giugno?):elementi quasi discordanti in un solo paesaggio.
    Che bello sentirti ridere e ridere ascoltando il bretone esperto in cammelli! Sila

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