domenica 27 agosto 2017

Cinquantottesima e cinquantanovesima tappa. La Buriazia, il gelo dei venti da nord e tutti i colori del Bajkal. Tankhoy e Kabansk



Due giorni fa ero appena arrivata sul Bajkal ed ora il sacro mare d’acqua dolce è già alle spalle.
Sono state due tappe intense e difficili, complicate dal meteo inclemente e dalla mancanza di strutture, o meglio, in generale, di città, di presenza umana in senso lato, là dove sarebbe stato comodo fermarsi, nel punto in cui le gambe iniziano a cedere.
Tra l’altro, così per informazione, da ieri mattina ho lasciato l’oblast di Irkutsk per entrare in Buriazia.
Domani ne raggiungerò il capoluogo, Ulan Ude.



Ma andiamo con ordine.
Ieri mattina io e Raymond ci siamo alzati ben presto; lui per uscire all’alba, come sempre, e poter pedalare con calma. Io per aggiornare il blog. Per tutta la notte aveva piovuto e ancora non accennava minimamente a smettere: dalla finestra il lago era una macchia grigia e cupa, oppressa da nuvole basse e baffi di vapori gelidi. Le strade si erano trasformate in un fiume di fango e faceva freddo, ma freddo che uno ad agosto non può immaginare nemmeno nei peggiori incubi. Il vento teso, da nord, aveva portato un alito polare giù giù lungo le acque del Bajkal. Non vi dico la faccia della ragazzina alla reception quando ha visto uscire Raymond, prima, e me, qualche ora dopo, nella bufera gelida.






Ma la strada ad una cert’ora chiama e non si può rimandare oltre. Così, con la divisa invernale, mi sono imbarcata, è il caso di dirlo, nella tappa.
Guai a chi pensa che la strada lungo il lago sia in pianura, come la logica e le mappe farebbero presupporre. Guai e sciagure. E’ un continuo, estenuante saliscendi di collinette ripide e speroni di roccia a precipizio sulle acque cupe. La strada si fa tortuosa e corre a mezza costa tra i sassi e i boschi, che nascondono per lo più il lago alla vista. Da un lato si intravede tra i rami il Bajkal, dall’altro si stagliano, vicinissime e minacciose, le montagne nere, tagliate qua e là dai moltissimi, oltre 300, immissari del lago.
Il problema è che, quando si sale, ci si scalda e persin si suda. Quando però ci si butta a capofitto nel vento della discesa, se piove, fa freddo e tira un vento ghiacciato, ci si congela. 



I primi 30km sono stati una vera tortura: ho abbigliamento ancor più pesante, ma era sepolto sul fondo delle borse, chiuse a fatica e blindate prima di partire. Ho tentato di resistere ai brividi e alle folate, tanto più che quando si è così fradici di pioggia, fermarsi significa prendere ancor più freddo; ma quando le mani mi si sono congelate al punto da non riuscire ad usare il cambio, ho deciso che era inevitabile recuperare vestiti adatti. Al primo kafè sulla strada ho accostato, grondante, ho tirato giù le borse e sono entrata, tra gli sguardi curiosi dei camionisti a pranzo. Ho aperto le borse e tirato fuori di tutto, dalle mutande sporche alle ciabatte, dal dentifricio alla crema da culo, alla ricerca di qualcosa di caldo da mettere. Alla fine ho recuperato: copri scarpe in neoprene, maglia termica tipo cotta di mitril, sovrapatntaloni impermeabili, doppio scaldacollo, k-way che resiste al fuoco e al ghiaccio, sottocasco in goretex e guanti adatti fino ai -10 gradi. Da aggiungere ovviamente alle ciclobraghe lunghe imbottite e alla giacca con interni foderati che già avevo addosso. Mentre mi portavano il tè nero bollente e iper zuccherato che avevo ordinato, sono andata in bagno a cambiarmi e ne sono uscita splendida come Amundsen prima di partire per il polo, in triplo strato di pelliccia d’orso, foca e orso ancora.



Il barista, impietosito e mosso a compassione dal tutto, e dal diluvio che ancora fuori imperversava, mi ha offerto il tè. Così, dopo aver richiuso a calci e madonne le borse, sono ripartita nella tempesta, ma stavolta ben equipaggiata. E infatti, dopo qualche colpo di pedale per scaldarmi, non ho più avuto problemi con il freddo. Mi ha fregata l’anno scorso, il clima maledetto, ed ho imparato la lezione. Sono così arrivata a Bajkalsdk, cittadina nata nel ’61 intorno ad una fabbrica di cellulosa, nota per qualche albergo di lusso e un turismo da Alpi Svizzere, però in versione siberiana, cioè con il fango, le ciminiere e il pesce essiccato appeso per via.





Ancora qualche salita, ancora qualche strappo




e sono finalmente giunta a Vydrino.
Non che mi interessasse la città, che è un microscopico insediamento di pescatori con quattro case e due vie; ma qui, sul corso del fiume Snezhnaya, che va a tuffarsi ovviamente nel lago, passa il confine tra oblast di Irkutsk e Repubblica di Buriazia.
E la Buriazia non è mica un posto qualsiasi.



Tutta a montagne e valloni di roccia, stesa lungo il Bajkal, questa repubblica è casa di oltre 100 etnie, giunte qui nelle diverse e scomposte ondate della storia antica e recente. Le vicissitudini politiche di questo territorio sono simili a quelle dell’oblast di Irkutsk: impero Xiognu nei tre secoli prima di Cristo, lo stato mongolo Xianbei nei tre secoli successivi, duecento anni , fino al 550, di confederazione di tribù nomadi del Rouran, l’impero mongolo e poi, fino al 1691, la dinastia Yuan settentrionale. Sotto a questi diversi volti del potere hanno vissuto diverse etnie e confederazioni di tribù, dai Merkit, di origine turcica e poi assimilati ai mongoli, ai Bajad, clan dell’impero di Gengis Khan, dai Barga, che prendono nome dalla regione Bargujin-Tukum, che significa “la fine del mondo”, ed erano le rive del Bajkal, ai Tumed, “i più di diecimila”, altra etnia mongola.
I russi sono arrivati solo a fine Seicento, ed erano armati di fucili e violenza; cercavano l’oro, il legname, pellicce e nuove terre da colonizzare.
Oltre alle strade e alla morte, portarono qui la croce ortodossa, ma ancora oggi i cristiani sono circa in pari numero rispetto a coloro che professano il buddhismo tibetano, che si è diffuso nel XVII secolo; migliaia di buriati invece sono devoti alla religione sciamanica tradizionale: la natura è piena di dei, che abitano i boschi e le acque, e gli spiriti aleggiano nella bruma della sera; tutto è magico e ci sono formule e riti perché l’ombra torni a splendere. Questa religione è detta “sciamanesimo nero”, cioè puro, diverso da quello “giallo”, cioè influenzato dal buddhismo.
Interessante è il frappè culturale che è venuto fuori poi dal mescolarsi di buddhismo e sciamanesimo, in una sorta di ateismo ecologico diffuso nella repubblica.
I buriati discendono dal mescolarsi di gruppi siberiani e mongoli, da cui hanno ereditato l’allevamento e l’agricoltura itineranti e le tipiche tende, le ger, oltre alla lingua; o meglio, tutti questi usi sono stati imposti ai nativi dai mongoli durante il loro dominio, iniziato nel 1207 da uno dei figli di Gengis Khan; con l’arrivo dei russi, nel Seicento, per i buriati, ormai un mosaico di etnie diverse portate a incontrarsi dalla loro natura nomade, cambiò solo il nome del padrone a cui versare la tassa in pellicce di zibellino (ah, quanti ne ho visti in questi giorni!).
Durante la guerra civile si schierarono con i bianchi, nella cavalleria, mentre poi si piegarono, ma mai con devozione, al potere sovietico; solo la battaglia per non cedere all’ateismo di stato fu dura e mai vinta ma nemmeno persa del tutto, nonostante la distruzione di templi e opere d’arte.
Negli anni ’30 i russi fecero qui degli studi per smontare le teorie naziste sulla razza: dimostrarono, ad esempio, che buriati, russi e mongoli erano in grado di resistere alla fatica allo stesso modo, senza differenza, pur essendo di “razze” diverse.
Non mancarono le ribellioni contro la collettivizzazione, che costarono decine di migliaia di morti, ammazzati dall’Armata rossa, e molti rifugiati in Mongolia. Stalin, poi, temendo il nazionalismo buriato, sbriciolò la regione in tanti piccoli frammenti amministrativi e fece sparire più di 10.000 persone nelle sue purghe. Oplà.
Però la cultura locale è rimasta ben radicata e viva ed è sopravvissuta a tutte le bufere, nei vestiti e nella musica, nei volti dagli occhi felini e nelle melodie di una lingua altra.
E insomma, per farla breve: sono entrata in Buriazia.
Il tragicomico è giunto di lì a poco con la solita estenuante ricerca di un luogo per la notte. Avevo individuato un “Tourist center” nel villaggio di Tankhoy, una sorta di ostello-dormitorio con anche un’area per il campeggio, proprio sulle rive del lago. La stagione ormai volge al termine, come dimostrano il cielo e il termometro, e quindi chi vuoi che ci sia? Per sicurezza, al mattino, ho comunque inviato una prenotazione attraverso il form del loro sito. Così, per star tranquilli.
A 20km dall’arrivo, ore 18, con le energie ormai quasi esaurite, ricevo una telefonata dall’arzillo Raymond, che è già arrivato, lui e la sua t-shirt e i suoi pantaloni corti e sandali in quel gelo. E’ arrivato e non c’è posto per noi. Con la morte nel cuore lo raggiungo e mi dice che al Centro ha chiesto ma gli han detto che non ci sono altri hotel e il più vicino è a 55km (whaaaat?!); però ha interrogato due bambini del paese e gli han fatto capire che giù al villaggio c’è una gostinitsa. 

rido per non piangere nel fagotto di vestiti alla Amundsen. Notare la poltrona alla fermata del bus


Scendiamo sulla strada bassa e scassata.



Chiediamo a un ragazzo che falcia il prato, e ci dice di andar dritti e poi a sinistra, ma pare un po’ indietro di cartella, un po’ scemo. Possibile che quando si ha bisogno si incontra sempre le scemo del villaggio? Il paese sta per finire. Più oltre, ormai fuori dall’abitato, fermiamo una coppia di ragazzi che ci confermano che sì, l’albergo c’è, è quel palazzone lì. Ci avviciniamo.



Detriti, macerie, le capre che pascolano indisturbate nel cortile recintato di filo spinato tutto arrugginito. Il palazzo è abbandonato, evidentemente. L’unico ingresso è una porta di legno sbarrata dall’interno. Mi torna in mente l’esperienza da brivido con i bimbi randagi al Sibir’. Dico a Raymond che forse è meglio lasciar perdere  e trovare alternative, magari la tenda, lì da qualche parte sulla spiaggia. Non finisco la frase che arrivano tre uomini in mimetica su un furgone scassato. Chiediamo lumi e scopriamo che uno di loro è il proprietario della struttura che sì è un hotel, ed ha posto per noi. Ma questo è un miracolo! Probabilmente del nostro arrivo sono stati avvisati dai due bimbi o da qualcuno del paese, che è piccolo, e la gente mormora. Ci apre la porta e portiamo le bici nella hall, che è evidentemente quella di un albergo abbandonato. 





Saliamo all’ultimo piano e, miracolo, miracolo davvero, ci sono le stanze numerate e con dei veri letti, il bagno con l’acqua calda per la doccia, una cucina “luxury”  e pure la sala da pranzo. 






E una gattina amorevolissima che mi ha seguita poi per tutto il giorno, dormendo e mangiando con me.





Il buon proprietario del cinque stelle, poi, è stato tanto gentile da accompagnarci in auto fin al negozietto di alimentari che stava dall’altra parte del paese, unico luogo dove reperire una cena. Ma che si vuole di più, nella vita, che una casa così, con la finestra affacciata al tramonto sul Bajkal, che trema al passaggio dei convogli della Transiberiana nella notte?



La mattina seguente, come al solito, Raymond ed io ci siamo alzati insieme, abbiamo fatto colazione e lui poi è uscito presto, mentre io son rimasta a scrivere e a coccolare la gattella, il minifusicembalo che fa sentire subito a casa.



Il tempo pareva meno crudele e infatti così è stato quasi fino alla fine. Quasi perché a 6km dall’arrivo ci si è rovesciata in testa una grandinata improvvisa, in mezzo ai campi, senza alberi né tettoie per ripararsi; per fortuna con chicchi non troppo grossi.



La tappa di oggi è stata lunga ma meno impegnativa: meno salite cattive, meno freddo, meno pioggia (solo una doccia di venti minuti a metà strada, così, per tenere ben umidi i vestiti). 











Ho recuperato Raymond ai 60km, per superarlo ed essere a mia volta raggiunta durante una sosta caffè gelato e pipì (na ulitsa of course, perché il cesso al chiuso e al caldo nie rabotaiet, non funziona. A proposito, il nie rabotaiet ormai è la frase che io e Ray usiamo più spesso come simbolo supremo delle cose di Russia. Che ci sono. Sarebbero belle e utili e comode. Ma non funzionano, sono rotte o fuori servizio. Qui tutto nie rabotaiet, Il boiler non va, la chiave non apre la serratura, la luce non s’accende, l’acqua manca, il locale è chiuso, il motore non s’accende. Nie rabotaiet).
Fortunatamente la strada è stata clemente, si è stesa in qualche, pur breve, tratto quasi pianeggiante ed è stata in parte illuminata da un timido sole.






In 130km abbiamo incrociato una sola città, Babushkin, così chiamata in onore del rivoluzionario Ivan Babushkin e due soli kafè. Raymond se la rideva dicendo che si è fermato in ogni bistrot che ha incontrato per strada, dicendo che in Francia è un modo per dire che si è bevuto tanto, ma i bistrot eran solo due, in uno ha pranzato con borsh e kotoliet e lenticchie, in uno ha fatto merenda con me, a caffè e dolcioni al formaggio e zucchero, e quindi grasse risate bretoni. Ho riso io quando, dal kafè, è uscito fuori al gelo in tutta fretta, nei suoi braghini corti dicendo che andava a mangiare la banana perché era ora di farlo. Intendeva che era mezza marcia e andava mangiata, ma da come l’ha detto pareva ci fosse un preciso orario quotidiano da rispettare per mangiare le banane. E quindi grasse risate volpine. E’ bello rider per niente così, in mezzo al freddo nulla di Siberia. Anzi, salva proprio la vita.

 

L’ultimo tratto di tappa s’è percorso insieme, e l’arrivo oggi è stato tranquillo, grandine a parte. Il proprietario dell’appartamento di Kabansk fin da ieri mi ha contattata per accordarci sull’arrivo, e tutto è andato liscio come non mai, anche perché il giovanotto parla bene l’inglese. Spesa e via di nuovo a cucinare una cena da re nella nostra casetta in periferia d’un paese agricolo di periferia, tra i campi e le colline, alle spalle il Bajkal e davanti il fiume Selenga, di cui domani seguiremo il corso fino a Ulan-Ude. Si spera in valle, in una sterminata pianura piattissima, senza salite. Chè me ne toccheranno ancora di aggressive i giorni prossimi, e le mie gambe iniziano a lamentarsi.






 

Concludo con una cosa che mi ha detto Raymond, tra le molte sue private che terrò per me e sono un bel tesoro, piccolo e splendido, di un’amicizia che chissà non prosegue su altre strade, sotto nuove lune, in terre lontane.
Dice che a muoverlo è “la conquista dell’inutile”.
Pensateci. E’ geniale.
La conquista dell’inutile.











1 commento:

  1. Noi pensiamo che la conquista appaghi e l'inutile diventi qualcosa di prezioso nella persona che ha lottato per conquistarlo. Speriamo che per le prossime tappe ci siano sole e strade belle. Un affettuoso saluto a te e al tuo amico Raymond. Sila e Franco

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